Secondo Fromm, ciò che accomuna i tre fenomeni è il fatto che espressivamente tutti e tre si presentano con un linguaggio simile. Linguaggio, aggiunge Fromm, che nella nostra società è divenuto indecifrabile a causa del prevalere di altre forme di comunicazione: il linguaggio del logos, contrapposto a quello del mythos, e legato in ultima istanza al tipo di sviluppo che la civiltà occidentale ha avuto prima o poi in tutti i suoi ambiti (Vernant, 1981).
Niente di grave se questa lingua, divenutaci estranea, servisse ad esprimere cose che non ci sono più; il fatto è che, però, attraverso i miti, le fiabe e i sogni è possibile ancor oggi (e si presume per sempre) accedere alla comprensione delle emozioni più profonde dell’uomo, e quindi l’allontanamento da queste forme del sentire umano appare non come una perdita di poco conto, ma come un processo di impoverimento e di estraneazione da se stessi di ben più pesante portata.
L’allontanarci da questo sentire, la perdita di questi luoghi, il mancato ingresso in questa fatata macchina del tempo, cioè, ci spingono sempre più lontano da quel terreno comune di emozioni, sentimenti e vissuti che è l’essenza dell’umano sentire.
Questo allontanamento dai luoghi del mythos definisce anche una difficoltà, direttamente proporzionale alla distanza stessa, nella misura in cui si decide di intraprendere la via del ritorno. Ritorno ad un sentire basato sul mythos e sull’empatia. Ritorno in un luogo dimenticato, abbandonato. Ritorno in una dimensione temporale ambigua, di sospensione.
Ed allora occorre essere molto guardinghi lungo questa strada, e soprattutto attenti agli strumenti interpretativi che si usano ed alla loro congruenza con i fenomeni che pretendono di spiegare.
E, per limitarci al tema che ci siamo dati, abbiamo già visto, ad esempio, alcuni legami fra fiaba e sogno (vissuto e narrato). Ciò però è solo uno dei tanti tratti in comune tra i due fenomeni. Fromm parla chiaro: il linguaggio è lo stesso. Non basta quindi scoprire qualche tratto in comune, occorre trovare la chiave (o le chiavi) che aprano le porte del sogno (come recita il titolo di un bel testo di Carloni) e delle fiabe, ed occorre soprattutto che tali chiavi siano quelle giuste per poter dire di aver risolto efficacemente il problema.
Ebbene, anche a voler limitare la nostra ricerca in ambito psicoanalitico, siamo già in un campo minato. Infatti per Jung l’autoconsapevolezza (cioè quel sentire di cui si parlava prima) si raggiunge attraverso la conoscenza di un inventario dei contenuti psichici, inconsci, repressi; inventario che si fa in base ad un campionario fisso di simboli, diciamo così, transpersonali.
Per Freud (1968) invece l’autoconsapevolezza si raggiunge a partire da una rielaborazione, nel rapporto analitico ed in base all’analisi del transfert, del materiale infantile interiorizzato da ciascun individuo in base ai propri personalissimi modelli parentali.
Per Freud cioè non esiste un campionario fisso di simboli (gli archetipi junghiani) valido per tutti gli uomini e per tutte le occasioni: è nel rapporto fra chi concretamente è in gioco che si determina una dialettica che permette il raggiungimento dell’autoconsapevolezza.
Questo per non parlare del diverso modo di vedere in generale la struttura della psiche umana da parte dei due, con tutto ciò che ne consegue in campo ermeneutico.
Ma è sul terreno del rapporto tra fiaba e mito che si incontrano, a mio avviso, le maggiori difficoltà. Se il sogno, infatti, in fondo è sempre un mio o un tuo sogno: un qualcosa cioè che attiene alla dimensione storica del presente, così come alle esigenze terapeutiche del presente deve adattarsi la fiaba allorché torna ad essere raccontata (e ovviamente nella misura in cui esiste ancora qualcuno disposto oggi ad adattarla ad una udienza attuale, e una udienza disposta ad ascoltarla), il mito sembra ormai riferirsi ad una archeologia dei sentimenti e delle emozioni.
Ed è qui che si rischia di usare strumenti incongrui di interpretazione, poiché innanzitutto vi è polemica sul rapporto fra interpretazione e varietà delle culture.
Da una parte le posizioni freudiane ortodosse (Roheim) che reclamano l’universalità dell’Edipo, ma che sono inficiate da «contaminazione fra categorie psicologiche e ipotesi biologiche» deterministiche (Scabini, 1975, pag. IX). Dall’altra le posizioni culturaliste dei revisionisti neofreudiani (Fromm, Horney, etc.) che arrivano a negare l’universalità dell’Edipo e ad ipostatizzare un relativismo culturale che castra ogni possibilità di definire dei «sistemi interpretativi unitari di stabilizzazione del mondo» (Habermas 1978). Infine l’approccio universalizzante della scuola di Francoforte (Marcuse e, più recentemente, Habermas) che ripropongono l’universalità delle categorie interpretative della psicoanalisi, storicizzandole, e senza più incongruenti e fuorvianti debiti con il darwinismo.
Ma a parte queste divergenze resta il fatto che, come diceva Fromm, da un linguaggio universale (anche se dimenticato) derivano vari “dialetti”, cioè varie versioni dei miti, delle fiabe, delle “storie” che gli uomini da sempre (si) raccontano. Ed allora è necessario trovare delle chiavi che siano in grado di cogliere sia l’aspetto universale dei fenomeni psichici sia le ragioni delle varietà regionali e locali, sia gli elementi del passato presenti nel nostro modo di vivere, sia infine le forme nuove sotto le quali si presentano tali elementi.
A mio modo di vedere l’esigenza (già espressa nel capitolo precedente) di un approccio interdisciplinare, è fondamentale in proposito, e mi sembrano importanti sia le pagine di J.P. Vernant sulle “ragioni del mito” ed il suo tentativo di vedere questo fenomeno a partire da un uso critico delle varie discipline che si sono avvicinate alla sua analisi, sia d’altra parte i lavori degli etnologi e degli studiosi della fiaba e del folklore intorno ai meccanismi di contaminazione reciproca delle varie forme del “raccontare orale” (Cirese, Lüthi, Milillo, Propp).
Queste considerazioni, viste nell’ottica del rapporto fra mito, fiaba ed altri elementi del “raccontare orale”, a mio avviso ci potrebbero portare a formulare la seguente ipotesi:
– la presenza in occidente (nella Grecia antica) di una filosofia basata sul mythos, trasmessa oralmente, che era la filosofia dominante nella Grecia preistorica;
– la possibilità che tale filosofia, pur ponendosi problemi universali, abbia avuto fin dall’inizio una certa tendenza, favorita dalla trasmissione orale[1], alla scomposizione del mythos in tanti “dialetti mitologici”, corrispondenti a esigenze di modulazione su base cultural-specifica dei temi di fondo posti dal mythos (I‘opera di Graves può essere vista come un tentativo di ricerca che va in questo senso);
– l’ipotesi, sempre di Graves, che tale modulazione avvenisse come per condensazione di vari elementi del raccontare orale, diversi da luogo a luogo, e perciò forieri di varianti locali, sempre originali e specifiche, ma sempre riferibili ad un senso “universale”;
– la nascita della filosofia greca del logos da una parte, e la cristallizzazione dei miti nella tragedia e nella letteratura greca e latina dell’altra, come testimonianza dell’emergere di una nuova forma di pensiero e di vita materiale (il pensiero logico della filosofia occidentale) e dell’inizio di un processo di eclissi del mito;
– l’emergere della fiaba come fenomeno apparentato probabilmente al mito, e sicuramente ad altre forme del raccontare orale, che in ultima istanza è da riconnettersi all’estendersi nel mondo materiale della civiltà del fare e del trasformare, e del pensiero razionale ad essa connesso[2];
– l’ipotesi che un processo di regionalizzazione e di restrizione dell’udienza delle fiabe (dalla comunità nella sua interezza ai soli bambini) dia luogo, come per i miti, a processi di condensazione e di spostamento che, come vedremo meglio nei due capitoli successivi, determinano le varianti locali e, al limite, ‘familiari’ delle varie fiabe;
– ed infine il rischio attuale di allontanamento, se non di estraneazione dalla primitiva religione del mythos, e dalla più recente filosofia delle fiabe, e la psicoanalisi come chiave che può riaprire le porte del sogno, della fiaba e del mito, nella misura in cui però non opponga individuo e società, ma cerchi nella dimensione individuale l’elemento gruppale, e nella società la rappresentazione di quegli elementi individuali, comuni a tutti gli uomini, che permettono, nonostante la babele dei dialetti, una comprensione di tutti.
Bibliografia
- Carloni G. 1963, La fiaba alla luce della psicoanalisi, da “Rivista della psicoanalisi, Anno IX, Maggio-Agosto.
- Cirese A.M., 1980. “Qualcosa è fiaba, ma cosa? Spezzoni di un discorso” in AA.W. Tutto è fiaba. Emme ed. Milano. pp. 5/19.
- Freud S. 1968. L’interpretazione dei sogni. Avanzini e Torraca. Roma.
- Fromm E. 1973. Il linguaggio dimenticato. Garzanti. Milano.
- Habermas J. 1978. Teoria e prassi della società tecnologica. Laterza. Bari.
- Horney K, 1959, Nuove vie della psicoanalisi, Bompiani, Milano
- Jung C.G. 1973. L’Io e l’inconscio. Boringhieri. Milano.
- Lüthi M. 1979. La fiaba popolare europea: forma e natura. Mursia. Milano.
- Marcuse H. 1968. Eros e civiltà. Einaudi. Torino.
- Milillo A., 1983. “La vita e il suo racconto”. Tra favola e memoria storica. Casa del Libro ed. Roma.
- Ong W.J. 1986. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola. Il Mulino. Bologna
- Propp V.J. 1966. Morfologia della fiaba. Einaudi. Torino.
- Propp V.J., 1975. Edipo alla luce del folklore. Einaudi. Torino.
- Roheim G. 1974. Psicoanalisi ed antropologia. Rizzoli. Milano.
- Scabini E. (a cura di) 1975. Psicoanalisi e società. Giappichelli. Torino
- Vernant J.P. 1981. Mito e società nell’antica Grecia. Einaudi. Torino
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