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La tristezza e la felicità di un bel sogno che finisce. Un amore di tipo edipico nel sonetto LXXXVII di Shakespeare
5 Gen 24
A cura di Sabino Nanni
L’amore edipico è un importante episodio nella storia evolutiva di tutti noi. Da esso possono derivare, in gran parte, le nostre fortune, come pure le nostre disgrazie. Siamo sicuri di averlo superato nella vita adulta? Shakespeare, nel sonetto LXXXVII, c’illustra un amore di tipo edipico, riprodotto nella vita adulta, che si risolve felicemente, sia pure con quel poco di amarezza e con tutta la mestizia che ci lascia un bel sogno che finisce. Ecco il sonetto:
Farewell thou art too dear for my possessing, And like enough thou know’st thy estimate, The charter of thy worth gives thee releasing: My bonds in thee are all determinate. For how do I hold thee but by thy granting, And for what riches where is my deserving? The cause of this fair gift in me is wanting, And so my patent back again is swerving. Thyself thou gav’st, thy own worth then not knowing, Or me to whom thou gav’st it, else mistaking, So thy great gift upon misprision growing, Comes home again, on better judgment making. Thus have I had thee as a dream doth flatter, In sleep a King, but waking no such matter.
[Addio! Tu sei troppo preziosa perché io possa possederti / e conosci abbastanza quel che vali, / il contratto dei tuoi pregi ti dà facoltà di scioglierti: / l’impegno a legarti a me è giunto al termine. / Per qual motivo ti possiedo se non pel tuo consenso? / E dov’è il mio merito di tenere tali ricchezze? / Non v’è motivo perché io goda di tale splendido dono, / ed il mio privilegio a te vien restituito. / Mi donasti te stessa non conoscendo il tuo valore, / o me cui lo attribuisti, ritenendomi quel che non sono; / così il tuo grande dono, fatto a me per sbaglio, / ritorna a te dopo migliori riflessioni. / Così ti ho avuta come in un sogno lusinghiero, / nel sonno un Re, ma sveglio proprio un altro.]
Nel corso della nostra vita incontriamo diversi rapporti sbilanciati, in cui uno dei due sa offrire qualcosa di prezioso, e l’altro lo riceve. Sono relazioni che possono arricchirci interiormente, favorire la nostra crescita; come pure portarci alla rovina. Il primo e più importante di tali rapporti lega il genitore al figlio; ne seguono altri: quello fra medico e paziente e quello fra maestro e allievo; per certi aspetti, anche alcuni rapporti d’amore fra adulti.
Il prototipo di questi legami è l’amore edipico; gli altri seguono il suo modello e ne condividono alcune caratteristiche. Ciò che distingue l’amore edipico sano da quelli patologici è che, nel corso del suo sviluppo, chi rappresenta la parte dominante – chi ha il potere sull’altro – non dimentica che la relazione ha un suo scopo: favorire la crescita dell’altro, renderlo il più possibile forte e sicuro di sé, e portarlo all’autonomia. È, quindi, un rapporto “a termine”: raggiunta la meta, il legame si scioglie. A far sì che questo avvenga – ossia che non si crei un legame di dipendenza incapace di superare sé stesso – convergono diversi fattori: nel genitore, una fondamentale autosufficienza, un senso di responsabilità, ed una capacità di comprensione empatica delle esigenze affettive del figlio; in quest’ultimo, una sana spinta interiore verso l’emancipazione.
Shakespeare, in questo sonetto, anticipa in termini poetici quel che la scienza accerterà dopo diversi secoli; e questo, più ancora che per merito di Freud, grazie ad importanti analisti che l’hanno seguito: principalmente Kohut, Searles e Ogden. L’amore edipico solo in condizioni patologiche (benché molto diffuse) è fatto prevalentemente di desideri incestuosi e parri/matricidi. In questi casi è il frutto di rapporti non empatici coi genitori. In condizioni sane (nei termini di Shakespeare) è un’avventura sentimentale, un sogno d’amore che lega un “Re” (il genitore) ad una Regina (la figlia), o viceversa per il maschietto. Esso soddisfa un’esigenza essenzialmente affettiva: l’elemento sessuale è nell’ombra, appena sfumato, ed emerge solo se tale esigenza affettiva non viene empaticamente compresa, ed il sentimento non viene assecondato e condiviso. Tuttavia anche i sogni belli, in condizioni sane finiscono: al risveglio il Re ridiventa un comune mortale, e la Regina non ama più come prima il Re, però diviene una donna che mantiene il bene prezioso che ha acquisito nel corso del rapporto d’amore: la salda sicurezza della propria amabilità e della propria capacità d’amare. Reinvestirà, poi, tale bene nei suoi rapporti da persona adulta.
La grande Letteratura tratta spesso delle conseguenze di amori edipici patologici, ossia non risolti. Una di esse è l’incertezza riguardo alla propria identità. Un amore edipico sano si rivolge a quel che il soggetto effettivamente è, e non ad un personaggio costruito dalla fantasia del genitore, e che nulla ha a che vedere col figlio. Se un individuo si sente amato per quel che è effettivamente, ciò rafforza il sentimento della propria esistenza e della verità circa la propria reale natura. “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello è la storia di un dubbio ossessivo: il protagonista, essendogli evidentemente mancate le originarie e fondamentali esperienze di amore e verità, continua, per tutta la vicenda a chiedersi: “Chi sono io, realmente?” cercando invano la risposta nelle opinioni dei suoi simili. Freud riconduce il tormentoso dubbio ossessivo (che può spingersi fino all’estremo della “folie du doute”) alla fondamentale incertezza riguardo alla propria amabilità e alla propria capacità d’amare; e, se l’individuo non è sicuro di questo, che è la cosa più importante nella vita, come può esserlo su tutto il resto, che conta molto di meno?
L’Otello è l’illustrazione, in termini drammatici e poetici, di un amore edipico non risolto, e che si trasferisce, immodificato, nella vita adulta. Il protagonista stesso descrive il suo rapporto con Desdemona come del tutto sbilanciato: “Ella mi amava per le mie sventure, ed io l’amavo per la sua pietà”. Nulla distingue tale relazione da quella di un bambino piccolo con la sua mamma. Come tale, è caratterizzata da sentimenti immaturi e facili a convertirsi nel loro opposto: finché Otello ha della moglie (con la collusione della donna stessa) l’immagine ideale di una mamma perfetta e pura, “umile e alta” come una Madonna, il suo rapporto verso di lei è adorante. Quando s’insinua in lui il sospetto che, oltre che mamma, possa essere anche una donna attirata da altri uomini, ecco che in lui si scatena un odio omicida. Credo che Shakespeare ci abbia chiarito molto bene, quattro secoli fa, quel che sta alla base del cosiddetto “femminicidio”: un evento terribile che noi crediamo di fronteggiare con inutili condanne moralistiche, o con inconsistenti spiegazioni “sociologiche”. Il grande Artista ci illumina su questi problemi e implicitamente ci indica il modo per risolverli.
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