Pubblico qui anticipatamente il mio commento al canto XXVI dell’Inferno: il “Canto di Ulisse”. Come ricorderà chi mi legge, sto pubblicando, una alla volta, le parti del mio lavoro “Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico” in cui raccolgo e commento tutti i suggerimenti offerti dalla Divina Commedia, utili ad un medico della mente come il sottoscritto. Mi preme, qui, anticipare la pubblicazione di questa sezione della quarta parte dell’opera, dedicata alle “Malebolge” (ottavo cerchio dell’inferno in cui scontano i loro peccati i “fraudolenti contro chi non si fida”). Ho piacere di farlo perché qui espongo una mia interpretazione dell’impresa dell’Ulisse dantesco decisamente in controcorrente rispetto all’opinione dei commentatori che conosco, e desidero sapere cosa ne pensano gli amici interessati all’argomento.
Come già altrove, i versi di Dante sono in neretto, ed in corsivo i miei commenti,
Canto XXVI
Tra i “ladroni” della settima bolgia, Dante ha incontrato gli appartenenti a ben cinque nobili casate fiorentine (“cotali tuoi cittadini”). Ciò disonora Firenze e suscita vergogna nel Poeta che, benché esule, è ancora legato alla sua città madre. Grande al punto da essere conosciuta per mare e per terra, la “”fama” di Firenze si sta diffondendo persino nell’Inferno. Se, come si ritiene, i sogni più vicini al risveglio del mattino sono veritieri, entro breve (“di qua da picciol tempo”) la città sperimenterà (“sentirai”) il male che le augurano (“t’agogna”) gli abitanti di Prato ed altre popolazioni. Poiché tale punizione è ormai inevitabile (“pur esser dee”), se già si adempisse non sarebbe abbastanza sollecita, dato che più passa il tempo, più l’attesa (o l’angoscia del suo verificarsi) sarebbe gravosa per il Poeta.
pag. 379, vv 1 – 12
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per nare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne Sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai di qua da picciol tempo
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non sarìa per tempo:
così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com più m’attempo!
Nei primi due versi, Dante sembra esprimere una sincera esaltazione della grandezza di Firenze, ma subito erompe l’amara ironia: la città, data la presenza nell’inferno di numerosi e ragguardevoli suoi abitanti, sta diventando famosa anche nel luogo dell’eterna dannazione. Il verso 12 è stato diversamente interpretato dai commentatori: per alcuni, quel che “più graverà” il Poeta è la lunga attesa della punizione di Firenze, per altri l’angoscia di fronte alle sventure della città madre nel momento in cui queste si verificheranno. È possibile che qui l’ambiguità della parola esprima quella dei sentimenti: tutta questa invettiva è come il grido dell’odio, di chi è stato espulso; odio tanto più intenso quanto lo è l’amore deluso e, ciò nonostante, persistente.
Non può esser casuale quest’invettiva all’inizio del “Canto di Ulisse”: sia questo personaggio, sia Dante sono esuli, e nel mitico eroe il Poeta vede, per analogia o per contrasto, sé stesso. Come vedremo, il rapporto ambivalente con la madre patria (la madre), nell’interpretazione del sottoscritto ha un ruolo centrale in questo Canto.
Dante e Virgilio ora risalgono l’argine da cui erano discesi. Proseguono, poi, per il ponte che sovrasta l’ottava bolgia, dove vengono puniti i consiglieri fraudolenti. Si tratta di peccatori che fecero un cattivo uso del loro ingegno, volgendolo a malvagi scopi di frode. Come temendone il “contagio”, il Poeta ammonisce sé stesso a frenare più del solito il suo ingegno, per non correre il rischio d’usarlo senza la guida della virtù. Se un benevolo influsso delle stelle (“stella bona”) o della Grazia Divina (“miglior cosa”) gli ha fatto dono dell’ingegno (“‘l ben”), non succeda che per sua propria colpa, egli finisca per privarsene e renderlo vano, abusandone (“io stesso nol m’invidi”).
pag. 380, vv 19 – 24
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi.
Dante riconosce che esiste in lui la tentazione d’usare il proprio ingegno a scopi fraudolenti, ossia per imporre il suo potere sulla realtà concreta con ingegnoso inganno ed ottenere vantaggi a discapito degli interessi altrui. – Come osserva il D’Ovidio (cit.), Dante, nell’esilio, era divenuto “un uomo di corte, un negoziatore politico; e il consigliar frodi e ordire inganni sarebbe potuto divenire per lui un peccato professionale, un vizio del mestiere” – Tuttavia, a differenza dei dannati puniti in questa bolgia, il suo mondo interno avverte l’influsso benefico della “buona stella” (l’invisibile ed apparentemente lontana “madre ambiente”) e della “miglior cosa” (la grazia divina, risultante da un rapporto più personalizzato con un oggetto d’amore ideale).
Si tratta del provvidenziale influsso su Dante di un oggetto interno protettivo, risultato dell’interiorizzazione di esperienze affettive antiche; oggetto che indirizza le sue risorse intellettive verso scopi diversi dai vantaggi concreti (la sua produzione poetica, le sue mete spirituali); scopi che sono raggiungibili senza incorrere nella punizione divina (la realtà che finirebbe per rivolgerglisi contro): fini, quindi, spirituali e, al tempo stesso, realistici.
Dante vede nel fondo della bolgia splendere innumerevoli fiammelle, numerose quanto le lucciole che il contadino scorge dalla collina nelle notti d’estate. Ciascuna di quelle fiamme nasconde un peccatore, come il carro di fuoco nascose ad Eliseo l’immagine del profeta Elia portato in cielo.
Il Poeta è così proteso fuori dal ponte ad osservare la scena della bolgia che, se non avesse afferrato una sporgenza rocciosa (“un ronchion”), sarebbe precipitato. Virgilio, che lo vede così preso (“tanto atteso”) dallo spettacolo dei dannati, gli spiega che ciascuno di questi spiriti è come fasciato dal fuoco. Dante gli risponde che tale precisazione conferma quel che già aveva pensato (“m’era avviso”), e aggiunge che vorrebbe sapere chi c’è dentro un fuoco che, nella sua sommità, è diviso in due, come quello che emanò dalla pira dove furono cremati i corpi dei fratelli Eteocle e Polinice. Virgilio lo informa che dentro quella fiamma biforcuta espiano le loro colpe Ulisse e Diomede. Essi sono uniti nella punizione divina così come in vita incorsero insieme nell’ira di Dio, essendo stati entrambi autori dell’inganno del cavallo di legno tramite cui fu espugnata Troia, di quello per cui Achille fu strappato all’amore di Deidamia, e del furto del Palladio, l’effigie della Dea su cui i Troiani riponevano la speranza di salvezza.
pag. 382 – 383, vv 43 – 63
Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ‘l duca che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso.”
“Maestro mio,” rispuos’io “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è in quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger dalla pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?”
Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
alla vendetta vanno come all’ira;
e dentro dalla lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fe’ la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamia ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta.”
A differenza di Eteocle e Polinice, Ulisse e Diomede non sono divisi dall’odio reciproco, ma dalla diversità del loro carattere e della loro vita. Tuttavia l’odio (l’assenza totale di riguardo) nei confronti delle vittime dell’inganno, è implicito nel peccato di fraudolenza che li accomuna. C’è qui una contraddizione insanabile nella vita interiore di coloro che ingannano: costoro, per comprendere i punti deboli delle loro vittime su cui agire, devono mettersi empaticamente nei loro panni. Se, da un lato, l’odio sopprime ogni forma di solidarietà umana, d’altro lato essi non possono fare a meno di riconoscere sé stessi in quegli aspetti umani su cui stanno facendo violenza, e con cui si sono empaticamente identificati. Ecco perché, a differenza di altri dannati (che soffrono unicamente per la punizione divina), nei consiglieri fraudolenti si nota una sorta di rimorso: dentro le fiamme “si geme”, forse più ancora che per l’azione devastante del fuoco, per le terribili conseguenze dei loro atti, ossia per la rovina dei Troiani e per lo strazio di Deidamia, cui con l’inganno fu strappato Achille. Poco vale che essi, involontariamente, provocarono anche qualcosa di positivo: dalla breccia (“la porta”) che fu necessario aprire nelle mura di Troia per introdurre il cavallo, uscì “de’ Romani il gentil seme”, cioè Enea che, fuggito in Italia, generò la stirpe dei Romani.
Dante esprime al suo Maestro l’intenso desiderio di parlare con quei due antichi eroi. Lo fa rivolgendo a Virgilio una fervida preghiera, molto sentita ed insistente, affinché gliene dia il consenso.
pag. 383 – 388, vv 64 – 69
“S’ei posson dentro da quelle favelle
parlar” diss’io “maestro, assai ten priego
e ripriego, che il priego vaglia mille,
che non mi facci dell’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del disio ver lei mi piego!”
Oltre che la curiosità dell’uomo di cultura, qualcosa di più personale spinge Dante a chiedere, con tanta insistenza e fervore, di poter parlare con i due eroi. Per poter tenere a bada il consigliere fraudolento che c’è in lui non basta tenere a freno il suo ingegno, e neppure è sufficiente la sua fede: gli occorre anche conoscere a fondo l’indole e le vicende di chi, di tale peccato, si macchiò. Sapere qual è la potenzialità presente in lui stesso è decisivo per poterla porre sotto il suo controllo.
Virgilio, pur ritenendo degna di lode la richiesta del suo allievo, lo prega di tenere a freno (“si sostegna”) la sua lingua. Sarà lui, che ha capito (“concetto) quel che il suo allievo vuole, a parlare ad Ulissa e Diomede. Essendo greci, infatti, essi non si degnerebbero di comunicare con uno straniero, per loro “barbaro”. Il Maestro di Dante si rivolge ai due spiriti pregandoli, in nome dei versi a loro dedicati nell’Eneide, di non muoversi. Invita uno di loro (Ulisse) a raccontare come e dove avvennero il suo naufragio e la sua morte (“dove per lui perduto a morir gissi”)
pag. 388 – 389, vv 70 – 84
Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perché fuor greci, forse del tuo detto.”
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi.”
La punta maggiore della fiamma (“lo maggior corno”) dentro cui si trova Ulisse incomincia ora ad agitarsi (“crollarsi”) emettendo un suono confuso (“mormorando”), come scossa dal vento. Poi, dimenando la cima come la lingua di chi parla, incomincia il suo racconto.
Quando s’allontanò da Circe, presso cui s’era trattenuto per più di un anno – in una località vicina alla città che in seguito Enea avrebbe chiamato Gaeta –, né l’affetto per il figlio, né la pietà verso il vecchio padre, né l’amore che avrebbe reso felice Penelope, poterono vincere in Ulisse l’ardente desiderio di conoscere il mondo e i vizi e le virtù degli uomini. Perciò s’avventurò “per l’alto mare aperto” con una sola nave (“legno”) e con quel ridotto numero di compagni che non l’avevano abbandonato (“diserto”).
pag. 389 – 391, vv 85 – 102
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: “Quando
mi dipartì da Circe, che sottrasse
me più di un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual non fui diserto.
Manca, nelle peripezie dell’Ulisse dantesco, l’episodio di Calipso e della permanenza nell’isola di Ogigia. Questa Dea, come vedremo, ebbe un ruolo importante nelle vicende dell’Odisseo omerico. Quanto ai versi 94 – 99 (“né dolcezza di figlio, né la pièta…”) apro qui una parentesi.
In un sorprendente capitolo di “Se questo è un uomo”, vale a dire “Il canto di Ulisse”, Primo Levi, pur nella situazione tormentosa e abbrutente del campo di concentramento, trova in sé lo spirito di comunicare al compagno di prigionia Pikolo la bellezza della lingua italiana recitandogli a memoria i versi del XXVI canto dello “Inferno”. Il canto di Ulisse stava particolarmente a cuore a Levi: nel personaggio dantesco, egli vedeva riflessi molti aspetti della sua vita interiore. L’antico eroe, nella versione di Dante, nutrì l’ambizione di porre sotto il dominio della sua conoscenza tutti gli esseri umani e l’intero mondo. Cercò di realizzarla attraverso un viaggio che (a differenza di quello nell’oltretomba del Poeta) fece senza il sostegno della “grazia divina”, contando sulle sue sole risorse umane. Il viaggio di Primo Levi nella sua vita interiore fu ugualmente temerario: lo fece privo del sostegno di strutture autoprotettive autonome (che si erano logorate a seguito della sua grave esperienza traumatica), e rifiutando l’aiuto e la protezione di un suo simile.
Cercando di recitare a memoria i versi citati più sopra al compagno di prigionia, Levi s’accorse con disappunto di non riuscire a ricordare tutte le parole. Qui sotto in corsivo e tra parentesi le parole dimenticate:
[né dolcezza di figlio,] né la pièta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
[vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;]
L’opera della “censura” interna non pare, qui, casuale. Levi, infatti, dimentica il passaggio che descrive una caratteristica pericolosa, comune alla personalità dell’Ulisse dantesco e di lui stesso: lo “ardore a divenire esperto” del mondo umano (nel suo caso, del proprio mondo interno devastato dall’esperienza traumatica); ardore che non si ferma neppure di fronte all’amore ed alla pietà per i familiari, né, potremmo aggiungere, alla pietà per sé stesso, identificato col figlio. L’espressione diretta dei propri vissuti traumatici, l’uso compulsivo delle capacità introspettive ed espressive e la solitudine del viaggio nella sua vita interiore, senza protezione altrui, né riguardo per sé stesso, spinsero Levi in un percorso che lo portò, come Ulisse, nel “vortice” dell’auto-soppressione. La censura, qui, sembra avere lo scopo di preservare, dalle proprie capacità critiche, la tendenza autodistruttiva che lo portò al suicidio.
Ulisse prosegue raccontando il suo viaggio lungo la costa europea fino alla Spagna, e lungo quella africana fino al Marocco. Quando lui ed i compagni erano ormai vecchi e deboli (“tardi”), lasciate alle sue spalle Siviglia (“Sibilia”) e Ceuta (“Setta”), giunse alle colonne d’Ercole, dove l’eroe antico aveva posto i confini (“riguardi”) che l’uomo non avrebbe mai dovuto oltrepassare. A questo punto, Ulisse arringò i suoi compagni per esortarli a seguirlo. Non volessero, costoro, in quel che restava della loro vita (“vigilia” della morte, o “veglia de’ sensi”), privarsi dell’esperienza di quella parte del mondo che non ha abitanti (“gente”). Considerando la propria origine umana (“la vostra semenza”), ricordino di non essere stati fatti per vivere come bestie (“bruti”), ma per perseguire virtù e conoscenza.
pag. 391 – 392, vv 103 – 120
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercole segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.
‘O frati’ dissi ‘che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.
Ulisse invita i compagni e sé stesso a compiere una trasgressione: superare le colonne d’Ercole. Ritenute, ai suoi tempi, il limite fisico oltre il quale gli uomini non dovevano andare, per il Poeta rappresenta ben altro confine. Come chiarirà il resto della storia, le colonne rappresentano le porte di un mondo proibito e mortalmente pericoloso.
Che tipo di “virtù” è quella che Ulisse invita a perseguire, dal momento che la sua impresa temeraria porterà tutti all’autodistruzione ed alla morte? Opinione del sottoscritto è che qui il personaggio dantesco stia illustrando, più che un’impresa “eroica”, la sua ultima “frode”; un raggiro, in questo caso, ai danni dei compagni e di sé stesso: la “virtute”, che egli presenta come ideale supremo, non è altro che l’inganno che maschera intenti, in ultima analisi, di carattere omicida e suicida. Come Macbeth, come Ahab, anche l’Ulisse dantesco anela a superare i limiti imposti ai più comuni esseri mortali, convincendosi di potersi sottrarre alla “Giustizia divina” cui sottostanno tutti gli altri, ossia alla realtà che finisce per rivolgersi contro loro stessi.
Un dettaglio particolare denuncia l’auto-inganno di Ulisse: aveva parlato del suo ardore di conoscere “li vizi umani ed il valore”. Eppure, contraddicendosi, qualcosa lo spinge verso un mondo “senza gente” dove, provando per un solo attimo l’ebbrezza d’essere divenuto l’unico padrone del mondo, incontrerà soltanto la solitudine e la fine della sua vita.
I compagni, incoraggiati dalle parole di Ulisse (“orazion picciola”), divennero così smaniosi (“aguti”) di proseguire il viaggio, che a stento li si sarebbe potuti trattenere. Volta la poppa della nave ad oriente (“nel mattino”), continuarono il folle viaggio (“il folle volo”) avanzando (“acquistando”) a sinistra.
pag. 392, vv 121 – 126
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Come tutte le frodi che caratterizzarono la sua vita, anche l’ultimo raggiro di Ulisse ebbe successo: i compagni, esaltati dalle sue ingannevoli parole, divennero così emotivamente partecipi della sua folle impresa da superare la sua stessa smania di raggiungere la meta. Soltanto le parole “folle volo” testimoniano la sopravvivenza, in Ulisse, della parte di lui dotata di razionalità e realismo: una parte di lui che assiste, impotente, al suo suicidio. Prevale la spinta verso il “lato mancino” che, come già sottolineato in precedenza, rappresenta, nel mondo interno, l’opposto della razionalità e del realismo disincantato: una parte emotiva, abbagliata dal sogno di una meta grandiosa.
Già si vedevano le stelle del polo antartico, opposto al nostro (“altro”), e quelle del polo artico si erano abbassate al di sotto del livello del mare (“marin suolo”). Erano passati cinque mesi (cinque volte era comparsa la luna piena e poi quella nuova: “lo lume casso”) da quando avevano oltrepassato le colonne d’Ercole (“‘ntrati nell’alto passo”), quando apparve una montagna oscura (“bruna”) per la sua lontananza. Ulisse ed i compagni se ne rallegrarono, ma presto la gioia si mutò (“tornò”) in dolore: dalla terra ignota (“nova”) si scatenò un turbine vorticoso (“turbo”) che percosse la prora della nave (“il primo canto”). Producendo un vortice intorno all’imbarcazione (“il fe’ girar con tutte l’acque”), la fece girare per tre volte; alla quarta, come piacque ad “altrui”, la poppa si sollevò, e la prora s’immerse, finché le acque si rinchiusero al di sopra di loro.
pag. 392 – 393, vv 127 – 142
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto dalla luna,
poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,
quando n’apparve una montagna bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché della nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.
Nella letteratura recente si segnala che la comparsa frequente, nelle associazioni libere o in quelle ai test proiettivi, di parole come “vortice”, “mulinello”, “gorgo”, rappresenta un segno prognostico allarmante: testimonia l’esistenza, nel paziente, di tendenze suicide; propositi auto-soppressivi che sono tanto più insidiosi quanto più vengono dissimulati. Ciò è coerente con le più comuni fantasie riscontrate nei candidati al suicidio: la morte viene immaginata come il ritorno alla quiete ed alla beatitudine anteriori alla nascita; il paziente desidera riportare la propria esistenza fra le “acque” del ventre materno. Il vortice rappresenta una forza che s’impone sulla volontà del paziente: è la pulsione di morte che assume la forma più insidiosa, travestendosi da anelito al recupero della pienezza della vita e della “onnipotenza” originaria.
In uno spazio curvo, non esiste una linea retta che si protenda verso l’infinito: ogni percorso, se seguito fino in fondo, riporta inevitabilmente al punto di partenza. Le persone che, come l’Ulisse dantesco, anelano al grandioso illimitato, all’eterno, s’ingannano: senza rendersene conto (senza che intervenga la coscienza, con le sue capacità critiche) e convincendosi di addentrarsi verso l’ignoto, l’inesplorato, tendono in realtà al ritorno verso ciò che accomuna tutti gli esseri umani: l’esistenza immediatamente successiva al concepimento ed anteriore alla nascita.
Si è notato, più sopra, che nell’Ulisse dantesco manca un episodio che fu particolarmente importante per l’Odisseo omerico: la sua esperienza con Calipso, nell’isola di Ogigia. La Dea innamorata dell’eroe, gli offrì, purché rimanesse con lei, prerogative divine, compresa l’immortalità. Eppure Odisseo era triste: pensava con nostalgia alla sua Itaca, ossia al figlio ed alla donna che aveva lasciato nella sua patria; rimpiangeva la condizione di un comune mortale adulto, padre e coniuge. Calipso, comprendendo lo stato d’animo dell’uomo che amava, decide di soddisfarne le esigenze: rinunciando al possesso dell’eroe, gli dona la zattera con cui avrebbe potuto compiere il viaggio, e la costellazione dell’Orsa che lo avrebbe orientato. Calipso è una madre affettuosa ed equilibrata che, pur desiderando la presenza del figlio, ne comprende empaticamente la necessità di crescere, ed asseconda e favorisce la sua emancipazione. È il prodotto dell’interiorizzazione di queste cure materne che rappresenta quel che i credenti chiamano la “grazia divina”; sia le cure, sia quanto di esse viene interiorizzato rappresentano, a loro avviso, la manifestazione di Dio sulla terra.
Tutto questo mancò all’Ulisse dantesco ed agli esseri sciagurati simili a lui: esuli, espulsi dalla madre patria, privi di una madre interiorizzata che li avrebbe accompagnati nel loro viaggio verso la vita adulta, lontani dalla genitrice come persona fisica, a loro rimane solo la disperazione di chi si è perduto nel mondo, e l’anelito ad un estremo ritorno. Un ritorno, in realtà, mortifero perché, appena intravisto il recupero della beatitudine intrauterina e dell’illusione di dominare il mondo, sopravviene un “altrui” (una forza misteriosa, estranea, ostile, un “non-Io) che pone brutalmente fine all’agognata felicità: si ripropone il trauma della nascita, prototipo di ogni successiva esperienza traumatica in cui la stessa esistenza soggettiva pare spazzata via. Significativo è che Dante, in questo caso, non menzioni la punizione di Dio, ma la volontà di un “altrui” sconosciuto. Il livello di regressione di queste persone, al momento del suicidio, è tale che manca l’immagine di un Padre eterno (di un padre) che proibendo l’incesto (simbolicamente, il ritorno nel ventre materno, o l’identificazione con la madre gravida) esercita una funzione molto più protettiva che punitiva. Viceversa, tale padre e tale madre amorevoli interiorizzati (la “Grazia divina”) non mancarono a Dante, ed il suo viaggio fu possibile.
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