Il concetto, di per sé, è molto semplice: per poter elaborare e superare un lutto, ognuno di noi ha bisogno di sapere con certezza (al punto di volerlo “toccare con mano”) chi (e che cosa con lui/lei) è venuto a mancare, perché ciò è avvenuto e trovare un riscontro nei sentimenti e nei pensieri degli altri. Molto meno facile, a volte impossibile, è diagnosticare le conseguenze a distanza di un lavoro del lutto “abortito” per mancanza d’informazioni sul decesso, e sulle circostanze per cui si è verificato.
Mi viene in mente quanto accaduto, molti anni fa, ad un mio paziente che, purché protetto dall’anonimato, non ha nulla in contrario che io renda noto un suo fatto personale molto doloroso. Lo faccio parlare in prima persona: “Ero giovane e incosciente. Avendo sottovalutato la malattia di cui soffriva mia madre, ero andato in vacanza nell’altra parte d’Italia. Quando mio padre mi telefonò dicendomi che la mamma stava morendo, partii immediatamente. Percorsi 1200 chilometri con il piede schiacciato sull’acceleratore a tavoletta e senza soste – finii per rovinare del tutto la mia macchina –; sapevo che non avrei potuto far nulla per evitare che chi mi aveva messo al mondo morisse, però non volevo perdere la possibilità di stare con lei nell’ultimo momento, farle compagnia mentre se ne andava, farle sentire il mio amore per lei e il mio dolore. Arrivato a qualche centinaio di chilometri da casa, seppi che mia madre non c’era più. Tuttavia continuai il mio folle viaggio a tutta velocità: sentivo il bisogno urgente di vedere la mamma per l’ultima volta, scacciare dalla mente le assurde fantasie che si trattasse soltanto di “morte apparente” – vane speranze che, deluse, mi avrebbero fatto soffrire ancora di più –; avvertivo la necessità di sapere che cosa esattamente era successo”
Il paziente si riprese dalla grave depressione che seguì tale perdita; tuttavia rimase incline a reagire con un forte abbattimento a lutti successivi anche di minore gravità, come la morte della sua amata cagna. Per aiutarlo a superare tale disposizione patologica fu necessaria un’analisi approfondita e protratta. Emerse un fatto avvenuto quando il paziente aveva dai due ai quattro anni: la madre aveva abortito volontariamente, ed era andata incontro ad una grave depressione da cui era uscita faticosamente e mai del tutto. Il piccolo sentiva che qualcosa di grave era successo, che qualcuno era venuto a mancare, anche se non sapeva chi e come e perché. Infatti la notizia dell’avvenimento, in famiglia, fu a lungo tenacemente censurata; il paziente la scoprì un poco alla volta, tramite deduzioni, quando era già alto. Era anche “abortito”, sul nascere, il lavoro di un lutto che rimase, incompiuto, nella sua vita interiore; lutto che comportava anche la perdita, nella qualità e nella quantità, delle attenzioni materne nei suoi confronti. Tale perdita antica, mai elaborata, faceva sentire il suo effetto anche nelle perdite successive.
Ritengo che fatti simili a quello del mio paziente riguardino attualmente un ampio gruppo di persone. Il motivo è facilmente comprensibile: stiamo assistendo ad un significativo incremento della mortalità. Si ha il forte sospetto, quasi una certezza, che i motivi di tali decessi vengano censurati, anche da certi medici. Tali censure fanno male a chi sopravvive, creano lavori del lutto che non possono procedere perché privati del supporto della conoscenza dei reali motivi per cui persone care sono venute a mancare. Mancano anche informazioni certe su che cosa, insieme alla persona cara, si è perduto, ad esempio il rapporto di fiducia con certi curanti. La storia del caso clinico che ho esposto dimostra come le censure, oltre che rendere impossibile evitare che tali perdite si ripetano, creano “lutti abortiti”, causa di patologie psichiatriche anche gravi in chi sopravvive. I “censori” dovrebbero essere ritenuti responsabili anche di esse.
0 commenti