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SPUNTI DAL N. 398 DELLA RIVISTA “AUT AUT”: “La psichiatria e il futuro della salute mentale”

4 Nov 23

A cura di ct

Ho trovato il numero 398 della rivista “aut aut” curato da Mauro Bertani, Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, straordinariamente ricco di riflessioni originali, irriverenti, talvolta dirompenti, sulla recente evoluzione della psichiatria e delle politiche per la salute mentale.
Personalmente, considero da sempre questi due termini nella sostanza intercambiabili; o, più letteralmente, la salute mentale come l’obiettivo della psichiatria (Ferrannini e Peloso, RSF, 2005), in una concezione ovviamente allargata di quest’ultima che oltrepassi il concetto di iatria per tutto ciò che riguarda i protagonisti, gli strumenti e gli obiettivi.
Mi ha fatto perciò piacere leggere nella premessa che i curatori avvertono a propria volta l’inutilità e il rischio di far «cozzare» i due termini l’uno contro l’altro in «un contrasto artificioso, come se si trattasse di uno scontro tra modernità e arretratezza», tra scienza e assistenza, tra paradigma biomedico e prassi psicosociale, tra scotomizzazione ed esagerazione della dimensione collettiva e politica.
Un’altra preoccupazione che condivido è che il discorso prevalente della Global Mental Health, dietro l’apparenza di essere volto verso obiettivi di salute pubblica e diritti umani, tenda in realtà a imporre «in modo surrettizio un modello di gestione manageriale riconoscibile e misurabile» nel quale l’attenzione per la voce dei pazienti e le loro associazioni finisce per essere più apparente che reale. E anzi, talora pare di indovinare  la possibilità di interessi privati e di «una nuova forma di colonizzazione psichiatrica» da parte di «un modello occidentale di comprensione e gestione della malattia mentale».
Tutto ciò, osservano ancora i curatori, è ben lontano da ciò che immaginava Basaglia (al quale, evidentemente, è indispensabile anche secondo loro ritornare, almeno per individuare un metro di confronto col quale rapportarsi). Perché siamo «nell’epoca dei manager della salute mentale, che si qualificano come specialisti delle buone pratiche in funzione di un efficiente governo clinico della sofferenza, ma che spesso nascondono le concessioni più inaccettabili accordate alle esigenze di controllo sociale e di sicurezza urbana».
Fare la guardia contro il pericolo e il disordine, operare per la tranquillità e per il decoro, come approfondiscono oltre Di Vittorio e Bozzani, insomma: a questo la sostanza della psichiatria rischia ancora di ridursi, magari con in più oggi l’obiettivo secondario di procacciare margini di profitto per le imprese del settore. E a dare così in modo acritico il suo contributo a una razionalità che «mentre si preoccupa di debellare la spazzatura fastidiosa che infesta le nostre città, ne organizza la lucrosa gestione nelle varie discariche socio-assistenziali».
Nel primo articolo l’antropologa Anne M. Lowell, rifacendosi a un testo di Robert Castel di prossima pubblicazione in Italia, La gestione dei rischi, commenta l’affermarsi negli ultimi 25 anni della malattia mentale come problema sanitario globale sulla scorta dei suoi effetti invalidanti. Sono interessanti le sue considerazioni sul nesso che viene così a stabilirsi tra marginalità, pericolosità e malattia mentale in una grande metropoli come New York, dove i diseredati si contano a migliaia e la loro condizione continua a essere attribuita, nel mondo anglosassone, più a fattori psicologici individuali che a oggettivi problemi di diseguaglianza (con un atteggiamento, peraltro, che era già stato fatto oggetto di critica mezzo secolo fa dai Basaglia ne La maggioranza deviante). Ma la questione delle disuguaglianze si ripropone, per Lovell, quando si consideri che anche se le neuroscienze, pur non vantando trionfi, hanno registrato qualche innegabile progresso, dalla sua fruizione l’economia globale continua a escludere settori molto ampi della popolazione del mondo.
La conclusione, forse un po’ banale, che mi pare si debba trarre da questo ragionamento, è che si può girarla come si vuole, ma è difficile pensare a una salute mentale equamente distribuita, in una società che non è complessivamente in grado di distribuire equamente la ricchezza.
È poi la volta del sociologo Luca Negrogno dell’Istituzione Minguzzi di Bologna, il quale prende le mosse da quella che viene percepita da molti come un’evidente sproporzione tra la grandiosità degli obiettivi enunciati dall’OMS e la limitatezza dei risultati, nel campo della salute mentale come in altri. La ragione che individua è che le questioni di salute che l’OMS affronta hanno, il più delle volte, a che fare con scelte di natura politica, rispetto alle quali l’impegno alla neutralità cui l’OMS è vincolato e le sue esigenze di finanziamento limitano enormemente la concreta incisività della sua azione. Un tema, questo, che ritorna nell’intervento di Benedetto Saraceno, psichiatra già responsabile dell’ufficio per la Salute mentale dell’OMS, quando scrive a proposito della scarsa  ricaduta delle posizioni assunte dalle istituzioni internazionali della Global Mental Health nei luoghi nei quali si esercita quotidianamente la cura, dove sono spesso del tutto sconosciute o, quando note, sono considerate al più mera retorica. Le ragioni che individua, e che mi pare siano interamente da condividere, sono tre: il fatto che ai principi enunciati, in genere difficilmente contestabili proprio perché generici, non corrisponda in genere l’indicazione di «azioni concrete di trasformazione della realtà dei servizi»; il fatto che l’esigenza di creare consenso e mantenere una posizione neutrale e asettica impedisca un’azione di critica di ciò che avviene nelle realtà dei diversi Paesi; e quindi l’incapacità di «scelte di campo nette e non ambigue nei confronti dei “crimini di pace” commessi dalle psichiatrie locali», ivi compresa la scotomizzazione delle responsabilità dell’industria farmaceutica.
Rispetto agli scritti di Basaglia su queste questioni, mi pare che manchi insomma alle organizzazioni della Global Mental Health, proprio per la loro natura “super partes” e intergovernativa, un rapporto con l’analisi delle questioni alla luce del marxismo, se posso permettermi di evocare questa cosa divenuta imbarazzante nel discorso pubblico, il che finisce per rendere le loro affermazionisolo petizioni di principio. È stato questo rapporto, credo, a consentire invece alle parole di Basaglia di rimanere autenticamente libere e non assumere mai i rapporti di potere dati e i modelli esistenti per definitivi, consentendo loro di divenire così, nelle parole di Saraceno: «progetto di una civitas (di una cittadinanza, di una civiltà) in costante trasformazione».
Benedetto identifica oggi quattro modelli prevalenti di psichiatria: biomedico, psicoanalitico, della critica anti-istituzionale e pragmatico-globale, e mi pare interessante rilevare che, mutatis mutandis certo, questi modelli mi paiono corrispondere, nella sostanza, a quelli identificati che Michele Risso nel suo intervento al I congresso di Psichiatria Democratica, nel 1974. Poco parrebbe esserci di nuovo sotto il sole, allora, dopo cinquant’anni.
Mi ha colpito soprattutto, dell’articolo dello psicologo Riccardo Ierna, la critica davvero irrivernte della quale fa oggetto un concetto oggi utilizzato nel campo della salute mentale come un mantra che tutto giustifica, quello di “recovery”, a proposito del quale cita una constatazione banale (ma quanto vera) di Diana Rose: «Per quanto gli obiettivi della recovery siano intesi come “personali”, certi obiettivi non sono permessi. Tu non puoi decidere di stare a letto per un mese».
Già. Mi è facile citare al riguardo cose accadute in questi ultimi giorni, che riguardano due giovani in carico per un problema che possiamo definire appartenente allo “spettro schizofrenico”, giusto per darne un’idea. Silvio ha scelto di interrompere le medicine, di non iniziare a far nulla a settembre, né scuola né ricerca di lavoro, per dedicarsi a una sorta di percorso individuale di meditazione buddista, e poi di sottrarsi al controllo diretto dei suoi e indiretto del servizio per intraprendere un viaggio, senza dare più notizie di sé. Antonio ha deciso pure di interrompere gradualmente le cure, qualche settimana dopo sono comparsi i primi inequivocabili sintomi e, al tentativo di renderlo consapevole e farglieli riprendere, ha continua a opporre un rifiuto che per un momento è parso non negoziabile…. Entrambe le situazioni sono finite, dopo aspri litigi in famiglia e presso il CSM, con la minaccia di un TSO, lasciando che la recovery…. sia per un’altra volta. E del resto mi pare difficile immaginare che altra soluzione fosse possibile… A Carla invece è stata diagnosticata una grave infezione, per la quale rischia la sepsi a meno che non porti a termine un ciclo antibiotico. Ma lascia il reparto medico nel quale era ricoverata per ritornare alla sua vita vagabonda; con lei si riesce a negoziare un ritorno in ospedale, dove accetta lei, come accetta lei, quando accetta lei… Ma certo ritornare alla vita in strada è qualcosa che non possiamo permetterle, recovery o non recovery… Si può parlare di ricerca del consenso, di mediazione in tutti e tre i casi, ma forse in tutti e tre casi la “funzione tutoria” del CSM con la “recovery” è giunta a stridere pesantemente… E non sempre la ricerca del consenso ha lo stesso successo.
Si può seguire l’inclinazione del soggetto, allora, d’accordo, ma solo finché non viene troppo a stridere con ciò che la salute mentale, pretese interprete del buon senso, pensa che sia bene per lui…
Non solo; la critica che Ierna porta a questo concetto al quale tutta la “moderna” psichiatria deferente si inchina va oltre, individuando nell’insistenza su di esso anche il rischio di contribuire a una riduzione delle questioni di salute mentale all’ambito privatistico della coppia paziente/servizio, favorita peraltro già dal fatto che: «ormai da anni questo sistema si regge soprattutto su una progressiva spoliticizzazione e su un neutralismo attivo delle professioni sanitarie, in particolare nel settore delle discipline psy, legate quasi esclusivamente a interessi corporativi o di difesa dello status quo. Un sistema caratterizzato dalla scomparsa di un lavorio di équipe, di una multidisciplinarietà realmente praticata, di una polivalenza dell’operatore psichiatrico e di una metodologia di lavoro in grado di ricollocare la persona con disturbo mentale, al di là della sofferenza individuale, in un contesto familiare e sociale storicamente determinato».
Né a queste critiche, o a una lettura laica e disincantata di questo concetto, sfuggono i tentativi, ancora neppure tanto diffusi come qualche anno fa ci si sarebbe potuti attendere, di professionalizzazione di utenti e familiari “esperti”, nei quali Ierna, assumendo una posizione nuovamente dissacrante, vede il rischio di un ripiego rispetto alla possibilità, degli uni e degli altri, di incidere realmente sugli indirizzi delle politiche sanitarie che, in definitiva, li riguardano tanto da vicino. E quindi in definitiva quella che rischia di essere una fregatura.
Nel contributo di Di Vittorio e Bozzani sulla relazione tra politiche di salute mentale e controllo sociale, ho trovato stimolante, oltre alle considerazioni già richiamate, il fatto che, a partire da una pregevole ricostruzione storica dell’evoluzione del concetto di salute mentale, essi propongano che la vera dicotomia non stia tanto tra psichiatria e salute mentale, quanto piuttosto all’interno del concetto stesso di “salute mentale” che, se indagato nella prospettiva storica, dimostra di non essere affatto neutrale come parrebbe, ma di volta in volta definito da ciò con cui viene fatto coincidere. Che può essere, a seconda degli obiettivi che la salute mentale persegue e della polarità politica che assume, che possono essere addirittura opposti, più spesso inconsapevolmente confusi l’uno con l’altro: quello che ha assunto dalla seconda metà dell’Ottocento di «gestione medico-politica delle popolazioni», uno dei cui esempi più chiari per l’Italia mi pare possa essere considerato Lombroso, e quello opposto di perseguimento delle condizioni sociali idonee a una ri-soggettivazione dell’escluso, che trova la sua figura più emblematica in Basaglia.
Né la psichiatria né la salute mentale avrebbero in sé, insomma, una caratterizzazione politica stabile (una relazione stabile con il potere), ma parrebbero poterne assumere due opposte. E potrebbero essere così, dal punto di vista dell’escluso, strumento di oppressione o/e di liberazione; rimanendo però, soprattutto in questa seconda direzione, credo, condannate alla contraddizione di essere al più insieme l’una cosa e l’altra.
Segue un’intervista a Olga Kalina, nella quale la presidente della Rete europea degli (ex) utenti e “sopravvissuti” alla psichiatria (ENUSP) insiste sull’importanza del fatto che anche le persone con problemi di salute mentale possano sviluppare la propria esistenza nell’ambiente naturale della comunità, problematizzando il ricorso al ricovero obbligatorio e l’inserimento in strutture di cura, delle quali sottolinea tra l’altro l’effetto di indurre autostigma (e il pensiero corre a Barton, Goffman o Basaglia stesso), sulla base della decisione di altri, come il giudice o il tutore. Insiste su questioni delicate e spesso sottaciute, come quella del diritto dei malati a una vita famigliare e sessuale e di un reale diritto alla privacy, come anche a quello «di assumersi dei rischi e prendere le proprie decisioni nella vita».  In un’altra parte dell’intervista, porta alle politiche di salute mentale una critica della cui fondatezza sono a mia volta convinto, cioè il fatto che le risorse di carattere clinico messe a disposizione siano molte più di quelle di carattere sociale.
Che la psichiatria, insomma, sia costretta a camminare zoppa, avendo una delle sue due gambe molto più in carne dell’altra, il che credo sia molto spesso alla base dei suoi insuccessi.
Se l’atteggiamento nei confronti della psichiatria e dei farmaci è molto diverso tra gli utenti che aderiscono alla sua rete, unanimemente avvertito tra loro invece è il bisogno di contare di più nelle decisioni, grandi e piccole, che li riguardano.
Tra i “materiali” proposti è pieno di spunti interessanti per la sua attualità l’intervista che Ernesto Venturini fece a Franco Basaglia nel 1979.
In essa lo psichiatra veneziano ritorna su alcune delle accuse delle quali era, ed è ancora, oggetto il suo lavoro da parte della scienza ufficiale: l’eccessiva ricerca di spettacolarizzazione e la diffidenza verso la trasformazione del “metodo” della deistituzionalizzazione in una teoria definitivamente codificata e compiuta.
E ricorda alcuni dei principali ostacoli che ha incontrato: il difficile rapporto con la cittadinanza e quello con il mondo politico e la magistratura, stretti uno e l’altra tra istanze di giustizia nei campi della lotta alla povertà e dei diritti umani da un lato, e pulsioni securitarie dall’altro. La difficoltà a trovare possibilità di espressione autentica per la follia, e la sofferenza e le contraddizioni che comporta, in una città costruita dalla e per la ragione. La resistenza al cambiamento opposta dal potere psichiatrico e la perdurante tendenza del capitalismo a generare esclusione, e insieme ad essa istituzioni nelle quali rinchiuderla, che certo la chiusura del manicomio non ha eliminato né avrebbe potuto eliminare. E, insieme, il disorientamento e l’angoscia che è destinato a vivere chi affronta la vita sociale, il lavoro e la propria interiorità in modo autentico, rinunciando a dare le cose per scontate e definitivamente decise una volta per tutte e sforzandosi di individuare volta per volta soluzioni pratiche, insieme agli altri, nella realtà.
Segue una silloge di brani di Robert Castel, nella quale il sociologo francese da una parte rivendica il fatto di avere identificato già nel 1973 con il saggio Lo psicoanalismo, pubblicato in Italia due anni dopo da Einaudi con prefazione dei Basaglia, nella «gestione delle popolazioni a rischio» e «nell’attivazione delle capacità dell’individuo», considerato nella sua dimensione psicologica, i «principi direttivi di una nuova modalità di governamentalità neoliberale» che continuava (e credo che in gran parte continui) a dare i suoi frutti. Che consistono nel perseguimento di un’efficienza che certo è funzionale in gran parte agli interessi del capitale, ma che riesce ad imporsi perché anche dal punto di vista dell’interesse generale ha ricadute non soltanto negative (pensiamo all’esempio della pandemia, con la sorprendentemente rapida identificazione del virus, dei reattivi, dei vaccini).
Tra tutti gli articoli del numero, quello che ha evocato maggiormente il mio interesse è stato però quello che Francesco Stoppa, l’unico peraltro degli autori che mi fosse del tutto ignoto prima di questa occasione, dedica alla necessità di una recovery per gli operatori, cogliendone il disagio per l’evoluzione dei servizi negli ultimi trent’anni. Un’evoluzione che si è persa, mi pare, la capacità di problematizzare perché ci si è abituati a considerarla una sorta di iattura inevitabile, alla quale non è possibile sottrarsi se non uscendo dal sistema e rifugiandosi (come molti peraltro effettivamente vedo che fanno) nei setting privati.
Stoppa incontra, nella sua attività di formatore, molto disagio e si interroga in propoosito identificandone una tra le cause non secondarie nella sensazione di essere divenuti vittima, e credo sia esperienza comune nei servizi, di una sorta di «ossessione contabile» per la quale ciò che esula dall’efficienza, dalla semplificazione, dalla standardizzazione rischia di apparire improduttivo, a fronte di parole d’ordine che si sono imposte quali: «abbreviare, semplificare, non perdere tempo nell’argomentazione e nella riflessione».
Nel lavoro istituzionale, avviene così che «alla complessità del fattore umano, all’incalcolabile, al non predicibile» sia sempre più difficile dare uno spazio, perché «l’assimilazione delle conoscenze ai processi procedurali e computazionali non può che promuovere forme devitalizzate di sapere, dove la nominazione del disagio si riduce a un inquadramento nosografico cui far seguire precise linee guida». Il che certo è in parte inevitrabile nell’istituzione, ma compoorta ricadute negative che raramente vengono fatte oggetto di pensiero.
Si rischia così che ci sia sempre minor spazio per il lavoro di équipe, la formazione che è spesso la prima spesa a essere contratta quando si tratta di far cassa, e in genere per quelli che Stoppa chiama i momenti di «sane inoperosità», tra gli operatori stessi e con i pazienti, di parole in libertà e di silenzi, tutte cose che sono indispensabili al pensiero e all’ascolto.
Questo processo, che Stoppa coglie e descrive con rari precisione, sensibilità e coraggio di essere controcorrente, ha per lui due ordini di ricadute negative, su entrambi i quali merita riflettere.
Per quel che riguarda l’operatore infatti, la trasformazione che gli è richiesta attraverso la sempre più insistente burocratizzazione della cura dall’essere l’artigiano, che nella creatività e nel senso di responsabilità personale percepisce «il piacere e l’orgoglio del lavoro di cura» (e il mio pensiero non può non andare a questo proposito al concetto di “bottega della psichiatria” caro ad Antonio Maria Ferro) all’essere mero operaio della cura, genera la sofferenza deumanizzante che accompagna ogni processo di alienazione. Niente di nuovo perché, ad averne memoria, si tratta su scala minore di quella stessa sofferenza che il giovane Marx coglieva e descriveva nei contadini e gli artigiani che la rivoluzione industriale trasformava, nei suoi anni, in proletari. Basterebbe del resto un po’ di attenzione per accorgersi di come tanti sbuffi e lamentele che capita di ascoltare quotidianamente nei nostri servizi abbiano a che fare proprio con l’ottusità burocratica alla quale ci si sente costretti a sacrificare tempo e passione che si avverte che potrebbero essere meglio impiegati. E come, per altri che magari sono giunti ai servizi senza che siano stati la passione e la curiosità a portarveli, l’ossessione burocratica che appiattisce le differenze, tanto tra gli operatori che tra i pazienti, rappresenti un sollievo perché evita la fatica delle emozioni e lo sforzo del pensiero. E dell’invenzione, perché tende a tutto appiattire.
Emozioni e pensiero che però, in psichiatria, si dà il caso che costituiscano l’ingrediente della cura, e così acvcade sull’altro versante che anche il paziente rischi di essere a sua volta vittima in questo processo, perché la cura che può ricevere è impoverita proprio del suo ingrediente più importante: la persona. La persona che egli ha necessità di essere considerato; e l’altra persona che egli ha necessità di incontrare.
Questa evoluzione dei servizi, considerata nel suo complesso, non è neutrale e veicola una precisa ideologia: cioè, nelle parole di Stoppa, l’illusione feticista che consiste nella «credenza acritica nella tecnocrazia dei saperi e in una modellistica istituzionale in grado di assicurare un funzionamento non contaminato da quello scarto di lavorazione rappresentato dal fattore umano». E, insieme, la possibilità di evitare il più possibile la «salutare sospensione del potere e del sapere dei tecnici» che consente di «mettere in cattedra la malattia e la marginalità affinché parlino e ci sia chi ascolta».
Ci sarebbero molti altri spunti da cogliere in questo articolo davvero completo e sentito, ma qui mi fermo, per rimandare alla lettura diretta che vale senz’altro la pena. Non senza rilevare doverosamente, però, che nell’apprezzarlo non mi considero un nemico dell’aziendalizzazione in se stessa, come le mie parole potrebbero qui far credere, ma semmai della sua interpretazione distorta che negli anni mi pare sia spesso prevalsa. Con Lino Ciancaglini (Atti XXXIV congresso SIPTM, 2000), e già prima con lui e Luigi Ferrannini (Prospettive psicoanalitiche…, 1998), avevamo accolto alcune delle parole d’ordine con le quali l’aziendalizzazione dei servizi si presentava (evitare l’autoreferenzialità, rendere conto per rendersi conto, non ammettere zone d’ombra nell’assistenza come erano allora l’ex O.P., l’O.P.G. e il carcere, i luoghi della marginalità ecc.) come la risposta a problemi esiziali che nei servizi degli anni ’80 erano andati sedimentando. Ma già allora manifestavamo anche la preoccupazione che lo sforzo di ordinare, registrare, rappresentare, ottimizzare a fini di efficienza, equità e universalismo il lavoro di cura, rischiasse di divenire più importante del lavoro stesso, con l’indispensabile attenzione e rispetto per la complessità che lo caratterizza e le soggettività che in esso devono potersi esprimere. E che la rappresentazione quantitativa e seriale del lavoro di cura, se dimentica che esso è in massima parte qualità e singolarità, rischia di generare effetti distorsivi e perversi.
Segue Mario Colucci, psichiatra triestino d’adozione, il quale affronta con grande equilibrio un tema oggi molto avvertito nei servizi, quello dell’incombenza del mondo della giustizia divenuta tale da rischiare di paralizzarne l’attività con una sensazione di essere a ogni passo sub judice. Sia sul versante delle questioni penali e civili che hanno a che fare con la vita dei pazienti, che su quello delle responsabilità indirette che possono essere imputate agli operatori.
Colucci contesta la ricostruzione, operata ad esempio a suo giudizio dal gruppo dell’Università di Sassari, in base alla quale la maggiore pressione giudiziaria della quale gli operatori psichiatrici, e gli psichiatri soprattutto, sono oggetto sarebbe da attribuire al venir meno della tolleranza con la quale i magistrati accompagnarono la chiusura dell’ospedale psichiatrico, per l’alto grado di eticità che le era unanimemente riconosciuta (il che è vero solo in parte, peraltro, se si ricorda che Basaglia stesso si trovò in tribunale in più occasioni, e altri dopo di lui). Colucci, invece, mi pare individuarne soprattutto la causa nel generale clima securitario che caratterizza l’Italia (e il mondo?) in questi ultimi anni e nel maggior peso che il potere giudiziario si è conquistato, che ha portato alla giurisdizzazione di fatto di ampi settori della vita pubblica, a partire dall’amministrazione e dalla politica, alla quale la psichiatria non ha potuto fare eccezione.
Coglie un elemento di sofferenza per il personale sanitario nel sentirsi oggetto di spinte opposte: chi lo vorrebbe più attivo nell’identificazione del fattore di rischio e nella prevenzione dei reati, con una spiccata tendenza alla “causalizzazione” del fattore di rischio nel valutare il suo operato; e chi, all’opposto, lo vorrebbe più attivo e coraggioso nella riabilitazione e nel reinserimento. Chi, insomma, vorrebbe una psichiatria più e aperta; e chi, insieme, la vorrebbe più prudente e chiusa.
Tutto questo ha spesso a che fare, per Colucci, con la pretesa di capacità predittive, da parte dello psichiatra, delle quali non può disporre. E rischia di schiacciarlo in una situazione di “psichiatria difensiva” per la quale, dal punto di vista della sua sicurezza, generale e propria, “chiudere” è sempre più prudente che “aprire”. Nella quale i “diritti deboli dei deboli”, come li chiama Cendon, finiscono per essere sempre più diritti deboli.
Un ulteriore elemento sul quale si sofferma criticamente è il sistema di reclutamento dei periti psichiatri, che va spesso a cadere su professionisti privi di esperienza clinica e della necessaria conoscenza del funzionamento dei servizi, quando non proprio attardati su una concezione deresponsabilizzante del malato. E quindi il comprensibile fastidio degli psichiatri impegnati nella clinica nel dover essere da loro giudicati, o anche indirizzati per tramite del magistrato.
A mettere il dito senta timidezze e infingimenti in un’altra piaga aperta dell’attuale sistema di cura è il sociologo Ciro Tarantino che si occupa delle “istituzioni totaloidi”, un’espressione particolarmente felice anche per l’eco lombrosiana che è implicita in essa, e dei casi di internamento, volontario nella forma ma spesso obbligatorio (o almeno ricattatorio) nella sostanza, in neoistituzioni sedicenti aperte, dove però la porta è chiusa. Nulla da obiettare, io credo, se è davvero necessario che sia chiusa, ma perché bisogna scrivere che è aperta?
Istituzioni dove l’assenso all’ingresso è a volte cercato, sulla testa del paziente, da figure come assistenti sociali, tutori o amministratori di sostegno, che a volte finiscono per essere funzionari della “protezione pubblica” per i quali: «il ricovero è solo la soluzione più disponibile, incisiva e duratura; un modo come un altro di fare il mestiere», specie nel tempo della «crisi della critica e sotto l’egida della ragione amministrativa».
Sono luoghi dove i più fingono di non vedere che vengono spesso, e meno comprensibilmente, impediti (non ho mai capito in base a quale diritto, logica e scopo) almeno in un periodo iniziale più o meno lungo d’”iniziazione”, in modo generalizzato e insindacabile strumenti del tutto normali della libertà personale: il libero consumo di sigarette, l’uso del cellulare, del denaro, i contatti con parenti e amici.
Tarantino si sofferma sul numero delle persone ospiti di “istituzioni con caratteristiche non famigliari” e spesso di grandi dimensioni, che in Italia nel 2019 corrispondeva alla ragguardevole cifra di 326.844, in 45.317 casii per disabilità o patologia mentale, certo meno rispetto ad altri Paesi europei, ma molti per un Paese che anni fa ha fatto della deistituzionalizzazione e dell’assistenza in setting “normali” di vita la bandiera delle sue politiche assistenziali.
Spetta, ancora, a Roberto Beneduce e Simona Taliani documentare come, in questo clima generale  non esaltante tutto diventi più difficile e gli spazi di libertà e discrezionalità si restringano ancora di più che per il cittadino per lo straniero, e a Mario Bertani approfondire un tema di indubbia attualità, quello di ricostruire i passaggi attraverso i quali il rapporto con il digitale ha cambiato (e più ancora cambierà) il mondo della salute mentale e delle implicazioni etiche e politiche, spesso trascurate, che questo solleva.
Entrando in servizio al mattino, salutati i colleghi, il primo gesto che ormai inavvertitamente faccio è accendere il computer. Convinto di utilizzare con questo uno strumento utile a comunicare, a raccogliere e ritrovare i dati, ad accelerare e facilitare la ricerca epidemiologica, certo. Ma gli utilizzi dell’intelligenza artificiale sui quali Bertani si sofferma sono anche altri: fornire modelli utili alla comprensione del funzionamento mentale, ad esempio, e soprattutto acquisire “funzioni terapeutiche” in grado di integrare, e magari in futuro sostituire, il nostro lavoro.
«Qualcuno», scrive infatti, «ha irnmaginato 1’avvento di una “nuova era” legata a tecnologie per “esperienze digitali virtuali” o “aumentate”, dispositivi di “psicodiagnostica digitalizzata”, devices
per la “teleterapia”, “neurosensori per l’autoregolazione emotiva”, sistemi di “realtà simulata” e di “psicoeducazione”, apparati per mindfulness, “rilassamento imrnersivo” e cyberdelia».
Certo non è possibile qui riprendere tutti i dati e le considerazioni delle quali è ricco l’articolo, ma mi limito a segnalare alcuni spunti. Come quello per cui qualcuno sostiene che «una psichiatria “ancora blooccata all’era di Freud potrà analizzare nel dettaglio, e con una finezza inedita, il discorso dei pazienti, l’insieme dei segni espressivi e dei sintomi (“con le emozioni umane sohhiacenti”), che le tecnologie digitali identificano». Opuure: «viene enfatizzata la capacità degli algoritrni di IA di comprendere stati d’animo, sentimenti, condizioni emotive, pensieri e desideri degli “utenti”, di “sperimentare” veri e propri stati “affettivi” e di riconoscere ed esprimere “emozioni”, grazie all’affective computing, che rileva affetti ed emozioni umane e reagisce a essi in maniera congruente. Oppure di predisporre “algoritmi di filtraggio collaborativo” capaci di prevedere quando un utente potrà trarre vantaggio da nuove attività terapeutiche»,
Non stupisce allora che ciò stia determinando «una profonda trasformazione di quelli che sono stati chiamati i “modi di soggettivazione” degli individui sofferenti».
E mi pare che Bertani sia convincente quando esprime, su tutto questo, la sua preoccupazione: «Ma occorre essere franchi e onesti: sappiamo che gli algoritmi possono funzionare da moltiplicatori di pregiudizi e discriminazione (…) e che possono contenere cognitive biases responsabili di esclusione e stigmatizzazione». E poi ancora: «In questa letteratura non viene mai posto il problema delle trasformazioni di una pratica antica di costituzione di sé: affidare a un altro (confessore, pastore di anime, medico, psichiatra, psicoterapeuta ecc.) i propri pensieri più segreti, le proprie angosce e le proprie paure, e insomma gli arcana conscientiae, attraverso la loro messa in forma di discorso rivolto a un altro che poco importa fosse inteso come rappresentante di un Altro».
Soprattutto: «La stessa soggettivita appare sempre più solo come apparato neurocerebrale, nel caso da correggere, rieducare o riprogrammare grazie alle nuove tecnologie. Una soggettivita, e in particolare quella preda del dolore e della disperazione, della solitudine e della derelizione, che sembra non prevedere più la necessitità dell’asco1to, del corpo come superficie su cui appare il linguaggio del sintomo, o di parole incerte e inintelligibili, che chiedono di essere comunque accolte, e uno spazio in cui potersi enunciare, foss’anche solo per un istante. Uno spazio in cui un soggetto possa comunque far valere una forza affermativa e un’enunciazione».
Sono tempi ostici, certo, soprattutto per gli psichiatri della mia generazione che hanno cominciato a lavorare quando i primi computer assomigliavano ancora alle macchine da scrivere, ma credo che averne consapevolezza, e Bertani ci aiuta in questo. Diversamente credo che, come si diceva un tempo per la filosofia, anche per ciò che riguarda la digitalizzazione gli psichiatri che non la conoscono, la faranno comunque, ma in modo inconsapevole.
Chiude il numero uno scritto di Franco Rotelli, che abbiamo ricordato in occasione della recente scomparsa (segui il link), e a seguire un suo ricordo da parte di Pier Aldo Rovatti.
È con le sue parole, allora, che – interpretando il desiderio dei curatori di rendergli omaggio – voglio chiudere anch’io la recensione di questo volume che il coraggio e l’onestà di porre in modo originale e irriverente, liberamente curioso, questioni fondamentali e spesso date per scontate, inevitabili, rende senz’altro meritevole di una lettura aperta, critica e attenta:

«Ci si potrebbe imrnaginare che la salute mentale stia laddove un soggetto può esistere con altri, attraverso il linguaggio comunicare di sé, poter di sé parlare per differenze accettabili, costituire per singolarità parziale e parziale comunanza. Costituirsi ed essere costituito laddove inclusione/esclusione si tendono e rischiano tra loro, sul limite sul quale altri possono trattenerti, tu possa trattenerti e insieme possa trovarsi un comune sentire, una prassi comune, un progetto interrelato».

N.B.: Il giorno 8 novembre dalle 17 alle 19 discuteranno del volume in un webimar organizzato dall’Istituzione Minguzzi di Bologna: Bruna Zani, Angelo Fioritti, Fabrizio Starace, Simona Taliani, Luca Negrogno. Su piattaforma Zoom, https://bit.ly/autaut398   ID riunione 83216381049  Codice d’ingresso 420750

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