Ritengo necessario che, per un Medico Psichiatra, la conoscenza della Poesia abbia un’importanza non inferiore a quella della neurobiologia e della psicopatologia. Ho illustrato questa mia opinione nel mio libro “Un Poeta per il Clinico” (Susil, 2022), in cui ho raccolto e commentato i suggerimenti, utili per comprendere la vita interiore dei miei pazienti, offerto da Baudelaire ne “Les fleurs du mal”. Riporto, qui sotto quel che dicevo nella prefazione. Forse qualcuno avrà già letto queste righe, ma… repetita iuvant.
“Il Poeta, nel momento in cui scrive i suoi versi, sceglie le parole che evocano nel modo più vivo ciò che sta provando, e che possono comunicarlo a chi lo legge. – Analogamente, il pittore compie la stessa scelta coi colori ed il musicista coi suoni – L’attività del terapeuta e del paziente non è dissimile: quest’ultimo prova a comunicare a chi lo cura quel che avviene nel proprio mondo interno. Può essere che scelga spontaneamente le parole più appropriate; può anche essere che, per i limiti delle sue capacità introspettive, o per quelli di ordine culturale, o per difficoltà emotive, si esprima in modo confuso. A quel punto, il terapeuta interviene suggerendo le parole che, in base a quel che ha intuito, riflettono più fedelmente quel che il paziente sta provando. Spesso si procede per tentativi: quando, finalmente, si sono trovate le parole giuste, il paziente avverte la sensazione d’essere entrato in un contatto intimo con ciò che sta avvenendo nella sua vita interiore. Questo esercizio linguistico “poetico” ha già, di per sé, una funzione terapeutica: il paziente, esprimendosi meglio, riesce anche a definirsi meglio, ed a riflettere su sé stesso con maggiore lucidità; il che significa un passo avanti nell’acquisizione della padronanza di sé. Se il terapeuta, attraverso lo studio della poesia, ha arricchito il suo vocabolario con termini che riflettono un’ampia gamma di sensazioni e di esperienze vissute, la sua capacità d’entrare in un contatto empatico con la persona che sta curando ne risulta notevolmente potenziata.
Queste considerazioni valgono soprattutto per chi commette l’errore d’esprimersi col paziente con un linguaggio tecnico psichiatrico. È uno sbaglio, per differenti motivi: non solo, ovviamente, perché tale modo di parlare risulta difficilmente comprensibile ai “non addetti ai lavori”, ma anche perché è un linguaggio che, pur necessario quando si ragiona “a freddo” al di fuori della situazione clinica, risulta, alle orecchie del paziente, lontano dalle sue emozioni e dalla sua esperienza vissuta. Esattamente l’opposto di quel che occorre in un rapporto fecondo fra curante e paziente o, in generale, fra due esseri umani. Considerazioni analoghe valgono anche per i termini tecnici psicoanalitici, che comunicano troppo crudamente (e spesso prematuramente) gli aspetti inconsci della psiche. Il Poeta ci offre metafore più allusive, più lontane (ma non troppo) dall’inconscio, più vicine alla coscienza, e come tali più accettabili e più immediatamente comprensibili da parte del paziente.
La lettura ad alta voce di poesie, di narrativa o di altri prodotti dell’immaginazione rientra nell’attività didattica condotta dallo psichiatra-analista Thomas Ogden nell’ambito dei suoi gruppi di supervisione e formazione. L’Autore la ritiene essenziale per risvegliare la capacità del terapeuta di “sognare” in seduta, ossia di mettere in moto l’attività immaginativa (l’attività onirica diurna) in risposta alle parole del paziente. Ciò costituisce un “addestramento dell’orecchio” (“ear training”) in quanto comporta l’affinamento della capacità di rendersi conto degli effetti interiori prodotti dal linguaggio. In particolare, ci si rende più sensibili alle comunicazioni subliminali veicolate dai suoni, dalla “voce” che parla nella comunicazione e dalle “voci sovrapposte” (“oversounds”, secondo l’espressione del Poeta Frost). Inoltre si diventa capaci di collegare i più disparati significati intendendoli come comunicazioni ambigue o come metafore. Infine, si diviene in grado di produrre una molteplicità di associazioni d’idee a partire dal ritmo del messaggio verbale, dalle assonanze, dalle consonanze, dalle allitterazioni.”
Riportando queste righe, credo d’aver dato una risposta alla prima domanda che un ipotetico lettore mi porrebbe: “Che c’entra la Poesia con la Psichiatria?”. Siccome quel che segue riguarda la Divina Commedia, immagino che chi avesse la curiosità e la pazienza di leggerlo mi chiederebbe: “Che cosa il viaggio nell’oltretomba di Dante può aver in comune con un percorso terapeutico?”; e ancora: “Che rapporto hanno i peccati descritti dal Poeta nell’Inferno con le affezioni di cui si occupa lo psichiatra?”; e infine: “Come può essere conciliabile il criterio di giudizio morale, prevalente in Dante, con il modo di pensare e di procedere di un terapeuta?”
Rispondendo alla prima domanda riguardante la Divina Commedia, spero di poter spiegare che senso ha, per me, questo scritto. Nell’allegoria del Poema, Amore che muove l’universo (Paradiso XXXIII, 145) è Dio; ciò corrisponde a quanto, utilizzando la capacità di comprensione introspettivo-empatica, riscontriamo nella mente umana: l’origine e la perenne fonte dell’Amore ( del risveglio della pulsione di vita che muove quanto di sano esiste in noi) è, in termini laici, l’Oggetto Interno Ideale, erede dell’oggetto primo d’amore – Per inciso: ritengo che il pensiero “laico”, riferendosi a quanto è percepibile (con strumenti appropriati) in questo mondo, non abbia alcuna pretesa di “dettar legge” alla Religione: ognuno può scegliere se credere, o non credere, che le realtà scoperte dalla Scienza siano espressioni della volontà di Dio – Ogni percorso di tipo autenticamente terapeutico, esattamente come quello spirituale compiuto da Dante, cerca di far ritrovare un contatto con tale prezioso oggetto interno. Cerca, perciò, di portare al risveglio della capacità d’amare che, così come l’iniziale paura di Dante prima del viaggio, dissolve il cronico e paralizzante stato d’ansia di certi pazienti; come pure, ad esempio, l’inerzia legata ai tormentosi dubbi ossessivi, o l’intolleranza per la realtà della psicosi. Alla fine del percorso, se questo ha avuto successo, ci si ritrova a contatto con l’oggetto primo d’amore, ora interiorizzato: un’immagine idealizzata della madre che, con un atto d’amore, ci concepì, ci mise al mondo e si prese cura di noi; l’essere che, per primo nella vita, ci fece conoscere e provare il suo stesso sublime sentimento.
Naturalmente, la mamma della realtà, in quanto essere umano come gli altri, non fu priva di difetti e immune da sbagli; tuttavia, nella persona sana, c’è la tendenza ad astrarre, a “distillare”, dall’esperienza con lei, quegli aspetti sublimi e idealizzabili con cui si costruisce l’oggetto interno che è fonte di amore, di salute e, quando possibile, di momenti di felicità. Compito della cura è aiutare il paziente a ripristinare tale contatto originario e tale elaborazione interiore; oppure, per quanto possibile e quando non si può fare altrimenti, cercare di ricreare ex novo condizioni iniziali della vita che siano favorevoli. In ogni caso, la meta finale del percorso terapeutico, così come quella del viaggio dantesco nell’oltretomba, è ritrovare quell’oggetto ideale e quella fonte d’amore che per i credenti è Dio.
Ovviamente, ogni individuo è un caso unico e irripetibile, ed il paziente non fa eccezione. Compito del terapeuta, perciò, non è indurre il malato a compiere una replica dello stesso, identico percorso verso la salute che ha seguito lui, e della stessa identica natura della meta finale che ha trovato lui. A chi cura occorre scoprire, e non insegnare, la particolare via verso la guarigione che è necessaria al suo paziente; o, meglio, occorre aiutare il paziente a scoprirla, mettendolo nelle condizioni di farlo. Ognuno ha una mamma diversa dalle altre, e la particolare natura dell’Oggetto d’amore ideale (erede dell’oggetto primo d’amore, ossia della mamma stessa) è diversa da quella di tutti gli altri, ivi compreso il terapeuta.
Quanto sopra non esclude una funzione di “guida” del curante: è necessario che il terapeuta aiuti il paziente a rendersi conto degli auto-inganni, come la falsa scorciatoia verso una meta elevata che Dante s’illudeva d’aver trovato all’inizio del Poema; e questo senza aver fatto i conti con le tre “fiere” che tendevano a farlo ritornare nella “selva”, ossia con quanto di nocivo esiste nell’animo umano che potrebbe farlo ripiombare nella regressione e nella malattia. Ad aiutarlo a compiere un percorso senza essere sviato è la guida di Virgilio, grazie al quale Dante si rende conto che solo se armato della conoscenza dei “peccati” d’incontinenza, violenza e fraudolenza che le tre “fiere” rappresentano (peccati potenzialmente presenti nel suo animo), egli potrà superarne l’ostacolo.
Questo ci riporta all’altra domanda che chi eventualmente legge potrebbe pormi: “Che rapporto hanno i peccati descritti dal Poeta nell’Inferno con le affezioni di cui si occupa lo psichiatra?” Dante, quale uomo del suo tempo, attribuisce un carattere illimitato al libero arbitrio. Definisce, perciò, “peccato” (ossia frutto di una libera scelta sbagliata) ogni modo di essere o comportamento che siano dannosi per sé e per altri. Oggi continuiamo a ritenere che la maggior parte delle persone possieda un margine di libertà interiore, con l’eccezione dei rari casi di perdita completa della “capacità d’intendere e volere”; tuttavia siamo più consapevoli di quei fattori (conflitti, carenze, condizionamenti) che la limitano, e/o ne rendono più faticoso l’esercizio. Pur continuando a ritenere che gli individui, per lo più, abbiano una qualche responsabilità nelle loro scelte, noi medici preferiamo definire “malattia” la tendenza, difficilmente controllabile o incoercibile, a scelte o a comportamenti nocivi, o a un funzionamento globale difettoso. Dante giudica in base ad un metro morale; tuttavia, quale grande Artista, coglie con la sua sensibilità gli aspetti meno evidenti del mondo interno dei peccatori. Offre, perciò, a noi clinici, importanti suggerimenti, utili per comprendere le persone che curiamo.
Cerco ora di rispondere all’ultima domanda: “Come può essere conciliabile il criterio di giudizio morale, prevalente in Dante, con il modo di pensare e di procedere di un terapeuta?” Pur manifestando spesso umana comprensione per i dannati, per Dante è indiscutibile la “Giustizia Divina”. Essa, da un punto di vista laico, è interpretabile come logica e inevitabile conseguenza di scelte e comportamenti sbagliati; è la realtà (dietro la quale, per i credenti, c’è la volontà di Dio) che infligge la punizione. Noi clinici, nel cercare di curare queste “anime dannate”, ci occupiamo soprattutto di quei fattori che ne limitano la libertà interiore, ed impediscono loro, se non in modo distorto e perverso, di restare fedeli a sé stesse. Sarebbe, tuttavia, uno sbaglio ignorare del tutto il punto di vista morale di Dante, e considerare costoro soltanto come “vittime”, disconoscendo che, almeno in parte, essi sono stati artefici della loro condizione: certamente il nostro compito di medici non è di giudicare, ma di curare; però, proprio perché curiamo, non possiamo, né dobbiamo, ignorare (o colludere coi pazienti nell’ignorare) quel margine o residuo di “libero arbitrio” per cui essi stessi sono, almeno in parte, responsabili del loro male. Non rientra fra i compiti terapeutici la condanna morale dei “peccati”: il nostro interlocutore, nella cura è l’Io del paziente – l’Io, o quel che ne rimane – ossia la sua istanza razionale, realistica e in gran parte cosciente Ciò che è necessario, nella cura, è aiutare l’Io del malato a porre, appunto su basi più razionali e più realistiche, l’auto-condanna che proviene dalla sua istanza superegoica; auto-condanna inevitabile nel momento in cui la colpa – in ultima analisi, verso sé stesso – viene svelata dall’impatto con la realtà e riconosciuta come tale.
Se l’ipotetico lettore ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui, passo ora ad illustrare e commentare i preziosi suggerimenti offerti, a me come clinico, dai versi danteschi. Inizierò con i primi otto Canti dell’Inferno in cui, dopo una sorta d’introduzione, vengono descritti i peccati e i peccatori d’incontinenza. Preciso che i numeri di pagina dei versi che cito si riferiscono all’edizione dell’Inferno dell’Editoriale del Drago – 1981. In corsivo i miei commenti.
Canto I
pag. 3, vv. 1 – 12
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ah, quanto a dir era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
Tant’è amara che poco più è la morte;
ma per trattar del ben ch’io vi trovai,
dirò dell’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’io v’entrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
[In una situazione di confusione e vuoto interiore (probabilmente creata in Dante, secondo i commentatori, dalla morte dell’amata Beatrice), abbandonati gli scopi più nobili che orientano la vita, riemergono gli aspetti primitivi (“selvaggi”) di cui la mente diviene prigioniera, e la coscienza di sé s’addormenta. Nella “selva” è facilmente riconoscibile l’esperienza di crisi che, di solito, spinge una persona a chiedere aiuto e ad iniziare una cura: è una situazione oltremodo spiacevole e terrificante: il paziente è completamente disorientato (spesso non saprebbe neppure dire come vi sia entrato) e teme che non sia possibile uscirne. Tuttavia, vedendo le cose col senno di poi, è possibile riconoscere nella crisi un “bene”: si è rotto un equilibrio patologico o comunque imperfetto, e vengono poste le premesse per poter porre la propria vita su basi più solide.]
Giunto ai piedi di un colle, illuminato dalla rassicurante luce del sole nascente:
pag. 4, vv. 22 – 27
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago alla riva
si volge all’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
[Le parole del primo di questi versi ed il loro suono comunicano lo sforzo estenuante di chi lotta per salvare la propria vita. Il “mare periglioso” da cui l’anima del Poeta sta fuggendo rappresenta uno stato mentale, dominato da pulsioni primitive, che minaccia di sopprimere quanto c’è di più elevato ed evoluto nel suo mondo interno. Rappresenta la regressione al culmine della quale c’è il ritorno nell’alvo materno, ossia la morte]
Riprendendo il cammino verso la cima del colle, al Poeta appaiono tre fiere: una lonza (ritenuta simbolo di malizia, o frode), un leone (simbolo di violenza) ed infine una lupa (simbolo d’incontinenza):
pag. 7, vv. 49 – 60
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca della sua magrezza,
e molte genti fè già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscìa di sua vista,
ch’io perdei la speranza dell’altezza.
E qual è quei che volentieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che n’tutt’i suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi incontro, a poco a poco
mi ripingeva là dove ‘sol tace.
[L’immagine della lupa, con la concreta evidenza della sua magrezza, allude a tutte le forme di avidità; nate queste, originariamente, dalla frustrazione orale. L’animale feroce è qui di sesso femminile: è interpretabile come immagine stravolta di una figura materna arcaica, primitiva, vissuta proiettivamente (o realmente) come affamata e portatrice di fame.
La concretezza dell’immagine sembra suggerire un’esperienza reale perturbante: quando la fantasia persecutoria di tipo proiettivo diviene realtà, e l’adulto, per la sua incontinenza, commette effettivamente abusi sul bambino, tale esperienza traumatica minaccia di sbarrare per sempre al piccolo il cammino verso “l’altura”, ossia la crescita che gli permetterebbe di sviluppare gli aspetti più elevati e maturi del mondo interno. L’individuo, disperato come colui che ha perso tutto quel che contava nella sua vita, è spinto inesorabilmente verso la bestialità della perversione; oppure verso l’auto-annientamento ed il suicidio. Viene qui in mente Volodija, l’adolescente protagonista del racconto di Cechov; il ragazzo, sconvolto perché vittima di un abuso sessuale da parte di una donna priva di saggezza e temperanza, pone fine alla sua vita.]
A Dante che, nella sua disperazione, sta ripiegando verso la “selva”, compare Virgilio:
pag. 7, vv. 61 – 63
Mentre ch’i’ ruvinava in basso loco,
dinanzi alli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
[Virgilio, portavoce dello “aiuto divino” (percepibile, introspettivamente, come figura paterna soccorrevole interiorizzata) è per Dante un personaggio autorevole che riporta sulla scena la razionalità e l’umanità che sembravano perdute. Rimasto a lungo silente (avendo a lungo taciuto in quanto portavoce della ragione e della coscienza), sembrava quasi divenuto incapace di parlare.]
Dante, dopo aver espresso la propria grande stima per il suo “maestro ed autore”, chiede aiuto a Virgilio per poter fronteggiare la lupa, che sente come la più temibile delle tre fiere:
pag. 13, vv. 88 – 90
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.
[L’incontinenza (di cui la lupa è simbolo) è legata ai comportamenti peccaminosi meno dominabili perché essa ha la sua origine nella matrice animale ed istintuale. Le pulsioni, se predominano in forma non sublimata (e ri-divengono quindi incuranti dei princìpi morali e della realtà), cessano di porsi al servizio delle qualità e degli scopi più propriamente umani dell’individuo. I peccati, per coloro che li commettono, rappresentano perciò un attacco a sé stessi in quanto esseri umani.]
Virgilio fa presente a Dante che il suo tentativo di salire direttamente e immediatamente al colle è ingenuo e inggannevole. Gli conviene seguire un altro percorso. Ancora privo di conoscenza e di saggezza, non può contrastare la potenza della lupa:
pag. 13, vv. 91 – 99
“A te convien tenere altro viaggio”
rispuose poi che lagrimar mi vide
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.
Per poter compiere il viaggio che Virgilio propone a Dante è necessario tenere in vita la speranza, ossia l’attesa fiduciosa di una liberazione. Essa permette di resistere all’influenza dei numerosi peccati e peccatori che “la lupa” è capace di generare:
pag. 13 – 15, vv. 100 – 104
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l Veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
………………………………….
[Il Veltro, il cane da caccia particolarmente apprezzato che saprà “uccidere la lupa”, è simbolo del futuro salvatore e della possibilità d’essere liberati dalla schiavitù dell’incontinenza. Il “Veltro” scoraggerà l’avida ricerca di potere e di denaro, e segnerà il trionfo dell’amore e della saggezza. A Dante, per poter compiere il suo viaggio, è necessaria la certezza che esso avrà successo; è necessaria la speranza.
Noi medici sappiamo bene quanto sia importante, nel corso di un processo terapeutico, tenere in vita la fiducia e la speranza del paziente. Da esse dipendono la capacità del malato di sopportare gli aspetti spiacevoli della cura, di tollerare la fatica e i disagi dell’impegno e della collaborazione con noi. Fiducia nelle capacità del medico e speranza di salvarsi rendono il paziente certo che compiere il percorso terapeutico ha un senso, e che raggiungere la meta finale è possibile, anche se essa non è ancora visibile.]
pag. 15, vv. 109 – 111
Questi la caccerà per ogni villa,
fin che l’avrà rimessa nello ‘nferno
là onde invidia prima dipartilla.
[Il Veltro caccerà l’incontinenza dagli esseri umani, fino a riportarla nel suo luogo d’origine: l’inferno, ossia il luogo abitato da coloro che hanno perso ogni contatto con Dio; perdita di contatto percepibile introspettivamente, con strumenti adeguati, come separazione dall’oggetto arcaico ideale interiorizzato. Tale allontanamento è legato all’invidia, vale a dire all’ostilità verso ogni bene che non appartiene al soggetto e da cui egli si sente escluso, e da cui si esclude ulteriormente; e l’invidia, a sua volta, è fonte d’avidità insaziabile e distruttiva.]
Nel viaggio, la cui meta finale è il Paradiso, è previsto il transito attraverso il Purgatorio e, prima ancora, l’Inferno:
pag. 16, vv. 115 – 117
ove udirai le disperate strida,
vedrai gli antichi spiriti dolenti,
che la seconda morte ciascun grida;
[Ciascuno dei dannati lamenta, oltre alla morte del corpo, anche quella dell’anima (di quanto più propriamente umano esiste in loro). La perdita di contatto con l’oggetto interno idealizzato spegne del tutto l’anelito alle mete ideali, rende la vita interiore non più vita.]
Sotto la guida di Virgilio, ha inizio ora il percorso narrato nel resto della Divina Commedia:
pag. 17, v. 136
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
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Canto II
Il viaggio potrebbe iniziare, ma Dante è preso dal dubbio: è pur vero che, prima di lui, altri mortali entrarono nell’oltretomba; tuttavia si trattava di Enea e di San Paolo, entrambi destinati a compiti grandiosi, e lui non si sente altrettanto degno. Virgilio, al di là di questa professione d’umiltà, vi vede la paura:
pag. 22, 23 – 27, vv. 43 – 72
“S’i’ ho ben la tua parola intesa”
rispuose del magnanimo quell’ombra
“l’anima tua è da viltate offesa;
la qual molte fiate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ‘ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandar io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e comiciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
‘O anima cortese mantovana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ‘l mondo lontana,
l’amico mio, e non della ventura,
nella diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che volt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare
l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
[Dante è come paralizzato dalla viltà, che è figlia della facilità a spaventarsi; è lo stesso atteggiamento, pauroso e primitivo, dell’animale che s’imbizzarrisce quando percepisce come pericoloso qualcosa che in realtà è innocuo. A liberare il Poeta dalla mancanza di coraggio è l’Amore, il sentimento che si diffonde da Beatrice. È il sentimento che coinvolge Virgilio, distogliendolo dalla condizione di “color che son sospesi” fra la pena e la salvezza, di fronte ad una donna tanto bella, buona e cortese. È il sentimento di Dante che fa muovere e parlare una defunta, distogliendola dall’immobilità e dal silenzio di chi non appartiene più a questo mondo; sentimento che porta ad attribuire anche a costei quella manifestazione di vita che è lo stesso Amore.]
Virgilio rende omaggio alle virtù di Beatrice e si dichiara ben disposto a soccorrere Dante, come la donna gli aveva chiesto. Le chiede poi come abbia trovato il coraggio di scendere dal mondo dei beati nell’abisso in cui lui si trova. Beatrice gli risponde che ciò le è stato possibile perché animata dalla Grazia divina. L’ispiratrice della sua missione è stata la Vergine Maria:
pag. 28, vv. 94 – 105
“Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo impedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là su frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: ‘Or ha bisogno il tuo fedele
di te, ed io a te lo raccomando.’
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: ‘Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te dalla volgare schiera?
[Secondo alcuni commentatori, le tre donne che qui compaiono sono personificazioni delle Virtù Teologali, che rendono l’uomo capace di vivere in relazione con Dio: in Maria è figurata la Carità, capace di temperare la durezza di ogni giudizio; Lucia, la santa degli occhi, rappresenta la Speranza, ossia la certezza (un “attender certo”: Paradiso XXV) di “ciò che ancora non si vede” (cit.); certezza per la quale anche il presente appare sotto una luce diversa; Beatrice, infine, “loda di Dio vera”, rappresenta la Fede, da cui deriva la possibilità di vedere anche nei propri simili qualche virtù, ossia il riflesso del rapporto di ciascun essere umano con l’Oggetto Interno Idealizzato. Le tre donne, insomma, col loro esempio risvegliano in Dante quelle virtù che preannunciano e rendono certa la meta finale del suo viaggio nell’oltretomba.]
A dissipare del tutto ogni esitazione di Dante, ora interviene con decisione Virgilio:
pag. 30, vv. 121 – 126
Dunque che è? Perché restai?
perché tanta viltà nel cuore allette?
perché ardire e franchezza non hai?
poscia che tai tre donne benedette
curan di te nella corte del cielo,
e il mio parlar tanto ben t’impromette?
[Se le voci materne-femminili delle tre donne benedette hanno parlato ai sentimenti di Dante, ora la voce paterna di Virgilio si rivolge alla sua volontà, spronandolo all’azione. Come un buon padre col figlio in fase di crescita, Virgilio diviene per Dante guida, padrone di una volontà che rischia di essere ancora malferma, maestro di vita.]
Rassicurato dall’autorevole ed affettuosa protezione del suo maestro, questa volta Dante può veramente (e ora con più decisione) iniziare il suo viaggio:
pag. 31, vv. 139 – 142
“Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore, e tu maestro.”
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
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Canto III
Alla porta dell’Inferno, Dante e Virgilio trovano quest’iscrizione:
pag. 33, vv. 1 – 9
Per me di va nella città dolente,
per me si va nell’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e il primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.
[L’Inferno è il luogo della “perduta gente”. Perduta: smarrita, priva del tutto, ormai, della possibilità di ritrovarsi fra le braccia e nelle grazie del primo e fondamentale oggetto d’amore; oggetto idealizzato che permane nel mondo interno e che, per il credente, è Dio. Tuttavia, l’assenza completa di tale suprema protezione è insopportabile e forse inconcepibile: meglio pensare che il dolore sia dovuto ad una giusta punizione di Dio, piuttosto che ad un abbandono da parte Sua; che Dio sia indirettamente presente anche nell’Inferno, manifestandosi con la Sua giustizia. La porta dell’Inferno ha caratteristiche opposte rispetto alla soglia che permette d’entrare nella vita. Varcando quest’ultima, uscendo dal ventre materno, per ognuno di noi hanno inizio il tempo vissuto e la speranza di crescere, di arrivare a vivere pienamente come essere umano compiuto e capace di realizzarsi; ha inizio la luce. La porta dell’Inferno, al contrario, conduce al buio eterno, al dolore di un’esperienza d’abbandono che non avrà mai fine, alla completa disperazione.]
Le parole dell’iscrizione sgomentano Dante. La fermezza e l’affetto di Virgilio lo confortano:
pag. 33 – 35, vv. 13 – 18
Ed elli a me, come persona accorta:
“Qui si convien lasciare ogni sospetto;
ogni viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben dell’intelletto.”
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Subito Dante avverte le manifestazioni di chi ha “perduto il ben dell’intelletto”:
pag. 35, vv. 22 – 27
Quivi sospiri, pianti ed alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
[Il Creatore, in quanto si manifesta come oggetto interno idealizzato, è imparentato con colei che, all’origine della vita, ci aiutò a sviluppare le facoltà che appartengono all’essere umano: innanzi tutto la coscienza e la razionalità. Come oggetto interno, continua ad alimentarle. Chi non ha più contatto col Creatore, ha perso anche tali facoltà. Le sue espressioni di sofferenza sono scomposte, animalesche: i “guaiti”; i suoi pianti sono fini a sé stessi, senza speranza di consolazione; la sua rabbia è impotente e irragionevole: presumibilmente gli “accenti d’ira” sono bestemmie, e non ha senso insultare Colui che, per il dannato, è sparito per sempre.
All’inizio, la sensibilità del Poeta lo porta ad avvertire soltanto pietà. Tuttavia l’esortazione e l’esempio di Virgilio (“persona accorta” e quindi dotata di “ben dell’intelletto”) lo portano presto a prendere, nei confronti dei dannati, la giusta distanza che gli permetterà di capirne appieno la natura.]
Dante e Virgilio entrano nel vestibolo dell’Inferno, destinato agli ignavi:
pag. 35, vv. 31 – 33
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”
[La parola “error”, che compare nel primo di questi versi è riportata in codici tra i più antichi (alcuni commentatori, tuttavia, protendono per la lezione “orror”). In base a tale interpretazione, dobbiamo pensare che lo “errore” di Dante, che non gli permette di riconoscere gli ignavi come tali, sia dovuto alla sua persistente incertezza, ed all’intensità del suo sentimento di pietà che non gli consente di formulare altro giudizio.]
Virgilio gli risponde:
pag. 37, vv. 34 – 39
Ed elli a me: “Questo misero modo
tengon l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
delli angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé foro.
[Agli ignavi, la cui paura e la cui viltà soffocarono ogni altro sentimento, mancò il coraggio necessario per poter amare o odiare, e per poter prendere posizione nei conflitti che oppongono il Bene al male.]
A Dante, che gli chiede in cosa consista la sofferenza degli ignavi, Virgilio così risponde:
pag. 37, vv. 46 – 51
“Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidiosi son d’ogni altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”
[La paura (il senso di minaccia incombente) ha soppresso, negli ignavi, ogni speranza, persino quella di porre fine alle proprie sofferenze con la morte. La loro vita è “cieca”: non sanno vedere, nei propri simili, realtà diverse dal pericolo. Esclusi, perciò, dai rapporti umani, sono rosi dall’invidia nei confronti di chi, nel bene o nel male, vi partecipa. Sono esseri così insignificanti, che nessuno li ritiene degni di pietà, di simpatia e neppure di riprovazione. La loro condanna è l’essere ignorati non solo da Dio, ma anche dagli uomini.]
Le anime degli ignavi, presenti in grandissimo numero, sono condannate a correre per l’eternità dietro a un’insegna. Dante ne riconosce qualcuna:
pag. 42, vv. 58 – 63
Poscia c’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltà il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta de’ cattivi
a Dio spiacenti ed a’ nemici sui.
[L’opinione prevalente è che qui Dante stia parlando di Pier da Morrone, che divenne papa col nome di Celestino V. Dopo soli cinque mesi, costui rinunciò al suo importante ufficio per paura di non esserne all’altezza. Riconosciuta l’ombra di questo Pontefice, Dante capisce con certezza quale sia la natura di coloro che, con lui, abitano il vestibolo dell’Inferno.
Il Poeta, qui, sta parlando di chiunque, per mancanza di coraggio, rinunci a compiti di grande importanza e responsabilità. Il primo fra questi è quello di genitore, la più antica e fondamentale autorità nella vita di chiunque. Ogni padre che non osa essere padre fa per viltà “il gran rifiuto”, abbandonando i figli e lasciando subentrare, al suo posto, chi potrebbe non essere degno di tale ruolo. È inevitabile che questo padre sia detestato in quanto traditore, oltre che disprezzato per la sua viltà. Il difficile compito terapeutico, con i pazienti che ebbero genitori “ignavi”, è aiutarli a liberarsi dal legame, fatto di odio e di disprezzo, verso chi li ha messi al mondo. Il che significa liberarsi dal conflitto con le figure genitoriali divenute oggetti interni, quindi con una parte di sé stessi: gli “oggetti interni rifiutanti” secondo Fairbairn. Difficile, per queste persone, emanciparsi: anche se riescono a vedere nei genitori figure insignificanti, non riescono a sentirsi bene non pensando più a loro, e “passando oltre”, ossia procedendo autonomamente nella loro vita. Rimane sempre un vuoto interiore. Si cerca di colmarlo con un’esperienza terapeutica correttiva e riparativa che consenta loro, finalmente, d’interiorizzare un genitore più utile ed amico.]
Oltre alla vana rincorsa di un’insegna, gli ignavi sono condannati ad un’altra pena:
pag. 42, vv. 64 – 66
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi, stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
[Le pulsioni, in quanto stimoli legati inscindibilmente al loro corpo, non hanno completamente abbandonato gli ignavi. Esse non sono più (o non sono mai state) al servizio di quanto di più elevato e propriamente umano esiste nella persona dotata di sano coraggio, innanzi tutto l’amore per qualcosa e per qualcuno. – Avendo come unico scopo della vita lo sfuggire alle minacce, gli ignavi non conobbero passioni. né mete ideali; per questo, per contrappasso, sono condannati per l’eternità a seguire insegne prive di senso. – Non integrate col resto del Sé, le loro pulsioni sono frammentate e ridotte alla forma biologica più elementare di vita, come mosconi e vespe. Esse, divenute come estranee alla mente, sono solo più stimoli tormentosi. L’ignavo, reso tale da un’angoscia pervasiva, soffre spesso di disturbi cenestopatici e d’ipocondria. Preso completamente fin dall’inizio da tali angosce, non è mai stato realmente vivo.]
Dante ora distoglie lo sguardo dagli ignavi ed è colpito dallo spettacolo di anime che si affollano sulla “riva d’un gran fiume” (l’Acheronte, il cui nome significa “assenza di gioia”) e chiede a Virgilio per qual motivo sembrino pronte a passare all’altra riva. Virgilio lo invita ad attendere: quel che vedrà gli darà una risposta. Ecco che ora compare un personaggio dall’aspetto perturbante:
pag. 43, vv. 82 – 87
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi all’altra riva
nelle tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo
…………………………………………”
[Avendo perso il contatto con Dio misericordioso, e non disponendo, come Dante con Virgilio, di una guida paterna umana, affettuosa ed autorevole, i dannati devono confrontarsi con Caronte, una figura di patrigno punitivo ed implacabile che, anziché alla salvezza e alla libertà interiore (il cielo e la sua luce, la possibilità di muoversi liberamente all’aperto), li condurrà al fuoco, al gelo e alle tenebre eterne dell’Inferno. Ad essa fa eco un oggetto interno persecutorio (un Superio arcaico) che li costringe a passare all’altra riva. Più avanti, Virgilio chiarirà il perché di tale atteggiamento auto-punitivo: “e pronti sono a trapassar lo rio, / ché la divina giustizia li sprona, / sì che la tema si volve in disio.” (pag. 46, vv. 124 – 126)]
Caronte vorrebbe allontanare Dante che, in quanto essere umano ancora vivo (e quindi ancora dotato della possibilità di riscattarsi), non può stare insieme alle anime definitivamente dannate. Virgilio così gli risponde:
pag. 45, vv. 94 – 96
E ‘l duca a lui: “Caròn, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”
[È indiscutibile e non contrastabile l’autorità del Dio cristiano che, oltre che onnipotente, è anche infinitamente misericordioso. (Un Superio evoluto, comprensivo e soccorrevole, se riesce a risvegliarsi, dispone di una forza superiore a quella di qualsiasi istanza autopunitiva e persecutoria.)]
I dannati, di fronte alla prospettiva della punizione eterna, così reagiscono:
pag. 45, vv. 103 – 105
bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ‘l luogo e ‘l tempo e ‘l seme
di lor semenza e di lor nascimenti
[La sensibilità di Dante, in quanto Poeta, gli permette di cogliere la radice umana di ciò che porta alla “dannazione”. Si tratta di un odio radicale, che coinvolge la vita, tutto ciò che le ha dato origine, e l’intera specie umana. Il criminale, con un eccesso di riguardo per sé stesso, riesce a (o tenta di) salvarsi da questo sentimento distruttivo che coinvolge tutto e tutti, e che lo porta all’assenza di considerazione per gli altri. Il perverso, corrompendo l’ordine naturale delle cose (confondendo il male col bene), compie scelte che gli consentono di preservare una qualche vitalità. Il sofferente di gravi malattie mentali viene completamente travolto dalla distruttività.
Un sentimento così radicato porta alla “dannazione”, il che equivale a dire che non può essere corretto da considerazioni d’ordine morale, o religioso, e neppure d’ordine razionale. Noi terapeuti, che abbiamo a che fare con persone ancora vive (e quindi con una qualche possibilità di riscattarsi) non abbiamo altra possibilità che tentare di risvegliare sentimenti positivi attraverso l’esperienza di una relazione che corregga le storture createsi, con ogni probabilità, già all’inizio della vita.]
Il Canto III si conclude con una scena di terremoto e di bufera che provoca lo svenimento del Poeta:
pag. 47, vv. 130 – 136
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom che il sonno piglia.
[Terremoto e bufera sono il simbolo dell’intenso sconvolgimento avvertito da Dante al cospetto della “dannazione”, ossia di quale e quanta scelleratezza sia capace l’animo umano. Si tratta di un’esperienza traumatica capace di “vincere ciascun sentimento”, ossia di travolgere ogni possibilità di contenere coscientemente le sensazioni attraverso sentimenti e pensieri. La perdita dei sensi diviene inevitabile.]
…………………………………………………………………………………………
Canto IV
Dante, misteriosamente trasportato nel sonno sull’altra sponda dell’Acheronte, viene bruscamente risvegliato da un forte tuono. Guardandosi intorno, si rende conto di trovarsi sull’orlo della voragine infernale:
pag. 49, vv. 1 – 9
Ruppemi l’alto sonno nella testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi.
Vero è che ‘n sulla proda mi trovai
della valle d’abisso dolorosa
che truono accoglie d’infiniti guai.
[Come terremoto e bufera, alla fine del Canto III sono il simbolo dell’intenso sconvolgimento di Dante, così il tuono all’inizio di questo Canto. Si tratta di stimoli sensoriali d’intensità tale da non poter essere contenuti dall’ordinaria capacità di pensare e di sentire. Ora, però, dopo un sonno ristoratore, il Poeta può guardare con “occhio riposato” quel che lo circonda, e vede non soltanto qualcosa che gli fa paura, ma anche una “valle d’abisso dolorosa”. Ora che, grazie al riposo, può meglio contenere nella mente sentimenti e pensieri, s’è risvegliata in lui la capacità di comprensione empatica della condizione dei dannati sofferenti.]
Dante vede i propri sentimenti riflessi nel pallore del volto di Virgilio. In un primo momento gli pare che esso sia espressione di paura; però Virgilio gli chiarisce che si tratta di pietà. Sono entrati “nel primo cerchio che l’abisso cigne” (v. 24) ossia nel Limbo, e Dante inizia a rendersi conto del perché dei sentimenti suoi e della sua guida:
pag. 50, vv. 25 – 30
Quivi, secondo che per ascoltare
non avea pianto mai che di sospiri,
che l’aura etterna facevan tremare.
Ciò avvenìa di duol sanza martiri
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
[La sofferenza delle anime del Limbo, più che col pianto (espressione del dolore di un’offesa subìta, o di una perdita) si esprime coi sospiri, che suggeriscono l’anelito per qualcosa di mai raggiunto e d’irraggiungibile. Il loro dolore è “senza martirio”, ossia non può acquistare il significato di una sofferenza patita in funzione di uno scopo nobile; non c’è un Dio cui dedicarla.]
Virgilio chiarisce la natura di queste anime (cui appartiene lui stesso) e della loro pena:
pag. 50 – 52, vv. 33 – 42
“……………………………………..
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta della fede che tu credi.
E se furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio.”
[Accolte nel Limbo, non ci sono anime di veri e propri peccatori; al contrario, molti di loro ebbero meriti (“mercedi”) apprezzati da Dante e da Virgilio. Quel che mancò loro fu il Battesimo, grazie al quale ognuno viene purificato dal Peccato originale e diviene parte della Chiesa e del corpo di Cristo. “Lavando via” il peccato dei primi antenati, vengono annullati gli effetti dell’atto che portò all’espulsione dal Paradiso. Si ha, così, accesso alla “porta” della fede, tramite la quale può essere recuperata quell’antica, felice unione con Dio che, altrimenti è perduta per sempre. Questo rito purificatore fu capace di raggiungere le profondità del mondo interno d’innumerevoli persone, soddisfacendo l’anelito al ripristino di un contatto (tendenzialmente di una simbiosi) con l’Oggetto Arcaico ideale. Senza di esso, non sarebbero possibili quelle “virtù teologali” (fede, speranza, carità) che da esso (da Dio, per i credenti) emanano, coinvolgendo alla loro radice gli affetti, e non solo il pensiero e la volontà. Queste ultime facoltà sono alla base delle “virtù cardinali” (fortezza, giustizia, prudenza, temperanza) che rendono l’individuo degno di lode ma, di per sé, sono insufficienti a garantirgli la speranza del recupero della piena beatitudine, a non farlo sentire “perduto” per sempre.
È la situazione di tutti coloro che hanno perduto precocemente, spesso brutalmente, i benefici dell’Amore primario. Ciò fa sì che ne risenta la loro capacità d’amare: pur non avendo da rimproverarsi particolari colpe nei loro rapporti, tuttavia appaiono come spenti, non sufficientemente animati dall’affetto. È la condizione degli orfani e, in parte ed in misura variabile, dei figli adottivi. La difficoltà della cura di queste persone è che sentono un impulso incoercibile a risalire, con la mente, alle origini della loro vita, ossia al rapporto coi genitori biologici. Purtroppo, non sempre trovano, in tali circostanze rivissute, le tracce di buone esperienze, che potrebbero serbare nel loro mondo interno e di cui potrebbero fruire nel resto della vita. Al contrario, finiscono spesso per rivivere situazioni insopportabili, che minacciarono (e, ritrovate, minacciano tuttora) di sconvolgerli completamente e di distruggerli. È questo il motivo per cui, in polemica con gli altri psicoanalisti, Kohut sostenne che non sempre è opportuno spingere l’analisi fino in fondo, sino all’inizio della vita: in certi casi, conviene fermarsi alle esperienze più recenti, limitandosi a rafforzare le strutture compensative che, da tali esperienze più favorevoli, ebbero origine.]
Il seguito del Canto IV non offre, a chi scrive, particolari spunti ritenuti degni di riflessione. Come tutti i giudizi espressi in questo scritto, è compito dell’eventuale lettore il correggerli, il completarli e il sostituirli: ambizione di chi scrive non è necessariamente l’insegnare alcunché, ma solo stimolare l’interesse, la riflessione e le capacità critiche di chi legge. La lettura attenta e feconda rende, chi la fa, il “co-autore” del testo (T. Ogden); e quanto qui espone il sottoscritto, pur nei suoi limiti, non fa eccezione. A mio modesto avviso, il resto del Canto IV riflette, più che altro, l’esigenza di Dante di non omettere alcuno, fra gli spiriti eccelsi menzionati (gli Eroi, i Sapienti) che sia degno d’essere ricordato, pur non appartenendo essi al novero dei beati.
[Noto che anche qui, come altrove, Dante non si discosta da quella che ritiene la severa Giustizia Divina; ma ciò non impedisce alla sua sensibilità di Poeta e di uomo di cultura, di esprimere la sua comprensione empatica, la sua simpatia e anche la sua stima per coloro che seppero meritarla, pur essendo essi esclusi dai beati, o essendo persino dannati, come nel caso di Brunetto Latini o di Francesca da Rimini.]
Dante stesso afferma che non è il caso di soffermarsi su quanto venne detto da questi spiriti eccelsi:
pag. 60, vv. 103 – 105
Così andammo in fino alla lumera,
parlando cose che ‘l tacere è bello,
sì com’era ‘l parlar colà dov’era.
Il complesso argomento del Poema lo spinge a proseguire oltre, pur rendendosi conto che quanto da lui scritto sui personaggi del Limbo è inadeguato ad illustrare la realtà dell’incontro con loro:
pag. 63, vv. 145 – 147
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
Della compagnia di sei savi che si erano incontrati rimangono solo Dante e Virgilio; ed ora possono proseguire il loro viaggio in luoghi molto meno quieti, luminosi e rassicuranti:
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor della queta, nell’aura che trema;
e vegno in parte ove non è che luca.
…………………………………………………………………………………………
Canto V
[Nel Canto V dell’Inferno (il Canto di Paolo e Francesca) compare un problema che la psicopatologia psicoanalitica tratterà almeno sei secoli dopo Dante e che, agli occhi del grande pubblico, è ancora tutt’altro che chiaro: quello dei rapporti tra l’amore fra familiari e le tendenze (o pratiche) incestuose.
Freud fu il primo a parlare di “complesso di Edipo”: raggiungendo gli aspetti profondi della vita interiore dei suoi pazienti (e di sé stesso) rilevò l’esistenza di desideri incestuosi, per lo più inconsci, diretti generalmente al genitore di sesso opposto, oltre che desideri matri- o patricidi. Come spesso accade al fondatore di una nuova disciplina, anche Freud non fu esente da imprecisioni ed errori che furono corretti dagli studiosi che lo seguirono. In questo caso, si trattò di una generalizzazione arbitraria.
Fu Kohut a chiarire che, sebbene Freud avesse scoperto una realtà clinica molto diffusa, fu però inesatto, da parte sua, considerare il complesso di Edipo come l’aspetto universale e necessario di una tappa dell’evoluzione psico-sessuale di ogni individuo. Kohut sottolineò il carattere effettivamente universale dell’amore verso uno dei genitori; tuttavia rilevò che veri e propri desideri incestuosi e matri/parricidi compaiono solo come reazione all’assai diffuso fraintendimento e dell’assenza di comprensione empatica, da parte dei genitori, di tale sentimento. Searles e, più recentemente, Ogden descrivono l’amore edipico sano, riprodotto nel rapporto transferale, come una sorta di avventura sentimentale, “romantica”, in cui gli aspetti sessuali restano completamente nell’ombra e silenti, a condizione che il genitore (o l’analista) comprenda empaticamente e, in un certo senso, condivida i sentimenti del figlio o della figlia, o del paziente. Dante intuì tutto questo con vari secoli d’anticipo. Descrisse tali vicende sentimentali in un rapporto simbolicamente incestuoso, fra parenti acquisiti: Paolo e Francesca]
Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio. All’entrata incontrano Minosse, custode del cerchio e giudice dell’Inferno. Dinanzi a questo personaggio mostruoso, disumanizzato, le anime dei dannati sono spinte a confessarsi senza mentire:
pag. 65, vv. 7 – 12
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor delle peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
[Il giudice irremovibile Minosse ha un aspetto bestiale; anche il suo modo d’esprimersi non ha nulla d’umano: egli assegna la pena a ciascuna anima non esponendo a voce una sentenza motivata, ma avvolgendo la sua coda tante volte quanti sono i cerchi infernali in cui l’anima deve scendere per raggiungere quello della propria pena. Innanzi a lui le anime sono spinte a confessarsi senza opporre resistenze.
È chiaro che Minosse rappresenta un’istanza superegoica arcaica, primitiva nel suo modo di procedere: sa solo esprimere condanne, senza spiegarne il motivo e senza che compaia il minimo sforzo di aiutare a prevenire l’azione peccaminosa o a redimersi. Di fronte a tale “giudice” si rivela tutta la forza della “lussuria” (nell’accezione che Dante dà prevalentemente a questo termine: vedi più sotto), che, anche se riconosciuta come colpevole dai dannati stessi, pure persiste anche dopo la condanna. È probabile che qui ci sia la spiegazione del perché i “lussuriosi” divennero tali: di fronte a tale condanna irremovibile di una vita pulsionale ed affettiva insopprimibile, a questi peccatori non restò altra possibilità diversa dalla sfida all’autorità, allo scopo di sopravvivere.]
Minosse, come già aveva fatto Caronte all’ingresso dell’Inferno, cerca di dissuadere Dante dall’entrare nel cerchio dei lussuriosi:
pag. 66, vv. 16 – 20
“O tu che vieni al doloroso ospizio”
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
“guarda com’entri e di cui tu ti fide:
non t’inganni l’ampiezza dell’entrare!”
[Coerente con il suo carattere di giudice implacabile, incapace di comprensione, Minosse ritiene inconcepibile che si tenti di capire la natura dei dannati senza cadere nel loro stesso peccato. Se si cerca di farlo, a suo giudizio, ciò non può che essere frutto di un inganno: la soglia oltre la quale ci sono i peccatori e il peccato è troppo agevole da varcarsi; e chi consiglia di farlo non è degno di fiducia.]
Virgilio risponde a Minosse con le stesse parole che aveva rivolto a Caronte:
pag. 66, vv. 21 – 24
E ‘l duca mio a lui: “Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”
[L’onnipotenza del Dio cristiano (la forza di un oggetto interno idealizzato, infinitamente caritatevole) non può essere contrastata da un giudice irremovibile e dal suo ottuso moralismo.]
Dante può, così, entrare nel cerchio dei lussuriosi:
pag. 66, 67, vv. 25 – 39
Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
………………………………………..
La bufera infernal che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina:
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti alla ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
[Questi “peccatori carnali” “la ragion sommettono al talento”, cioè al desiderio. La ragione, a giudizio di chi scrive, sta ad indicare le facoltà umane superiori: non solo la razionalità, ma anche quelle qualità che sono poste sotto il suo dominio, ossia la sensibilità e le capacità introspettivo-empatiche che rendono l’individuo capace di provare i sentimenti più delicati. Tutto questo, nei lussuriosi danteschi (almeno in Paolo e Francesca), non sparisce sotto l’urto delle pulsioni istintuali, ma viene posto al loro servizio. Più che “lascivi” potrebbero per lo più esser definiti “passionali”: appartengono ad una condizione che, non più “spirituale”, non è nemmeno definibile propriamente come “licenziosa”.
La “bufera infernal” (la forza della passione) non dà pace a queste anime dannate. Giunti di fronte alla “ruina”, ossia la frana prodotta da Lucifero quando sprofondò nelle viscere della terra (che suppongo rappresenti un ostacolo invalicabile, opposto dalla realtà, alla loro passione, capace di far crollare le loro misure difensive), i “lussuriosi” si dimostrano incapaci di ravvedimento: provano compianto per la perdita di ciò che non può più spingerli oltre, e rabbia (bestemmiano) verso l’essere onnipotente che li ha privati della loro risorsa irrinunciabile.]
L’impossibilità di trovare requie è resa dal Poeta in modo molto efficace. La bufera infernale:
pag. 67, vv. 43 – 45
di qua, di là, di giù, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
[I lussuriosi, avendo perso un contatto con Dio (con l’oggetto interno idealizzato soccorrevole, in loro inesistente) sono privi di speranza, ossia di una delle virtù “teologali”, che da Dio emanano.]
Virgilio addita a Dante numerosi personaggi che fanno parte della schiera dei lussuriosi: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano: tutti amanti infelici che sfidando il biasimo altrui, perché spinti dalla passione, tradirono i rapporti di fiducia coi propri simili. Due lussuriosi attirano particolarmente l’attenzione di Dante:
pag. 71, vv. 73 – 78
I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno,
e paiono sì al vento esser leggieri.”
Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno.”
[Dante è colpito dallo “andare insieme” di Paolo e Francesca (uniti anche nella dannazione) e dallo “esser leggieri” al vento: sembrano abbandonarsi senza opporre resistenza alla corrente della passione, incuranti persino del loro esser sospinti all’urto contro la “ruina”. Sembra che, per i due amanti, il sentimento sia una forza incontrastata. Proprio per questo, Virgilio consiglia a Dante, allo scopo d’indurli a parlare, di chiedere di farlo “in nome del loro amore”, l’unico argomento per loro convincente.]
Paolo e Francesca si avvicinano ai due Poeti:
pag. 71, vv. 82 – 87
Quali colombe dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir della schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
[Un analista che sappia fare il suo mestiere non saprebbe rendere meglio, in modo non riduttivo, l’idea di ciò che spinge queste due anime ad avvicinarsi per parlare del loro amore: una pulsione sessuale (qui simbolicamente rappresentata dall’unione della colomba col suo “dolce nido”) ingentilita da teneri sentimenti e da espressioni poetiche, ossia dal suo coniugarsi con elementi che nascono dalla sublimazione. L’energia istintuale rimane intatta, ma la pulsione esce del tutto dalla sua dimensione animalesca.]
Francesca così si rivolge a Dante:
pag. 71 – 76, vv. 88 – 93
“O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re dell’universo,
noi pregheremmo lui della tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso
[Francesca ha colto in Dante cortesia e bontà (lo vede “grazioso e benigno”); ha anche riconosciuto in lui sentimenti di pietà, ed è questo che la induce a parlare con sincerità e fiducia. Il Poeta dà prova, qui come altrove, di ciò che oggi chiameremmo “distanza ottimale”: s’avvicina e s’immedesima nei sentimenti di queste povere anime quanto basta per provarne compassione e umana comprensione (ed è questo che crea immediatamente un rapporto di confidenza); nello stesso tempo, però, ciò non lo induce ad essere indulgente: la “giustizia divina” non è messa in discussione. Da un punto di vista “laico” potremmo dire che non può essere ignorato il prezzo doloroso che costoro devono pagare come conseguenza delle loro scelte. Dante non ha nulla in comune con certi terapeuti “buonisti” del giorno d’oggi. Costoro, nel desiderio di “assolvere” i malati considerandoli pure e semplici “vittime”, omettono di porli di fronte alle loro responsabilità.]
Francesca, passando a parlare di sé stessa, innanzi tutto rende noto a Dante il luogo dov’è nata:
pag. 76, vv. 97 – 99
Siede la terra dove nata fui
sulla marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
[Con queste parole, Francesca da Rimini, anziché pronunciare il nome della sua città natale, parla della foce del Po, vicino a cui tale località si trova. Qui c’è la marina dove il fiume, dopo essersi progressivamente ingrandito unendo, alle sue, le acque dei suoi affluenti, cessa di scorrere e “trova pace” fondendosi col mare. Sembra una metafora della sua vita, la cui meta finale fu l’unione indissolubile con l’oggetto del suo amore.]
Intuendo quel che Dante vorrebbe sapere, l’anima della donna gli parla di come nacque il suo sentimento per Paolo:
pag. 76, vv. 100 – 108
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense.”
Queste parole da lor ci fur porte.
[L’amore nasce e cresce rapidamente in un “cuore gentile”, ossia incline ai sentimenti più teneri e delicati. Siamo, quindi, ben lontani dalla “lascivia”, vale a dire la propensione a soddisfare i propri istinti animaleschi. Tuttavia, già all’inizio della sua narrazione, Francesca allude ad un elemento di violenza.
I commentatori ci hanno offerto interpretazioni fra loro discordanti delle parole: “e ‘l modo ancor m’offende”. Per alcuni si riferiscono alla brutalità con cui il marito geloso le tolse la vita, il che legò per sempre a lei la fama di colpevole d’adulterio incestuoso. Per altri, tali parole si riferiscono alla proposizione principale (“amor… prese costui della bella persona”) ed indicano il violento impatto coi sentimenti di Paolo; un sentimento d’intensità tale da costringerla a riamarlo ed a procurarle un tormento perenne (“amor ch’a nullo amato amar perdona”). Non mi risulta che i commentatori abbiano considerato l’ipotesi di un significato ambiguo e sovradeterminato, che allude sia alla intensità dei sentimenti del suo amante, sia alla violenta reazione del marito Gianciotto. Alimentata da diverse fonti, è la violenza delle passioni proprie ed altrui (cioè non governate dall’empatia) che fa sì che un sentimento sublime divenga veicolo di un adulterio incestuoso.
Ho qui in mente le osservazioni di Kohut sulla natura dell’amore edipico: è soprattutto l’assenza di comprensione empatica, da parte dei genitori, che dà origine a desideri incestuosi. Questi, secondo l’Autore, non sono presenti fin dall’inizio e in ogni caso, ma rappresentano una reazione al mancato riconoscimento ed alla frustrazione delle aspirazioni sentimentali dei figli. Le responsabilità di Gianciotto non sono ignorate: lo attende “Caina”, ossia la prima zona del cerchio IX, destinata ai traditori dei parenti. Gianciotto, accecato dalla gelosia, “tradì” la moglie Francesca, privandola della sua comprensione. Quella “una” morte pare alludere ad un’unione indissolubile, una sorta di fusione. Ciò viene sottolineato anche da Dante, il quale dice “queste parole DA LOR ci fur porte”, anche se, oggettivamente, aveva parlato la sola Francesca.]
Alle parole di Francesca, il Poeta china il volto, commosso ed assorto nei suoi pensieri:
pag. 78, vv. 109 – 114
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: “Che pense?”
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”
[La “immersione empatica” di Dante nel mondo di questi amanti è d’intensità tale da portarlo a ricostruire (come se li vivesse anche lui, in prima persona) l’evolversi dei “dolci pensieri” e dei desideri che li portò al “doloroso passo”. La moralità del Poeta è inflessibile, ma non lo porta ad un puro e semplice giudizio di condanna, che escluderebbe ogni forma di comprensione umana. Dante conosce molto bene i sentimenti ed i pensieri di chi è profondamente innamorato, ma questo non gli consente d’ignorare che il passaggio all’adulterio è foriero di dolore, come se la pena fosse già implicita nello stesso peccato.]
Avendo compreso la profondità e la dolcezza dei sentimenti di Paolo e Francesca, Dante vuole ora capire come avvenne che i due innamorati li rivelassero l’uno all’altra:
pag. 78 – 79. vv. 115 – 138
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martiri
a lacrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancillotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;
quel giorno più non vi leggemmo avante.”
[Preme a Dante sapere come fu possibile, a Paolo e Francesca, sconfinare nell’adulterio incestuoso partendo da “dolci pensieri” e da desideri “dubbiosi”, ossia esitanti e bisognosi, per definirsi, d’essere come rispecchiati dagli analoghi desideri dell’altro/a.
Qui l’interesse del Poeta è identico a quello del clinico: come si può, partendo da una sana esperienza puramente sentimentale, passare ad atti o desideri incestuosi, simbolici o reali, consapevoli o inconsci, ma comunque malati e portatori di malattia? Una prima risposta Dante l’aveva già data, per bocca di Francesca, dicendo “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”: un desiderio intenso, non contenuto, da parte di una persona cui si è legati (o un genitore simbolico o reale da cui si dipende) è capace di “contagiare” e come ipnotizzare chi si trova nella posizione di figlio/a. In secondo luogo, c’è un desiderio di auto-punizione che non si sa se preceda o accompagni l’atto “peccaminoso”, facendo coincidere il “delitto” col “castigo”: la pena è il sentimento di “miseria”, provocato dall’atto stesso, che rende amaro e doloroso il ricordo della felice esperienza sentimentale. Infine, c’è una diabolica convergenza fra la forza delle pulsioni, che domina la passione, e un’istanza superegoica arcaica, che non aiuta a prevenire l’atto colpevole, ma sa solo punirlo addirittura provocandolo: i due si trovano insieme “senza alcun sospetto” di quel che potrebbe avvenire, pur essendo “soli” ed impegnati nella lettura di un romanzo che parla di un amore simbolicamente incestuoso. Un ultimo fattore in causa è rappresentato dalle deboli capacità di sublimazione di Paolo e Francesca: da quando la fantasia sconfinò nell’atto reale, il romanzo di Lancillotto e Ginevra fu messo da parte e dimenticato.]
Di fronte all’umana debolezza, che ciascuno di noi può riconoscere, almeno in tracce, nel proprio animo, Dante è sopraffatto dalla commozione e dal sentimento di pietà e, ancora una volta, sviene:
pag. 79
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea, sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;
e caddi come corpo morto cade.
Il commento sul Canto V è già stato pubblicato in: http://www.psychiatryonline.it/node/9920
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Canto VI
Dante, ripresi i sensi, si guarda intorno, e vede “nuovi tormenti e nuovi tormentati”. Si trova ora nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi:
pag. 81, vv. 7 – 12
Io sono al terzo cerchio, della piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
[In primo piano, vediamo subito un ambiente inospitale, oscuro, ostile, fonte soltanto di sensazioni spiacevoli: vi cadono costantemente, senza pause o variazioni, una pioggia fredda e sporca, e neve e grandine; la terra che ne viene impregnata è maleodorante. Il confronto con la durezza materiale ed emotiva dell’ambiente si presenta, nell’opinione di chi scrive, come aspetto essenziale della pena di questi dannati.]
Il custode del terzo cerchio è Cerbero, un cane che, benché con alcune caratteristiche umane, ha una natura ed un comportamento decisamente bestiali:
pag. 81 – 83, vv. 13 – 33
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sopra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ‘l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani:
dell’un de’ lati fanno all’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
Lo duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro alle bramose canne.
Qual è quel cane ch’abbaiando agugna,
e si racqueta poi che ‘l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
dello demonio Cerbero, che ‘ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
[Qualcosa di bestiale, disumanizzato, caratterizza il castigo cui vanno incontro questi dannati ingordi. Cerbero, pur essendo esecutore della giustizia divina, è una “fiera crudele”. Tuttavia, il carattere ferino appartiene, oltre che al castigo, anche al peccato. Cerbero, infatti, è come uno specchio in cui i golosi smoderati possono riconoscere sé stessi: il suo ventre è “largo”, smisuratamente dilatato; il suo aspetto è sgradevole, reso disgustoso dall’ingordigia: la sua barba è unta, i suoi occhi arrossati, sembra un “vermo”, un essere ripugnante. Esattamente come i dannati che, rivoltandosi continuamente sui fianchi, non trovano mai requie, anche Cerbero è irrequieto: non c’è parte del suo corpo che rimanga ferma. Il carattere bestiale del peccato di queste anime è come se “rimbalzasse” su Cerbero e “ritornasse indietro” presentandosi come contrappasso. L’ingordigia (il dominio della pulsione orale irragionevole e cieca) rende come animali, privi delle facoltà umane superiori, il cui unico scopo è divorare. Cerbero è capace solo di dilaniare e mordere i dannati. Per acquietarlo non servono le parole con cui si fa appello alla volontà di Dio (come avvenuto con Caronte e Minosse), ma solo saziarlo con un boccone. Non è neppure in grado di rendersi conto che Virgilio ha riempito la sua bocca di terra, e non con alcunché di commestibile. Come non sa intendere il significato delle parole, Cerbero non è neppure capace d’esprimere verbalmente la sua condanna ai peccatori: emette soltanto grida spaventose, per sottrarsi alle quali le anime vorrebbero diventare sorde.]
Mentre i due Poeti passano tra i dannati, un’ombra, quella di Ciacco, si leva a sedere. Egli ha individuato in Dante un suo concittadino, e gli domanda se lo riconosce. Dante, infatti, era nato prima che lui morisse. Tuttavia, il Poeta non riesce a ravvisare la persona che conobbe in quell’anima sfigurata dalla pena:
pag. 88 – 89, vv. 43 – 63
Ed io a lei: “L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor della mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ‘n sì dolente
loco se’ messa ed a sì fatta pena,
che s’altra è maggio, nulla è sì spiacente.”
Ed elli a me: “La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa della gola,
come tu vedi, alla pioggia mi fiacco
……………………………….”
Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar m’invita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin della città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita.”
[Ciacco, prima ancora di parlare (del resto, sommariamente) di sé stesso, menziona la città che “lo tenne” finché egli era in vita: una città “piena d’invidia”. Anche Dante, dopo aver brevemente espresso la sua compassione per la pena di Ciacco, passa subito a parlare di Firenze, la madre-patria di entrambi. In questo Canto l’attenzione di Dante, più che sui dannati, si sofferma sull’ambiente che li circonda nell’oltretomba, e, riguardo a Ciacco, su quello che lo “tenne” quando era in vita. Si tratta, in entrambi i casi, di luoghi inospitali ed ostili.
L’opinione di chi scrive è che qui, come negli altri cerchi in cui vengono punite le colpe dello stesso genere, ci sia una stretta relazione tra ambiente e peccato d’incontinenza. Sia il luogo della “piova etterna, maladetta, fredda e greve”, sia la città piena d’invidia e di discordie rimandano, a livello profondo, ad un ambiente arcaico incapace di “contenere” e favorire un’esistenza sana: un “contenitore” che, interiorizzato in epoca successiva, è alla base della capacità di auto-contenimento. Winnicott lo definì “madre-ambiente”, una sorta di presenza invisibile, non riconosciuta come persona separata, capace, una volta interiorizzata e se sana, d’accompagnare l’individuo per tutta la vita, “avvolgendolo”, e facendolo sentire a suo agio con sé stesso e, quando possibile, col mondo esterno. Tale contenitore protettivo interiorizzato conferisce una giusta misura ai bisogni ed all’appagamento pulsionale, dando, ad esempio, la certezza d’essersi alimentati quanto necessario per rimanere in vita. In sua assenza, il bisogno di cibo, più che dall’appetito fisiologico, è dominato dalla paura di morire di fame; di qui l’ingordigia.
In che misura sia una madre-ambiente inadeguata a produrre l’emergere di pulsioni non controllate (fra cui l’ingordigia), o sia un’insaziabilità innata a vanificare le cure materne: ciò non può essere stabilito con certezza, dato che tutto questo si verifica in epoca arcaica, quando i confini fra l’Io e il mondo esterno non sono ancora chiaramente stabiliti.]
Nel seguito del Canto VI compaiono i problemi politici di Firenze discussi con Ciacco e, successivamente, una disquisizione di ordine scolastico fra Dante e Virgilio, riguardo alla condizione dei dannati dopo il Giudizio Universale. Pur vivificati dalla Poesia, questi ultimi versi non paiono, a chi scrive, offrire al clinico importanti suggerimenti. Dante stesso sorvola su parte degli argomenti trattati da lui e da Virgilio. Anticipa, nell’ultimo verso, il contenuto del canto seguente menzionando Pluto, personificazione della ricchezza e definito “il gran nemico”:
pag. 93, vv. 112 – 115
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’io non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
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Canto VII
A Dante e a Virgilio, che stanno per entrare nel quarto cerchio, compare il custode Pluto che rivolge loro parole misteriose. Il tono minaccioso di quest’essere spaventa Dante, e Virgilio lo rassicura. Poi, rivolgendosi a Pluto (come aveva già fatto con Caronte e Minosse), dice che il viaggio dei due Poeti è voluto da Dio, ed egli non può opporvisi:
pag. 95, vv. 1 – 12
« Papé Satàn, papé Satàn aleppe ! »
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: “Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia”
Poi si rivolse a quella infiata labbia,
e disse: “Taci, maledetto lupo;
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi nell’alto, là dove Michele
fe’ la vendetta del superbo strupo.”
[Come già gli altri custodi, anche Pluto anticipa, col suo aspetto ed il suo comportamento, qualcosa che (come poi si scoprirà): ha a che vedere coi peccati delle anime che egli sorveglia. Innanzi tutto il carattere pressoché incomprensibile delle parole che pronuncia. È chiaro che sta menzionando Satana; probabilmente Dante non ignorava che “aleppe” potrebbe rimandare all’ebraico “aleph”, ossia principe. Nel loro insieme, tuttavia, le parole di Pluto hanno un carattere sinistro, estraneo e minaccioso; tale da suscitare la paura di Dante.
Pluto (da non confondersi con Plutone) era il dio pagano della ricchezza. Originariamente molto bello, diviene, nella rielaborazione dantesca, un mostro dalla voce sgradevole e dal volto stravolto dall’ira; caratteristiche che testimoniano una ferocia e un’ingordigia “da lupo”. Per voce di Virgilio, Dante allude alla violenta e vana ribellione che fu stroncata dall’arcangelo Michele, alla rabbia impotente dei ribelli. Estraneità, incomprensibilità, minaccia e rabbiosa ribellione: come questi elementi possano essere legati al cattivo uso della ricchezza, da parte di avari e prodighi, non è ancora chiaro; tuttavia, presenti fin dall’inizio, essi acquisteranno un senso nei versi che seguono.]
Vinta la resistenza di Pluto, Dante e Virgilio possono entrare nel quarto cerchio, dove assistono alla punizione di numerose anime:
pag. 100, vv. 19 – 21
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
[Dante allude a colpe di cui ciascuno di noi può trovare traccia nella propria vita interiore: usa la prima persona plurale parlando dei peccati e delle pene di queste anime. Si tratta di colpe che portano a sciupare qualcosa di prezioso: l’aspetto e probabilmente qualcos’altro che appartenne ai peccatori.]
Il Poeta ora descrive la pena degli avari e dei prodighi: divisi in due opposte schiere, spingono col petto dei pesanti macigni e, quando arrivano al punto in cui s’incontrano, si rivoltano indietro rimproverandosi a vicenda la loro colpa. Poi, giunti al punto opposto del cerchio, si scontrano nuovamente e la scena si ripete; così, di seguito per l’eternità:
pag. 100 – 101, vv. 25 – 35
Qui vidi gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percoteansi incontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogni mano all’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio all’altra giostra.
[Questi dannati hanno un modo particolare di spingere i macigni: non con le braccia ma “per forza di poppa”; fanno un uso improprio delle mammelle. Gli appartenenti a ciascuna delle due schiere denunciano il comportamento irragionevole di quelli dell’altra, ma non sanno vedere il proprio: gli avari accusati di trattenere per sé, in modo insensato, le ricchezze; e i prodighi di buttar via (“burlare”) altrettanto assurdamente, il loro patrimonio. Manca, ad entrambi, il senso della misura e la consapevolezza della reale utilità del denaro. Che entrambi i comportamenti, sia pure di segno opposto, furono irragionevoli è testimoniato dal carattere insensato e gravoso del contrappasso.]
Dante ha notato che molti alla sua sinistra (ossia dalla parte degli avari) portano la chierica, e chiede a Virgilio se furono “cherchi”, cioè uomini di chiesa. Il Poeta latino lo conferma: furono ecclesiastici, e dei più alti gradi. Essi appartengono alla schiera degli avari, ma non sono estranei a quella dei prodighi:
pag. 101, vv. 36 – 48
E io, ch’avea lo cor quasi compunto
dissi: “Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherchi
questi chercuti alla sinistra nostra.”
Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci
sì della mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
……………………………………….
Questi fuor cherchi, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio.”
[A dispetto del loro asserito amore per Dio, questi ecclesiastici, nel loro strabismo della mente, seppero guardare solo i beni terreni, amandoli a tal punto da perdere il senso della misura. Alcuni furono prodighi, ma i più furono sotto il “soperchio” (il dominio) dell’avarizia. Compare qui quell’elemento di resistenza all’autorità e ribellione che era già stato anticipato nell’incontro con Pluto: qui una ribellione sorda, nascosta, nei confronti dell’Oggetto d’amore ideale, che porta questi peccatori a tradire il rapporto con Lui, ed a rivolgere il proprio esclusivo interesse a qualcosa di materiale.]
Dante chiede al suo Maestro se qualcuno di questi peccatori sia identificabile. Virgilio gli risponde che costoro, avendo disconosciuto il valore dei propri simili ed avendo amato solo il denaro, sono stati estranei ad ogni autentica relazione che avrebbe potuto definirli e, perciò, hanno perso ogni caratteristica umana individuale e riconoscibile. Tali rimarranno anche al momento della resurrezione, contraddistinti solo da ciò che li caratterizza come avari o come prodighi:
pag. 102, vv. 49 – 60
E io: “Maestro, tra questi cotali
dovre’io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali”
Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fe’ sozzi
ad ogni conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno alli due cozzi:
questi resurgeranno del sepolcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
[Il disconoscimento dei rapporti umani, in cui si sarebbe potuta manifestare la loro indole, ha sottratto a questi peccatori ogni caratteristica umana individuale, e li ha resi tutti ugualmente “sozzi”. Già Dante aveva definito questi dannati come “immondi”. Anche nel linguaggio comune, gli avari sono spesso definiti “sordidi”. Sia il Poeta, sia l’uomo comune hanno intuito che, in questo attaccamento morboso al denaro c’è qualcosa di sporco: denaro come “sterco del demonio”.
Per comprendere il nesso fra la ricchezza e quel che, per eccellenza è sporco, ossia le feci, occorre penetrare nelle profondità dell’animo umano, raggiungendo ciò che è rimasto delle primissime fasi della vita – Qui Dante, con il suo cenno al carattere “sozzo”, e reso impersonale e uniformato a chi condivide comune sozzura, anticipa di sei secoli quel che Freud scriverà a proposito del “carattere e dell’erotismo anale” – Il contatto con il prodotto della defecazione è precoce, e subito assume un grosso valore emotivo. Fra il momento in cui il latte offerto dal seno materno viene ingerito e quello della defecazione, avviene qualcosa, nel corpo del bambino, di cui lui solo è l’autore. Il risultato finale di tale processo (l’unico, i quella fase, cui la genitrice è estranea) sono le feci. Esse, quindi, assumono il valore di testimonianza di un buon uso che il neonato, portando a compimento il processo della digestione, ha fatto del nutrimento materno. Le feci diverranno qualcosa di sgradevole solo in seguito, nella fase avanzata dell’educazione sfinterica, ma ora rappresentano quanto di più prezioso il bimbo può offrire alla sua mamma: rappresentano il valore del cibo che lei gli ha offerto, della capacità del neonato di assimilarlo quale fonte di vita; sono un primo “dono”, il segno di una primitiva gratitudine: sono l’oggetto di valore che il piccolo offre in cambio delle cure materne.
Tutto questo avviene se il rapporto fra madre e bambino è sano, e fra i due esiste il massimo livello concepibile di familiarità. Può, però, avvenire che il bimbo si renda “irriconoscibile”, come pure per lui la genitrice. Si crea, fra i due, quella stessa estraneità (che può assumere un carattere minaccioso) che abbiamo trovato in Pluto. Le feci conservano il valore di oggetto prezioso, ma non più di quel “dono” che significa un proficuo investimento affettivo, da parte del neonato, verso chi l’ha messo al mondo. Il piccolo, perciò, nell’impossibilità di amare la genitrice ripiega sul prodotto materiale del suo corpo: cercherà di trattenerlo il più possibile per sé, oppure di espellerlo a proprio capriccio, non più legandolo al rapporto con la sua nutrice. Tale diverrà, in età adulta, il rapporto col denaro.
Coloro che trattengono la ricchezza per sé oltre misura e coloro che la sperperano sono condannati ad una lotta insensata coi propri simili, da cui non riceveranno altro che risentimento o rimproveri; una zuffa che impedisce loro di accedere alla Bellezza, anche a quella di quel poco di Paradiso che possiamo godere in questo mondo. Saranno condannati a non essere considerati e a non essere ricordati altrimenti che come avari (che col “pugno chiuso” cercano di trattenere tutto quel che possono) o come prodighi che finiscono di privarsi di tutto, persino dei capelli. Non potranno essere amati da nessuno; persino il Poeta non trova parole che abbelliscano la loro miserabile condizione.]
Dante, ora, per voce di Virgilio passa a parlare della beffa (“buffa”) legata ai beni materiali, ossia di quanto illusoria sia la convinzione di coloro che pensano che la propria felicità possa legarsi al possesso fine a sé stesso, o allo sperpero, della ricchezza. Nella loro visione miope, essi non sanno rendersi conto che, a regolarne la distribuzione, è la “Fortuna”:
pag. 102, vv. 61 – 66
Or puoi veder, figliuol, la corta buffa
de’ ben che son commessi alla Fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ché sotto la luna
e che già, di quest’anime stanche
non potrebbe farne posare una”
[Il dominio sulla ricchezza, allo scopo d’accumularla o sperperarla, è causa di una lotta senza tregua fra questi esseri umani. Non sanno rendersi conto che, anche se s’impossessassero di tutto l’oro del mondo, non potrebbero trovare pace.]
Dante chiede al suo Maestro in che cosa consista questa “Fortuna” il cui potere è tale da rendere faticosa e inutile la lotta per impossessarsi del denaro degli avari e dei prodighi:
pag. 102 – 104, vv. 67 – 72
“Maestro” diss’io lui “or mi di’ anche:
questa Fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”
Ed elli a me: “Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche.
[Virgilio riconduce l’ignoranza riguardo alla Fortuna ad un atteggiamento emotivo sciocco ed infantile. Come occorre imboccare il bambino per nutrirlo, così è necessario offrire all’ignoranza umana una spiegazione che sia facilmente comprensibile e capace di superare ogni difficoltà ad assimilarla.]
Segue una spiegazione di tipo religioso sulla natura della Fortuna quale regolatrice della ricchezza:
pag. 104 – 105, vv. 73 – 96
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì ch’ogni parte ad ogni parte splende,
distribuendo igualmente la luce:
similemente alli splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue
oltre la difension di senni umani;
per ch’una gente impera ed altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contrasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dei.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrìen dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
[Per Dante l’ordine naturale delle cose coincide con l’ordine divino. Perciò le sue intuizioni poetiche, espresse nell’ottica di un sistema di pensiero religioso, possono essere tradotte in temini laici. Per il Poeta, la Fortuna è una “intelligenza” celeste, ossia una forza superiore dotata di razionalità. Il suo potere non è neppure scalfito dal limitato sapere di quelle “creature sciocche” che sono spesso gli esseri umani. Questi, puerilmente incapaci di controllare gli istinti, innalzano difese inutili e dannose per proteggerne il predominio. Il criterio razionale con cui la Fortuna assegna o sottrae ricchezza sfugge ai più; rimane, ai loro occhi, “occulto”, imperscrutabile. Per tale motivo, costoro maledicono la Fortuna quando si trovano in una situazione sfavorevole che hanno prodotto con le loro stesse mani.
A quale realtà, percepibile con gli strumenti d’indagine appropriati, corrisponde la Fortuna dantesca? Noi tutti siamo stati sotto il dominio di una “intelligenza” superiore invisibile e spesso, per noi, incomprensibile. Tale è, anche qui, la “madre-ambiente” non riconosciuta come persona separata. Ella, a suo tempo, ci protesse e facilitò la nostra crescita in base a criteri razionali che allora ci erano sconosciuti. Interiorizzata, continua ad esercitare le proprie funzioni anche in età adulta, e la razionalità ne è l’erede. Le sue cure avevano anche lo scopo di favorire un controllo ottimale, per noi vantaggioso, delle nostre funzioni fisiologiche. Le pulsioni anali, se isolate e sganciate dall’influenza materna, portano a trattenere oltre misura, oppure ad espellere immediatamente, il prodotto finale della digestione. Esso, originariamente, ha un importante valore emotivo in quanto primo “bene” prodotto soltanto da noi bambini, e che appartenne solo a noi. È, quindi, il prototipo di ogni ulteriore forma di proprietà, verso cui conserveremo lo stesso atteggiamento emotivo originario. Se prevalgono pulsioni anali incontrollate, l’individuo sarà portato a trattenere per sé, oltre ogni misura, le ricchezze (l’avarizia), oppure a liberarsene sperperandola (la prodigalità)
A Dante, ovviamente, non erano note le leggi dell’economia che conosciamo oggi, tuttavia, in quanto Poeta, sapeva comprendere, e in profondità, le emozioni che governano il possesso o la perdita delle ricchezze. Di esse, se ne fa sempre più spesso un uso irrazionale ossia, direbbe Dante, in contrasto con quella “intelligenza celeste” che egli chiama Fortuna. Tale è l’accumulazione oltre misura, e fine a sé stessa, di capitale ottenuto tramite speculazioni finanziarie sganciate dalle attività produttive, o in contrasto con esse. Tale è anche lo sperpero di ricchezze, spesso sottratte ad altri, come gli sprechi, da parte degli stati, del denaro dei contribuenti. In entrambi i casi, se c’è sempre meno ricchezza disponibile per soddisfare le reali necessità della gente e per gli investimenti produttivi, uno stato (o una comunità, o una famiglia) non può che impoverirsi. La gente paga un caro prezzo per essere rimasta estranea all’intelligenza della “Fortuna”, ossia alla comprensione razionale del nesso che esiste fra le scelte sbagliate e le loro inevitabili conseguenze.
Come per le altre forme d’incontinenza (la lussuria, l’ingordigia e, come si vedrà più avanti, l’irascibilità e l’accidia) anche riguardo ad avarizia e prodigalità, intuiamo e meglio comprendiamo, grazie ai versi di Dante, che la radice di questi mali nasce da un rapporto non sano fra il soggetto e chi avrebbe potuto aiutarlo a “contenere” (ossia a mantenere nella giusta misura) i desideri e i bisogni. Nasce anche dall’incapacità di molte “creature sciocche”, di guardarsi dentro, condizione indispensabile per mantenere sotto il nostro controllo la tendenza a cadere in eccessi dell’uno e dell’altro tipo; tendenza presente, almeno in tracce, in ciascuno di noi.]
Nell’ultima parte del Canto VII, Dante, in contrasto con quanto fatto precedentemente, anticipa i temi del Canto che segue. Appaiono, immersi nel fango dello Stige, appartenente al quinto cerchio, dannati dall’aspetto furibondo. Essi usano, tra di loro, ogni forma di violenza:
pag. 106, vv. 109 – 114
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Questi si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.
[Lo Stige è, anche etimologicamente, la palude della “tristizia”. Questa parola, divenuta pressoché obsoleta come tale, e trasformata in “tristezza”, nell’uso comune ha perso la sua complessità: oggi, con questo vocabolo, intendiamo soltanto mestizia, ossia uno stato di puro malessere interiore, che, divenendo più intenso e sconfinando nella patologia, chiamiamo depressione. Tristizia, nell’accezione più antica, significa non solo abbattimento, ma anche malvagità. Dante sottolinea questo concetto quando attribuisce agli iracondi (ed anche agli accidiosi, ai superbi ed agli invidiosi) un sembiante “offeso”, ossia un aspetto furibondo che denota risentimento per un affronto subìto – In medicina definiamo “offesa” una parte del corpo che ha subìto una lesione traumatica – L’ira rappresenta una delle espressioni di tale danno subìto: ogni parte del corpo (e dell’anima) di questi dannati è impiegata a scopi violenti; non solo le mani, ma anche il petto, i piedi, i denti.
Entrando empaticamente nella vita interiore degli iracondi, degli accidiosi, dei superbi, degli invidiosi, il Poeta subito intuisce che l’origine del loro modo di essere è il risentimento per una ferita inferta al loro orgoglio (una brutale frustrazione dei loro bisogni narcisistici); una ferita molto probabilmente antica (risalente all’epoca della formazione della personalità); tale, cioè, da procurare una lesione permanente ed una immutabile reazione ad essa.]
Virgilio spiega a Dante che i dannati, visibili alla superficie della palude, sono gli iracondi, mentre, sommersi, ci sono gli accidiosi:
pag. 106 – 107, vv. 115 – 126
Lo buon maestro disse: “Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua ha gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicon: ‘Tristi fummo
nell’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam nella belletta negra.’
Quest’inno si gorgoglian nella strozza
ché dir nol posson con parola integra.”
[A differenza degli iracondi, gli accidiosi non manifestano il loro risentimento; non lo traducono in azioni. Questo, forse, in virtù delle loro inibizioni o forse perché impediti da ostacoli esterni. Il rancore pervade la loro vita emotiva: come, nell’Inferno, uno strato di fango impedisce loro di vedere quel che c’è all’aria aperta, così, nella vita terrena, una rabbia impotente, che non lasciò spazio ad altre emozioni, impedì loro di godere la bellezza del creato. Come, nell’Inferno, l’essere immersi nell’acqua impedisce loro di parlare, anche in vita non seppero tradurre in parole “integre”, ossia dal chiaro significato, i loro sentimenti. Dobbiamo supporre che, poiché la capacità di pensare è legata a quella di parlare, essi non poterono rendersi pienamente consapevoli della loro ira e di ciò che la suscitò, pur essendone pervasi. Il loro stato d’animo, perciò, è ancor più difficilmente modificabile di quello degli iracondi.]
In contrasto con il finale drammatico dei canti precedenti (e con l’umore cupo dei dannati), il Canto VII termina con parole emotivamente neutre. Dante ci dice che, costeggiando la palude fra l’asciutto e il fradicio (il “mezzo), lui ed il Maestro giunsero infine (“al da sezzo”) in vista di una torre:
pag. 107
Così girammo della lorda pozza
grand’arco tra la ripa secca e ‘l mezzo,
con li occhi volti a chi del fango ingozza:
venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
…………………………………………………………………………………………
Canto VIII
Dante riprende la narrazione interrotta nel Canto precedente. Già prima di giungere ai piedi della “alta torre”, lo sguardo dei due Poeti era stato attirato da due fiammelle che si accendevano sulla sua cima, mentre da lontano, in risposta, se ne accendeva un’altra. Dante, non comprendendo il significato di quei segnali, ne chiede spiegazione a Virgilio. Questi gli risponde che fra poco avrebbe potuto scorgere quel che gli avrebbe dato una risposta. Compare, trasportato da un’imbarcazione velocissima, un personaggio stravolto dall’ira che, credendo d’aver a che fare con l’anima di un dannato, minaccia di prenderla:
pag. 110, v. 18
… gridava: “Or se’ giunta, anima fella!”
Si tratta di Flegiàs, custode del Cerchio V. Virgilio, che lo ha riconosciuto, gli risponde:
pag. 110, vv. 19 – 25
“Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto”
disse lo mio signore “a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto.”
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegiàs nell’ira accolta.
[Flegiàs, custode degli iracondi, ed iracondo lui stesso, manifesta violentemente un’ira che si era accumulata (“accolta”) nel suo animo. Come agli altri peccatori-malati dello stesso genere, a lui non manca l’esame di realtà. Esso era stato temporaneamente travolto dalla rabbia impulsiva, ma ora riprende il controllo. Questo gli consente d’accorgersi d’essersi ingannato, e di rammaricarsene – Nei pazienti caratterialmente intemperanti assistiamo spesso ad un alternarsi d’impulsi rabbiosi e di sentimenti di colpa – A differenza degli accidiosi, che non manifestano mai apertamente il loro risentimento e che quindi non lo sottopongono all’esame di realtà, nell’iracondo esiste una sorta di “feed back” negativo che, benché non prontamente e non in tempo utile, consente loro di calmarsi.
Sarebbe un errore terapeutico limitarsi a riprovare ed a soffocare le esplosioni impulsive di rabbia di queste “anime dannate”: sarebbe come spingerli verso l’accidia, in cui il rancore represso non viene espresso verbalmente e permane immodificato. Quel che occorre, semmai, quando i tempi sono maturi per farlo, è evidenziare i segni dell’ostilità repressa (il “transfert negativo latente” di cui parlava Wilhelm Reich) ed incoraggiare un’espressione a parole della rabbia, decisamente più innocua del passaggio all’atto. Ogni terapeuta può constatare che più il paziente parla, meno si esprime con l’azione. La collera espressa verbalmente può più agevolmente essere messa in discussione, chiarita nelle sue motivazioni, e suscitare minori sensi di colpa.]
Dante e Virgilio scendono nella barca di Flegiàs, che li traghetta al di là della palude; ma ecco che, durante il tragitto, compare un dannato sporco di fango:
pag. 110 – 112, vv. 31 – 51
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: “Chi tu se’ che vieni anzi ora?”
E io a lui: “S’i’ vengo non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”
Rispuose: “Vedi che son un che piango.”
E io a lui: “con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto.”
Allora stese al legno ambo le mani;
per che ‘l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: “Via costà con li altri cani!
…………………………………………..
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua furiosa.
Quanti si tengon or là su gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!”
[Non compare, nei confronti di Filippo Argenti, la stessa comprensione e la stessa pietà che Dante aveva manifestato per altri dannati. Le uniche parole che il Poeta mette in bocca a quest’iracondo, e che si possono avvertire come nota dissonante sono: “Vedi che son un che piango”. Piange per la frustrazione, per la rabbia punita e resa impotente dalla Giustizia Divina? Oppure perché si è reso manifesto quel fondo di fragilità e di sofferenza cui ha reagito con comportamenti aggressivi ed arroganti? O forse esprime, nello stesso tempo, entrambe le cose?
Filippo Argenti dei Cavicciuli, stando a quanto ci narrano il Boccaccio e il Sacchetti, pose come aspetto centrale del suo stile di vita la prepotenza e l’abitudine d’aggredire e molestare i suoi concittadini. – oggi lo definiremmo un “bullo” – Nei comportamenti antisociali egli esprimeva la propria superbia e la propria arroganza. La “Giustizia Divina”, nell’interpretazione laica che ne dà il sottoscritto (e cui ho già accennato nella premessa) è la sofferenza che la realtà infligge come inevitabile conseguenza di scelte sbagliate; ed il motivo per cui superbi e arroganti arrivano a “piangere” è che, insensibili a considerazioni di opportunità e di ragionevolezza che li spingerebbero a controllarsi, prima o poi arrivano a scontrarsi brutalmente con qualcuno più forte di loro che li ferma. Soffrono, allora, sia per la frustrazione di spinte emotive che ritengono insostituibili, sia perché emerge quella parte dolente profonda da loro abitualmente mascherata: la fragilità narcisistica che avevano creduto di poter disconoscere dando prova di “forza” e di capacità di sopraffare i propri simili. Costoro si auto-condannano ad un perenne stato di “lutto” (di perdita definitiva di tutto ciò che avrebbe potuto offrire un vero conforto) grazie al fatto che si rendono indisponenti anche agli occhi di coloro che potrebbero salvarli: per la loro superbia li disdegnano e li allontanano. Da parte di tutti gli altri, non può esserci che risentimento e disprezzo, a dispetto di quell’immagine di “re” grandi e potenti che s’illudono d’offrire al mondo. Nessuno piangerà la loro scomparsa.
Una considerazione di ordine clinico: nei casi (purtroppo non frequenti) in cui queste persone entrano in crisi e chiedono aiuto, occorre che il terapeuta sia dotato di molta, molta pazienza, il che non significa rimanere impassibili di fronte alle loro provocazioni. Si richiede, inoltre, una grande cautela nel momento in cui si cerca di raggiungere il nucleo profondo, dolente e fragile, del loro mondo interno: grazie al loro orgoglio patologico, finché possono preferiscono mostrarsi malvagi e molesti piuttosto che malati e sofferenti.]
A punire la superbia e l’arroganza di Filippo Argenti, oltre al brusco movimento con cui Virgilio lo allontana dalla barca ed al modo severo con cui lo apostrofa, interviene la violenza di altri dannati:
pag. 113, vv. 58 – 63
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui alle fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
[La rabbia di Filippo Argenti è incoercibile: se non può indirizzarla agli altri, la rivolge verso sé stesso. Egli è adirato col mondo: è la “rabbia narcisistica” (Kohut), spinta all’estremo, verso tutto ciò che contrasta l’immagine di sé stesso come “gran rege”; e lui stesso, ora impotente verso quella moltitudine di scalmanati, diviene parte di questo mondo ostile.
Ad accanirsi contro Filippo Argenti, secondo i commentatori che conosco, sono gli invidiosi. Essi, come gli accidiosi, sono immersi nella palude di Stige; ed ora compaiono per dar sfogo alla rabbia anche in loro accumulata (“accolta”). C’è un che di sornione e di codardo nel comportamento di questi dannati: attaccano furiosamente il superbo solo ora che questi è già in difficoltà, e non quando sembrava dar prova della sua forza.]
Così Dante conclude la sua narrazione dell’episodio di Filippo Argenti:
pag. 113, vv. 64 – 67
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma nell’orecchie mi percosse un duolo
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
[Il “duolo” che colpisce le orecchie di Dante viene, di solito, interpretato come il grido di dolore di altri dannati, che distoglie l’attenzione del Poeta. Così pure il “più non ne narro” viene inteso come ultima dimostrazione di disprezzo verso il superbo. Sia concesso al sottoscritto d’esprimere un dubbio: il “duolo” non potrebbe essere il grido di dolore dello stesso Filippo Argenti? Il non parlarne (“più non ne narro”) ed il volgere l’occhio altrove non potrebbero essere espressioni di una pena, di fronte alle sofferenze del dannato, che il Poeta sta avvertendo ma non vuole ammettere? Questi peccatori-malati sanno rendersi così odiosi che spesso facciamo fatica a renderci coscienti dei sentimenti di compassione, che pure sotto sotto avvertiamo, e che rispecchiano nel modo più fedele la reale natura di questi sciagurati.]
Ora il viaggio dei due Poeti in questa parte dell’oltretomba si fa più difficile: traghettati dalla navicella di Flegiàs, giungono alle porte della “città di Dite”. Qui è il “basso Inferno”, dove espiano le loro più gravi colpe i violenti e i fraudolenti. Dante e Virgilio vedono sulle mura della città comparire, come piovuti dal cielo, mille diavoli. Questi, stizziti, chiedono come Dante, ancora vivo, osi accedere al regno dei morti. La loro domanda è retorica: in realtà stanno cercando d’imporre a Dante di tornarsene da solo da dove è venuto, e di tenere Virgilio come prigioniero. Quest’ultimo ha chiesto di parlare con loro in disparte; tuttavia i diavoli, prima di sentire le sue spiegazioni, hanno già deciso cosa imporre ai due Poeti:
pag. 115, vv. 85 – 93
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: “Chi è costui che sanza morte
va per lo regno della morta gente?”
E ‘l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar secretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada,
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai
che li ha’ iscorta sì buia contrada.”
[Colpiscono la ristrettezza di vedute e l’arroganza di questi custodi dell’Inferno. Vengono in mente certe guardie e certi carcerieri che, quanto più è gravoso il loro compito repressivo, tanto più si dimostrano rigidi ed ottusi. Tuttavia, come dimostra il seguito del Canto, c’è qui un significato più profondo.]
Virgilio sperava di convincere i custodi, come già aveva fatto con Caronte, Minosse e Pluto, ma questa volta non ha successo: rientrati precipitosamente nella città, i diavoli chiudono le porte in faccia al Poeta. Dante è preso dallo sconforto, tanto più perché vede il suo Maestro abbattuto e irritato. Questi, tuttavia, lo conforta: lo assicura che i diavoli, per quanto temerari, non possono opporsi al volere divino. Lui incaricato, in ultima analisi da Dio, di compiere la missione d’accompagnarlo, “vincerà la prova”, per quanto grandi siano le resistenze opposte dai diavoli:
pag. 121, vv. 118 – 123
Li occhi alla terra e le ciglia avea rase
d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
“Chi m’ha negate le dolenti case!”
E a me disse: “Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’alla difensione dentro s’aggiri.
I diavoli, spiega Virgilio, già dimostrarono la stessa tracotanza cercando d’impedire a Cristo di discendere nel Limbo. Non volevano permettergli di passare per la porta più esterna (“men secreta”) degli inferi; però Gesù ruppe i serrami di essa, ed essi non furono più rimessi. Sopra tale porta, il Poeta poté leggere l’iscrizione annunciatrice di morte eterna, eppure egli, vivo, per concessione divina poté varcarla. Per volere di Dio onnipotente, sarà loro aperta anche la porta di Dite: già sta arrivando, discendendo per il precipizio infernale, un messo divino che imporrà ai diavoli di farli entrare nella città di Dite:
pag. 121, vv. 124 – 130
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men secreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sopr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta.”
[L’opposizione dei diavoli a far entrare i Poeti nella città dove si espiano i maggiori peccati sta a significare la resistenza che le colpe più gravi oppongono al peccatore sulla via della redenzione. In termini clinici: porre fine a comportamenti particolarmente “colpevoli” e malati non è facile, perché essi sono stati il fondamento di un equilibrio che, benché patologico, ha permesso al soggetto d’evitare il peggio.
I diavoli rappresentano un’istanza superegoica che non consente ad un vivo (la parte ancora sana della persona) d’entrare in contatto coi morti dannati (la parte malata e colpevole, che si suppone irrecuperabile) allo scopo di conoscerli ed evitare di cadere nel loro stesso errore (di assumere il controllo della parte malata, ed evitare che si traduca in comportamenti sbagliati); per questi “diavoli” non esiste possibilità di redenzione (di guarigione attraverso processi riparativi), ma solo d’espiazione. Con essi, nulla valgono gli argomenti di Virgilio, rappresentante della ragione umana: può vincerli solo un aiuto del Cielo.
Tradotto in termini laici e clinici: poco o nulla vale la confutazione logica del modo d’essere e di comportarsi patologico. Il percorso verso la guarigione può progredire principalmente attraverso un’esperienza affettiva correttiva che permetta al paziente, attraverso la fiducia verso il terapeuta e la speranza che questi sa suscitare, d’intravvedere che cosa significhi il ritrovato contatto con l’Oggetto Arcaico Ideale interiorizzato: quel che, per i credenti, è Dio.]
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