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Femminicidi: la violenza, la sanzione e la cura

4 Dic 23

A cura di Sarantis Thanopulos

Nel pensare la violenza contro la donna è difficile accettare l’idea che dietro l’azione distruttiva non ci sia una chiara, conoscibile motivazione: l’eccesso di passione, l’arbitrio patriarcale, la “malattia mentale”. Il coinvolgimento inconsapevole delle vittime nella catastrofe, se presente, è, invece, comprensibile, seppure complesso. Spicca tra tutte le motivazioni contraddittorie (mescolanti l’amore e l’odio) che le mettono nelle mani dell’assassino (impedendo loro di sottrarsi in tempo o di evitare l’“ultimo” appuntamento) la fiducia che la relazione d’amore possa essere bonificata anche quando è tossica.   

Nel femminicidio (la forma estrema della violazione, dello stupro) l’azione impersonale, disumana (anaffettiva) del carnefice incontra il sentimento umano della vittima (l’essere affettivamente presente nell’amore e nell’odio) e il secondo soccombe inevitabilmente. La sconfitta dei sentimenti era già accaduta nel mondo interno dell’uccisore. Non si può prevenire la distruzione se la si associa alla violenza che è parte tradizionale del sistema patriarcale o la si attribuisce a forme di disfunzionamento emozionale individuale inquadrabili nelle diagnosi psichiatriche.   

La degenerazione del sistema patriarcale fa intravedere la forza mortifera che ospita nel suo interno: la neutralizzazione del desiderio femminile e del coinvolgimento con la vita che nella donna è più profondo. Il femminicidio segnala la presenza di una tendenza collettiva suicida che distrugge la nostra capacità di prendere cura della natura, della comunità e delle relazioni affettive. Una difesa “autoimmunitaria” attacca la vita dentro di noi. 

Il rigetto radicale del femminile comprime e impoverisce gli affetti e facilita l’affermarsi nella psiche collettiva di un modello maschile di funzionamento dissociato dalla relazione erotica profonda. Questo modello ha natura “idraulica”: è finalizzato alla scarica impulsiva delle emozioni e dei sentimenti che é distruttiva. La violenza distruttiva ha un effetto falsamente liberatorio, di sfogo, sulla psiche compressa e crea la sensazione onnipotente di essere invulnerabili. Smorza il senso di oppressione creato dalla compressione psichica e colma con l’onnipotenza il senso di vuoto, rendendolo permanente e stuporoso. 

La dissoluzione dei legami, della convivialità e del tempo libero che una società smarrita nel suo agire frenetico produce, devasta il mondo interno di uomini che già molto fragili nella loro parte femminile, la ripudiano perché la vivono come fonte di grave pericolo. Il ripudio li spinge verso un’esistenza compulsiva, automatica e li fa diventare mine vaganti. Dentro di loro l’automa (che vede nella femminilità interna e esterna il più forte ostacolo al suo agire) e il soggetto che resta vivo (aggrappandosi disperatamente alla donna) combattono senza posa, finché il primo non prende il sopravvento. L’assassino non sa dar conto di quello che fa fatto, il suo mondo psichico è abitato dall’aporia. 

La sanzione non deve opporsi alla cura. Nel caso del femminicidio la sua funzione è quella di sancire un limite: una netta linea di separazione tra la Polis e l’azione distruttiva anaffettiva, priva sia di odio sia di compassione. La sanzione bandisce   l’automa ospitato nell’assassino che è capace di volere (essere efficace nella sua azione) ma non di intendere (comprendere la gravità del suo misfatto). Arendt ha parlato di “banalità del male” che è una minaccia mortale per la comune convivenza. La sanzione responsabilizza il soggetto che nell’uccisore persiste e, aiutato, può diventare capace di intendere. 

La cura mira al recupero della soggettività sull’automa. La sua forma più importante e decisiva è la prevenzione: la presa in carico in tempo dell’individuo minato dal vuoto psichico. Il che significa affinare molto la capacità di individuare l’esistenza di forme di malessere “negative” che erodono la materia viva dell’essere umano.  

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