Titolo: Franco Basaglia e la fenomenologia. Ipotesi e materiali di lettura
Editore: Mucchi
Anno: 2023
Pagine: 172
Prezzo: 18 euro
Si prova un sentimento di colpa, o almeno io lo provo, ogni volta che ritorniamo a dire o a scrivere di cose psichiatriche mentre ancora, da sei mesi, la deumanizzazione è imperante nella Striscia di Gaza, e ancora i padroni del mondo si mostrano colpevolmente titubanti nel porre con fermezza un freno alla macchina di distruzione, di morte e di menzogna alla quale il sionismo ha dato, dopo la tragedia del 7 ottobre, questa spaventosa accelerazione. Una macchina che non risparmia le madri incinte, i bambini, gli ospedali, i professionisti dell’aiuto. Una macchina che di giorno in giorno ci ha abituato a considerare, dalle nostre tiepide case, “normale” il tributo quotidiano di un centinaio di persone uccise ogni giorno, alla guerra spietata di un esercito contro un popolo. E, almeno, credo che qualunque altro ragionare possa essere lecito, solo se ad esso è premesso il fatto di mantenere comunque gli occhi e il cuore atterriti, fissi su ciò di incredibilmente disumano che in questi nostri giorni insanguinati accade a Gaza, a Gaza, a Gaza. La feoce vergogna del sionismo e dei suoi complici, per la quale la Storia non troverà scuse.
Il rapporto tra Franco Basaglia, del quale l’Italia sta celebrando in questo periodo il centenario dalla nascita, e la filosofia fenomenologica ed esistenzialista è al centro del prezioso volume di Mario Novello e Giovanna Gallio Franco Basaglia e la psichiatria fenomenologica. Ipotesi e materiali di lettura, edito quest’anno da Mucchi con postfazione di Eugenio Borgna (segui il link).
Il libro si compone di due parti. La prima, scritta da Mario Novello, indaga il rapporto tra Basaglia e la fenomenologia; la seconda, che in realtà costituisce una ripubblicazione di qualcosa che Giovanna Gallio aveva già pubblicato ma era stata letto da pochi, ha al centro il rapporto tra lo psichiatra veneziano e il suo filosofo preferito, Jean Paul Sartre.
La parte di Novello nasce da un seminario tenuto nel 2023 presso l’Università di Firenze; rifacendosi a Borgna, evoca i diversi apporti che figure importanti per la formazione di Basaglia – come Jaspers, Husserl, Heidegger – hanno fornito all’analisi daseinsanalitica di Binswanger, e quindi al suo rapporto con la fenomenologia. Ma non solo: sono davvero illuminanti le parole che Novello riporta da Enzo Paci per il quale la fenomenologia consiste nel «tornare al soggetto, a noi stessi, a me stesso. Svegliarsi continuamente nello stupore del paesaggio del mondo».
Il testo di Novello passa quindi a considerare i lavori di Basaglia degli anni ’50 i quali – dopo aver rigettato per i loro limiti consistenti nel fatto di non sfuggire né l’una né l’altra alla prospettiva naturalistica, tanto la prospettiva psichiatrica che quella psicoanalitica – affrontano dal punto di vista fenomenologico questioni fondamentali: la coscienza, il corpo, l’incontro, il delirio.
È interessante il fatto che Novello colga l’affinità tra la celebre risposta di Basaglia a Zavoli ne I giardini di Abele per cui a interessargli è più il malato che la malattia e un’analoga affermazione pronunciata anni prima da Minkowski, ipotizzando che in questo caso non si debba ravvisare tanto una citazione implicita dello psicopatologo polacco, quanto il fatto che una tale risposta è espressione della consapevolezza, comune ad entrambi, del fatto di «uno dei principi cardine della Daseinsanalyse: l’assoluta centralità della vita del malato, la “verità” che nell’esistenza malata si manifesta e si esprime». Un’affinità che si presta a essere colta, come recentemente ho fatto, anche con il pensiero di Binswanger.
Che cosa può rispondere del resto lo psichiatra clinico, che lavora con le persone nella loro sofferenza, se non proprio ciò che Basaglia ha risposto?
Giunto a Gorizia, come è noto, Basaglia rimase turbato dalla miseria dei ricoverati. E in appendice Novello riporta – dopo la postfazione di Eugenio Borgna nella quale lo psichiatra novarese riconosce il proprio debito verso la fenomenologia e ricorda i suoi anni presso l’ospedale psichiatrico femminile di Novara, reso forse più gentile di altri dal fatto di essere appunto solo femminile e dal lavoro di Giovanni Enrico Morselli e le sue considerazioni sulle radicali novità apportate dalla Legge 180 all’assistenza psichiatrica – qualche pagina che Luigi Massignan, al quale abbiamo dedicato recentemente una recensione del libro di memorie sull’internamento a Mauthausen (segui il link), ricorda il suo lavoro negli ospedali psichiatrici di Padova e di Udine. Una realtà forse non così distante da quella di Gorizia:
«A Palmanova la succursale dell’ospedale psichiatrico era dentro le fortificazioni veneziane, con muri grossi e camerate lunghe cento metri dove una volta erano ospitati soldati e cavalli, con trenta – quaranta letti in fila, coperte fatte di stoffe di vari colori cucite insieme, e senza gabinetto. Nel 1960, quando ho cominciato a girare per le succursali, mi sono detto che vivevano quasi nelle stesse condizioni dei campi di concentramento. Mangiavano sui tavoli senza niente, non avevano né tovaglioli né tovaglia, avevano un cucchiaio di legno, un piatto di zinco e quello era tutto il servizio.
Non c’erano servizi igienici nelle camerate, ma solo una grande tinozza, imrnaginarsi cosa poteva succedere».
Di fronte all’inferno di Gorizia la ricerca Dasainsanalitica si sposa dunque per Basaglia con la lotta antiistituzionale e Novello coglie alcune espressioni che rendono bene l’idea di come nell’ospedale psichiatrico sia la stessa esigenza di verità insita nella fenomenologia a rendere obbligatorio questo passaggio: non si può applicare l’analisi fenomenologica a chi sta vivendo l’essere-nella-contenzione, né si può farlo per l’essere-con nella segregazione: non si può applicare la fenomenologia, né la stessa psichiatria in fondo, a chi vive nel letame, senza essersi prima adoperati per liberarlo da quella situazione.
È qui che Basaglia si imbatte nel pensiero marxista e nell’intrinseca esigenza di giustizia del quale è imbevuto e non sorprende allora che Rovatti, citato ancora nel volume, proponga un rapporto tra il pensiero di Basaglia e la teoria dei bisogni che la filosofa marxista Agnes Heller andava in quegli anni formulando.
Particolarmente interessanti sono le pagine nelle quali Novello affronta il tema, certamente centrale per Basaglia, dell’epoché. E lo fa riproponendo, ad esempio, un passaggio di particolare chiarezza di Enzo Paci il quale invita a intendere questo concetto come uno sforzo di liberarsi dal pregiudizio e sospendere la fretta del giudizio, o uno di Pier Aldo Rovatti per il quale l’epoché in Basaglia corrisponde a una «capacità di fare “un passo indietro” rispetto alle conclusioni tecniche del sapere psichiatrico». Lo stesso Jaspers, del resto, in un noto passaggio della Psicopatologia Generale aveva scritto che in psichiatria la diagnosi occulta il soggetto molto più spesso di quanto non lo riveli.
O, ancora per Rovatti: «Il gesto fenomenologico è di per sé un gesto epochizzante che attinge il suo senso dall’”ascolto” intersoggettivo e dal “silenzio” che lo caratterizza come atteggiamento etico», un gesto volto a lasciare spazio al rivelarsi dell’altro o delle cose come Basaglia scrive in uno dei suoi saggi più delicati e profondi nel 1965.
Si comprende così qual è il senso della liberazione dall’ospedale psichiatrico, che certo è un momento di liberazione per l’internato, ma non lo è meno per lo psichiatra per il quale, come Basaglia scrive nel 1979: «è in questa mancanza di identità che consiste attualmente la sfida implicita nel fare “psichiatria”. Perché è in questo vuoto ideologico e istituzionale che saremo costretti ad avvicinare il disturbo psichico al di fuori dei parametri e degli strumenti che ci hanno finora impedito di avvicinarlo».
E osserva allora Novello in conclusione: «Per me è evidente che tutta l’opera di Basaglia è attraversata in profondità dall’esercizio dell’epoché, e che senza il rigore – epistemologico ed etico – che aveva acquisito nei suoi studi fenomenologici, non sarebbe stato in grado di pensare e di realizzare la fine del manicomio (…). Non poche categorie e principi che hanno reso possibile la riforma del ’78 erano espressione delle prospettive aperte dalla fenomenologia husserliana e dalla psichiatria fenomenologica che, oltrepassandosi in dimensioni più ampie e complesse, sono state tradotte in linee guida e progettualità concrete, diventando efficaci parole d’ordine nella dimensione di un lavoro collettivo».
Se un merito (uno tra molti) a Basaglia deve essere riconosciuto è senz’altro quello di avere avuto la capacità di andarla a cogliere, certo, la fenomenologia dunque nell’empireo del ragionare filosofico, ma anche quello, non così comune tra i cultori di questa corrente, di aiutare a digerirla e renderla operante, vera nei gesti reali del quotidiano, anche chi può non aver mai letto una riga di Husserl o di Binswanger, ma, grazie alla volgarizzazione, se così posso dire, della quale Basaglia avverte la necessità, può metterne in pratica il pensiero.
Mi pare dunque importante quanto Novello scrive: «Alcune delle sue principali conquiste, sul piano conoscitivo e metodologico, sono state declinate nelle pratiche quotidiane di trasformazione da parte di una moltitudine di persone, in epoche e contesti diversi, appartenenti al mondo dei servizi, della cooperazione sociale, dell’associazionismo, del volontariato, della cultura, dell’informazione e della societa civile. È infatti possibile affermare che, se in origine la psichiatria fenomenologica ha interessato una ristretta cerchia di persone di elevato livello culturale, con l’opera di Basaglia alcuni suoi temi e contenuti sono diventati patrimonio comune di fasce diversissime di persone senza la consapevolezza o quasi della loro origine. Esiste cioè una dimensione della psichiatria fenomenologica che – per cosi dire “oltrepassandosi” – ha informato e sotteso un agire collettivo che, nel corso di alcuni decenni, ha messo in atto processi molto complessi di trasformazione e cambiamento nel passaggio dalla psichiatria manicomiale alla salute mentale».
Non si può allora non concordare con la conclusione di Novello per il quale: «Come abbiamo potuto vedere, [Basaglia] non ha mai smesso di mettere in discussione le sue “conquiste”, i risultati positivi del suo lavoro, in una dimensione etica assoluta. Perciò si pone oggi per noi il problema di continuare a sostenere il suo gesto fenomenologico anche di fronte ai nostri giudizi e pregiudizi, che rischiano ogni volta di porsi come verità ultime, al di fuori di ogni contraddizione dialettica, per continuare a scoprire la realtà ogni giorno».
Nessun dubbio, insomma, per Novello come del resto per altri da Borgna a Cappellari, Colucci e Di Vittorio o Leoni, che il bagaglio della fenomenologia sia stato indispensabile a Basaglia, e a molti dei suoi, per affrontare e vincere la battaglia contro l’ospedale psichiatrico; ma nessun dubbio neppure che essa costituisca oggi uno strumento utile anche per il nostro lavoro di salute mentale. Nel quale persistono certo elementi invarianti che caratterizzano la relazione di cura in psichiatria qualunque sia il tempo e il contesto, ma si tende anche a ricadere in vizi che se la psichiatria avesse messo più impegno nel recepire, o almeno conoscere, la lezione di Basaglia in tutti i suoi aspetti, potrebbero invece essere identificati ed evitati.
Al centro del secondo saggio, di Giovanna Gallio, è il rapporto di Basaglia con Sartre, un rapporto certo citato in tutte le biografie, ma più raramente approfondito in quelli che ne sono stati i reali contenuti.
Sappiamo che Basaglia amava l’opera di Sartre al punto di riceverla da Terzian come dono di nozze; tuttavia, nota puntualmente Gallio, il nome del francese non compare nelle bibliografie dei suoi scritti finché non entra a Gorizia. È lì che, di fronte all’incontro con un’umanità spogliata di tutto, ritrova la radicalità del richiamo del francese alla scelta come elemento esistenziale, etico e politico caratterizzante ogni vita autentica, libera e insieme la netta contrapposizione che il francese coglie tra autenticità e malafedele.
“Ansia e malafede”, esposto a un convegno del 1963, insiste Gallio, è importante perché Basaglia, liberatosi come avrebbe poi detto lui stesso dalla “sindrome universitaria”, nella realtà dell’ospedale psichiatrico sbatte la faccia contro il limite estremo al quale la pseudoidentità del ruolo può arrivare: psichiatri (e infermieri) da un lato e malati dall’altra vivono gran parte della giornata in uno stesso contenitore, ma l’alterità che ne contrappone i ruoli si traduce, come ebbe a scrivere Cargnello, in alienità e impedisce agli uni di riconoscere l’umanità degli altri, facendo sì che essi perdano in questo a loro volta la propria stessa umanità. È un tema che poi approfondirà in Corpo e istituzione, ma che qui, Gallio ha ragione, è possibile rintracciare in nuce. L’inautenticità del ruolo costringe gli uni e gli altri a un rapporto nel quale a venir meno è il riconoscimento reciproco come esseri umani, che è fondamento di ogni incontro autentico.
Solo così, medici e infermieri possono vivere accanto alla miseria assoluta del malato, alla sua perdita di tutto, senza esserne turbati e porsi il dubbio “se questo è un uomo”.
Questo è l’inganno dell’ospedale psichiatrico, la sua assoluta malafede: costituire una realtà nella quale la fede nella pseudoidentità del ruolo arriva al punto da escludere la possibilità di un incontro con l’altro, di uno sguardo sull’altro, come altro uomo.
Nessuna delle ipotesi di riforma, di intervento umanitario nell’ospedale psichiatrico che allora circolavano, Gallio coglie lucidamente, arrivava a soddisfare l’esigenza di Basaglia in quel momento: decostruire i ruoli di curante e curato per dare ad entrambi la possibilità di un incontro che fosse autenticamente umano. È un riscatto antropologico, che va molto al di là di un’istanza di soccorso e anche di giustizia, è un’esigenza di reciproco riconoscimento come persone. Di trovare risposta, a partire da Sartre, al dubbio radicale espresso da un altro autor che per lui è importante, Primo Levi: se questo è un uomo. Perché se è un uomo, è un uomo come me; se no, devo essere tanto autentico da ammettere davanti a me stesso che no, questo un uomo non è.
L’assemblea, prosegue Gallio, è il luogo dove a ciascuno è data con il reciproco riconoscimento, con il guardarsi gli uni gli altri negli occhi, la possibilità della scelta e le diverse scelte vengono confrontate in quanto cose umane. L’assemblea non è solo importante perché in essa il malato trova evidentemente una possibilità di soggettivazione: è importante anche perché dentro di essa anche il medico si espone allo sguardo e alla parola dell’altro.
In molti ospedali psichiatrici vigeva infatti una prossemica che faceva sì che medici e infermieri avessero la possibilità di sottrarsi quasi del tutto allo sguardo e alla parola del malato. L’assemblea era il contrario: staff e malati erano lì, insieme.
L’ospedale psichiatrico aveva, rispetto a qualunque altro luogo di esercizio del potere, qualcosa di unico: che la parola dell’oppresso, in quanto parola di matto, non aveva nessun valore. Non è che ne avesse meno: non ne aveva nessuno. L’assemblea’era, come scrive Nico Pittelli, il luogo dove veniva restituita la parola ai matti, perché la psichiatria aveva bisogno di essere a sua volta oggetto del discorso. E, ove questo non bastasse, anche l’accesso di giornalisti, fotografi, familiari aveva lo stesso significato: far sì che staff e malati non fossero più soli, a esercitare gli uni sugli altri il potere che viene esercitato sugli oggetti, i quali non hanno possibilità di replica.
E Gallio puntualmente ricostruisce come, quando affronta questi temi, il riferimento a Sartre da parte di Basaglia sia costante.
Il primo incontro tra i due ebbe luogo nel ’68, su iniziativa di Sartre e propiziato da Gian Franco Minguzzi, nella facoltà di psicologia occupata dell’Università di Bologna: quale luogo più coerente di quello con le passioni e le idee che animavano entrambi?
Poi, ricorda ancora Gallio, un enorme ritratto del francese era l’unica decorazione del suo studio a Colorno. Antonio Maria Ferro, che ebbe occasione di visitare quello studio poco dopo che Basaglia lo aveva lasciato, mi ha raccontato molte volte di esserne stato anch’egli colpito.
Poi è venuto il famoso colloquio del ’72, pubblicato tre anni dopo in Crimini di pace, a confrontarsi sul ruolo dell’intellettuale, la libertà, la dialettica, l’ideologia o sul significato opposto che aveva pr loro il termine utopia (un concetto che ha il difetto di imprigionare (per Marx o Sartre) o il pregio di liberare (Basaglia, Ernst Bloch) il tempo futro.
Quello tra i due è dunque un rapporto al centro del quale, osserva Gallio ancora, sta il fatto che la forma radicale di umanesismo di Sartre «sia stata utilizzata [da Basaglia] prima di tutto come fondamento di un’etica laica: possibilità di pensare la libertà dell’individuo nella sua radicale immanenza e contingenza storica, e nel suo costituirsi come soggetto di una realtà che gli appartiene (per così dire) di diritto, dato che ne diventa il responsabile: responsabile, cioè, della trasformazione ciascuno della sua realtà».
È soprattutto nei saggi del periodo goriziano che la malattia è confrontata da Basaglia con il suo doppio istituzionale in una realtà che si presenta «alterata nello spazio materiale e fisico in cui si situa la mia corporeità, sottratta come luogo del dono e dello scambio, del legame e del “contratto”; ristretta o impoverita nelle concrete determinazioni che interferiscono con l’esercizio della mia libertà».
Questo è l’ospedale psichiatrico insomma, ma lo stesso si potrebbe dire oggi dei luoghi della salute mentale nei quali la cura non è al servizio della vita, ma imprigiona la vita costringendola in luoghi e situazioni artefatte, che della vita reale non conservano nessun aspetto.
Per questo non solo l’ospedale psichiatrico doveva essere chiuso, ma anche i luoghi e le situazioni di falsificazione istituzionale che a volte ci troviamo noi a proporre ai nostri pazienti non devono prescindere, nella durata e nelle caratteristiche, dalla ricerca del massimo rapporto possibile col reale, perché la partecipazione, quanto e come si può, al reale è un diritto secondo solo a quello alla vita, che a ciascuno dovrebbe essere esplicitamente riconosciuto: «la cura» scrive Gallio «doveva svolgersi nella normalità della vita quotidiana».
Un diritto, questo, che implica per ciascuno, certo in rapporto a una situazione che non è la stessa per lo psichiatra e per il malato, la possibilità di accedere il più possibile alla scelta.
Sono questioni estremamente attuali, e dalla relazione Basaglia-Sartre Gallio passa a considerazioni su quella che è oggi l’eredità di entrambi a partire dal fatto che, dopo la chiusura dell’ospedale psichiatrico, per ciò che avrebbe dovuto riguardare il passaggio alla deistituzionalizzazione della società Basaglia si è trovato molto più solo, e il destino gli ha anche concesso meno tempo.
E anzi le cose sono andate peggiorando: in una società che si è chiusa, ritornando a far pagare ai soggetti deboli con la libertà o lo stigma – quando non con la stessa vita, non riseco a non aggiungere in rapporto a ciò che accade nel Mediterraneo in questi anni, e a Gaza in questi giorni – l’aspirazione «alla normalità, ai diritti di cittadinanza o anche semplicemente di appartenenza a un luogo».
«Basaglia era consapevole che la chiusura dell’ospedale psichiatrico costituiva un laboratorio per il futuro», osserva ancora Gallio, e credo che ciò sia vero perché a partire dalle prime pagine de L’istituzione negata il suo discorso tende a spingersi, insieme a quello di Sarte, oltre la psichiatria (ma senza mai prescindere dalla psichiatria), alla critica di ogni forma di violenza e oppressione istituzionale nella quale l’inautenticità del ruolo impedisce il rispecchiamento del proprio statuto di appartenenza all’umanità, in quello dell’altro.
Una spinta esistenziale ed eticaa a uno sforzo di autenticità assoluta è dunque ciò che, soprattutto, per Gallio Basaglia trova in Sartre e che noi possiamo a nostra volta trovare nell’insegnamento dell’uno e dell’altro. Un insegnamento che ci auguriamo che in questo centenario non sia solo ricordato, ma possa ritornare a essere lo scomodo stimolo verso una psichiatria e una società migliori, più libere e più giuste.
Eventi – Il volume sarà presentato giovedì 18 aprile, alle ore 17.30, al Circolo della Stampa di Trieste in corso Italia 13, con Michele Zanetti, Pier Aldo Rovatti e Fabiana Martini. Per ciò che rigurda la prosecuzione della promozione del volume Franco Basaglia, un profilo: dalla critica dell’istituzione psichiatria alla critica della società, segnalo che mercoledì 17 aprile alle 17 avrà luogo al Circolo della Stampa di Avellino l’evento “Ritorno a Basaglia? A cento anni dalla nascita dell’uomo che cambiò il destino dei matti” nel corso del quale incontrerò i colleghi Antonuio Tomasetti, psichiatra, e Francesco Sellitto, presidente dell’Ordine dei medici, e il giornalista Gianni Festa, direttore del Corriere dell’Irpinia. Altra presentazione giovedì 18 aprile alle ore 18 a Salerno presso il Teatro Ghirelli, via Lungoini, con gli psichiatri Giulio Corrivetti, Corrado De Rosa e con Edoardo Scotti. È prevista inoltre per il 26 aprile l’uscita del libro Fare l’impossibile. Ragionando di psichiatria e di potere di Franco Basaglia, curato da Marica Setaro per Donzelli (segui il link).
Nel video: Mario Novello a un convegno del 2018.
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