1.Premessa
“Le idee non cascano dal cielo”
(A. Labriola)
L’idea di un lavoro sul rapporto fra gioco storia e mito è nata dalla confluenza in un luogo mio interno, che presumo sia il preconscio, di una serie di stimoli, alcuni dei quali provenienti da territori esplorati e facilmente riconoscibili, altri sconosciuti o a mala pena “messi in parola”.
L’occasione che ha provocato il precipitare dell’idea è stata la rilettura di un breve testo di Agamben sul rapporto fra gioco e tempo. Un’occasione, a prima vista originata da una curiosità di tipo intellettuale. Fatto sta che si trattava della rilettura di un testo che qualche tempo fa non aveva suscitato in me particolari entusiasmi.
Cos’è quindi che me lo ha reso ora così intrigante?
Qualche estate fa ho cominciato una ricerca sul campo nel mio paese d’origine sul rapporto fra temporalità e igiene mentale (Angelini, 2014) che segue una ricerca sulle fiabe (Angelini, 1989), ricerca che, come la prima, tende ad analizzare le analogie e le differenze esistenti fra alcuni stili di inculturazione del paese e della campagna.
Nel caso della ricerca sulle fiabe si trattava essenzialmente di cercare di comprendere come venivano elaborate in paese ed in campagna le ansie e le angosce del bambino e della bambina di fronte ai problemi della crescita psicologica.
Nel caso della ricerca sulla temporalità il problema che andavo, e vado tuttora analizzando è quello delle varie modalità, delle varie forme di “soggettivazione” del tempo, connesse alle varie professioni esercitate tradizionalmente, o più recentemente, in paese ed in campagna.
Se si aggiunge poi che la mia identità culturale è il frutto di un incrocio fra una “parte paesana” ed una “contadina”, provenendo uno dei miei genitori dal paese e l’altra dalla campagna, si può comprendere come al fondo di questa curiosità vi sia un qualcosa di non propriamente intellettuale, ma di più attinente ad aspetti nucleari del mio essere.
Ed ecco allora che su questo substrato personale, rimesso in circolo dalle due ricerche effettuate negli anni scorsi, è andata lentamente addensandosi l’esperienza gruppoanalitica, nel frattempo iniziata, che ha ulteriormente arricchito di nuovo materiale ed investito di nuova luce quanto precedentemente si era andato sedimentando dentro di me come precipitato non solo della mia curiosità di ricercatore, ma anche , e soprattutto, dell’esperienza psicoterapeutica con i bambini, gli adolescenti, gli adulti.
Infine l’occasione da voi offertami di coniugare ciò che io vado esperendo sul gioco con il vostro “doppio gioco” con il bambino ha permesso una ulteriore ri\elaborazione di tutto questo materiale, che ancor oggi si presenta ai miei occhi come un materiale magmatico, che solo adesso si va solidificando in un “discorso”.
Così il testo di Agamben, incrociandosi e coniugandosi con questi nuovi dati provenienti dall’esperienza concreta, è riapparso ai miei occhi come pregno di messaggi e, direi, di presagi che a una prima lettura non avevo colto:
*La “triangolazione” gioco-mito-storia, analizzata da Agamben in una prospettiva generale, si ridefiniva così dentro di me come luogo di tensioni che potevano ora esser messe in parola in base alle ultime, ed anche alle meno recenti esperienze fatte.
*Perdersi e ritrovarsi nel gioco: l’immagine nietzschiana del fanciullo al di fuori del tempo che gioca sul bagnasciuga; la definizione winnicottiana dell’area culturale condivisa da adulti ed infanti come erede del gioco e, prima ancora, dei fenomeni transizionali, il setting definito, fra l’altro, da Napolitani (1986) come luogo in cui un “gioco” ha luogo fra terapeuta e paziente (transfert contro transfert) , un gioco che può essere un vecchio gioco o un nuovo gioco.
*La ri\definizione gruppoanalitica del mito come luogo dell’immaginario, della coazione a ripetere, che ridava nuovo significato alla visione di Agamben del mito come cristallizzazione di qualcosa che, se in passato ha avuto una dimensione diacronica, oggi si comprime in una dimensione sincronica, in una “struttura”.
*Ed, al contrario, la storia come scioglimento e trasformazione delle strutture sincroniche in una diacronia che, da un punto di vista gruppoanalitico, diventa il luogo possibile in cui una temporalità[1] può essere vissuta autonomamente al presente, ed altrettanto autonomamente pro\gettata per l’avvenire.
* E, nella scena fisioterapica, infine, il gioco che si sdoppia secondo un discrimine che vede, da una parte, la fisioterapista, il bambino ed i loro due corpi all’interno di un discorso, di un insieme di protocolli, di procedure che sono di tipo medico, dall’altra questi stessi soggetti, con un medesimo spessore corporeo, inseriti all’interno di un discorso altro rispetto a quello medicale, discorso che implica una in-lusione che- a sua volta – sottende una appartenenza ad un altra tradizione scientifica, ad altri protocolli, ad altre procedure, non più mediche, e cioè dialogiche e non diagnostiche.
*Tutto ciò immediatamente si legava, da una parte, alla esperienza terapeutica, dall’altra a vari aspetti della ricerca sul campo.
2.Il gioco
“L’area di gioco è uno spazio potenziale
tra la madre ed il bambino, o che congiunge
la madre e il bambino”
D.Winnicott
Caso clinico: Massimo era un bambino di 9 anni venuto nel mio ambulatorio per la prima volta con la madre: Da varie settimane rifiutava di andare a scuola e non riusciva a separarsi fisicamente dalla figura materna fino al punto da non sopportare che la porta che divideva me e lui dalla madre, che l’attendeva nel corridoio, fosse tanto socchiusa da non permettergli la vista della sua figura. Anche la totale apertura della porta e la visione della madre seduta in attesa non impediva la scomparsa di un pianto disperato, che prima era dirotto, poi, a poco a poco, si andava facendo più “ritmico”.
Nella seduta successiva Massimo portava con sè un piccolissimo cane di stoffa, che teneva serrato in una mano.
Il pianto era ancora disperato, ma la separazione, o meglio la distanziazione fisica dalla madre poté essere ottenuta rapidamente seguendo le modalità del primo incontro.
Io mostrai interesse per il cane ed invitai Massimo a disegnarlo, usando una matita e un foglio bianco che misi sul tavolo.
Dopo qualche titubanza Massimo smise di piangere e prese a tracciare con veloci ed efficacissimi tratti l’immagine del cagnolino che, nel frattempo, aveva disposto sul tavolo.
Alla fine del disegno eravamo entrambi soddisfatti di ciò che era accaduto. Io gli proposi, se lo preferiva, di disegnare qualche altra cosa. Dopo qualche istante Massimo prese a riempire un grande foglio con un disegno, che poi volle colorare, rappresentante una chiesetta greca, bianca, su di un cielo azzurro ed un mare blu: era la sua interpretazione di una “affiche” che era sul muro del mio ambulatorio.
Io a questo punto presi un foglio, con due tratti di matita lo suddivisi in quattro spazi e gli proposi di disegnare insieme una storia che avesse come protagonista il suo cane o qualche altro essere. Lui accettò.
Dopo qualche altro incontro dapprima poté essere chiusa la porta, e successivamente la madre poté andare via per venire a riprenderlo quando la seduta fosse finita.
L’idea del fumetto, in particolare, mi è venuta, da una parte, dal tipo di linguaggio che i bambini spontaneamente traggono dal materiale visivo che da ogni parte piove loro addosso, dall’altra dalla ricerca sulle fiabe cui accennavo prima.
Infatti le varie scene secondo le quali viene scandita una “storia”, rappresentata in fumetto da parte di un bambino, ricordano spesso da vicino le azioni secondo le quali si struttura una storia fiabesca. E, allo stesso modo, nei vari personaggi inventati dai bambini sono spesso riconoscibili i personaggi ‘archetipici’ di Propp.
Si definisce così un’area di gioco (che può addensarsi, ben inteso, in mille altre maniere: con i burattini, attraverso la messa in parola di storie o di sentimenti, come dicevamo prima, etc.), area che comprende sempre il terapeuta, sia che egli partecipi attivamente alla invenzione del gioco, sia che si limiti a condividere il flusso di sentimenti e di emozioni che in quest’area passano, sia che “lavori” contiguamente al bambino.
Le trasformazioni cui va incontro quest’area durante il corso della terapia, le “figure” secondo le quali si definiscono in essa le posizioni del bambino e dell’adulto non vanno viste come un itinerario di sviluppo verticale, ma come dei sistemi di continua e dinamica ri\elaborazione, nel paziente, così come nel terapeuta, del rapporto fra ciò che ci unisce a chi sta di fronte a noi, e ciò che ci separa e ci individualizza rispetto ad esso: fra nostro Idem e nostro Autos, direbbe Napolitani (1987).
Caso clinico: Andrea è un bambino di due anni e mezzo proveniente da una famiglia deprivata. Segnalato dalle assistenti sociali per problemi di aggressività nei confronti degli altri bambini dell’Asilo Nido in cui è inserito, passa le sue giornate al Nido oscillando fra rari momenti in cui si mostra disponibile a giocare serenamente con gli altri bambini, a più frequenti momenti in cui mostra un comportamento “ipercinetico” in cui “consuma” velocemente ogni opportunità di gioco che gli capiti di incontrare, e momenti in cui si aggrappa all’educatrice, poggia la propria guancia sulla sua spalla e guarda nel vuoto.
Ciò che mette in crisi l’educatrice alla quale Andrea è affidato non sono tanto i suoi gesti di aggressività, quanto la sensazione di essere da lui sequestrata e, nello stesso tempo, la constatazione dell’estrema difficoltà a definire un’area di gioco in cui Andrea si mostri disposto a condividere un’esperienza con altri.
Decidiamo di vederci periodicamente onde poter discutere più serenamente ciò che accade (si tenga conto del fatto che la segnalazione è avvenuta in base alle pressioni di alcuni genitori che tendevano a porre anche me e le assistenti sociali in una posizione di “controllo sociale”, cioè di iscrivere Nido e Usl in un “gioco” che non era il “nostro” gioco, ma il “loro”).
Nel secondo incontro -che avviene dopo venti giorni dal primo- l’educatrice afferma che, grazie alla decisione della Direttrice del Nido, che era presente e compartecipe con noi del problema fin dal primo incontro, decisione che andava nel senso di affidare più precisamente a lei la cura di Andrea, la situazione nel frattempo si è significativamente rasserenata.
Si è definito cioè un luogo intimo -il guardaroba- in cui Andrea ama trascorrere con lei alcuni minuti, rovistando nella sua borsetta, sedendosi a parlare con lei della propria famiglia, etc.
Al di là delle controversie presenti sul piano genetico -se all’inizio della vita vi sia già differenziazione e rapporto oggettuale, oppure indifferenziazione e “fase autistica normale”- ciò che a noi qui interessa è cogliere l’elemento di legame e, nello stesso tempo, di tensione che c’è fra indifferenziazione e differenziazione, fra Idem ed Autos (Napolitani, 1987).
L’intuizione winnicottiana che tende a definire l’atteggiamento materno “sufficientemente buono” come un atteggiamento di “illusione-disillusione”, può essere ridefinita, a mio avviso, come coniugazione, e cioè come dinamica di unione e separazione fra elementi appartenenti all’Idem, cioè all’insieme dei personaggi che, in un ambito sociale, culturale e familiare specifico, ci hanno in\segnato di sè, ed elementi dell’Autos, cioè a tutta quella parte del nostro essere che non è riconducibile alle costellazioni identificatorie. Si può pensare, cioè, che il bambino fin dall’inizio abbia bisogno di una coniugazione, di un dialogo che tuteli la sua esistenza in un ambito di “illusione-disillusione” che continuamente si ripropone nella doppia direzione del legame, e della tensione verso lo scioglimento di tale legame. E ciò perchè l’ambiente, direbbe Winnicott, cioè i genitori e tutti coloro che si prendono cura di lui fin dall’inizio sono investiti da una ambivalenza di sentimenti e di emozioni.
J. Devereux chiama queste correnti, profondamente ambivalenti, come “controedipiche”, (ed anzi aggiunge che sarebbe più corretto che esse siano definite edipiche e quelle che corrispettivamente nascono nel bambino come “controedipiche”). E le recenti ricerche sulle tendenze contenitive-espulsive durante la gestazione (Bibring, Bick)) sembrano confermare se non altro la estrema precocità dei fenomeni “controedipici”, ed anzi si potrebbe affermare che non appena un possibile figlio viene immaginato già viene investito di significati ambivalenti (come dimostrano, ad esempio, i colloqui con le coppie adottande).
Ebbene, nella situazione in cui è venuto a trovarsi Andrea, tutti gli attori presenti nella scena, compreso lo psicologo, si trovano ad essere investiti, e quasi travolti da un gorgo di elementi ambivalenti. Ma non è questo che genera il sintomo di Andrea, bensì il fatto che il modo specifico con il quale si determinano nella sua costellazione familiare i flussi controedipici, in quel dato momento specifico della storia di questa famiglia, fa si che non ci sia coniugazione in lui fra Idem e Autos. Non ve n’è poichè a casa l’atteggiamento imprevedibile dei genitori, che oscillano adialetticamente fra momenti di con\fusione con lui e momenti di disinteresse, non l’ha certo “allenato” a questa coniugazione. Non ve n’è poichè al Nido, fino all’assegnazione dell’educatrice che attualmente si prende cura di lui, dopo la scena quotidiana di separazione dalla madre seguivano dei momenti di solitudine che Andrea, al contrario della maggior parte suoi coetanei, non era in grado da solo di riempire di gioco.
Il problema quindi non è tanto quello di giocare, quanto quello di continuare a giocare, e cioè che l’ambiente (la famiglia, l’educatrice, e, nella seduta psicoterapeutica, lo psicoterapeuta) siano in grado di mettere in piedi col bambino un “gioco” che non può ridursi all’esemplarità di un gesto, me che deve avere le caratteristiche della continuità e della prevedibilità, nonchè quelle della fallibilità e della riparazione.
E’ per questo che l’oggetto transizionale ed i suoi “discendenti”, il gioco, per l’appunto, e la cultura, finiscono con l’avere una così grande forza: perchè, nonostante i loro limiti e la loro eterea consistenza, assicurano sempre un elemento di continuità dal quale poter partire con le proprie parti più autonome, ma al quale poter anche tornare, come in un porto sicuro, ogni volta che se ne sente il bisogno.
Il peregrinare senza meta “consumando” velocemente ogni oggetto incontrato da parte di Andrea, così come la porta aperta di Massimo, rappresentano l’assenza o la più o meno momentanea eclissi di quest’area.
Il ripristino, nell’uno e nell’altro caso, di un’area transizionale, o meglio, di gioco rappresentano invece la possibilità che si rimetta in circolo, dentro al bambino, la coniugazione fra Idem ed Autos, senza più il bisogno di darsi senso attraverso le manovre “consumistiche” di Andrea, che deve toccare tutti gli “alberi” del bosco-nido per non perdersi, e neanche nel ritorno allo stato di con-fusione con la propria madre di Massimo (e dello stesso Andrea con l’educatrice, quando le manovre “consumistiche” non bastano più).
Questo ciò che avviene sulla scena psicoterapeutica. E sulla scena fisioterapica? quali sono le analogie e le differenze fra i due tipi di scena?
E’ chiaro, innanzitutto, che nel secondo tipo di scena l’assenza della dimensione interpretativa impedisce che siano evidenziati gli elementi di fondo che costituiscono l’alleanza interpretativa. Elementi che pure in essa sono presenti, esattamente come sulla scena psicoterapeutica. Elementi senza i quali non vi sarebbe né doppio gioco, né alcun tipo di “gioco”, neanche il più freddo e ana\tomico (di chi, cioè, guarda dall’alto la scena).
Ma ciò, di per sè, non è niente di diverso da quello che avviene in qualsiasi altra scena riabilitativa (ad es. alle logopediste), o educativa (ad es. a scuola).
Ciò che, a mio avviso, rende particolare, e, direi, unico il doppio gioco fisioterapico è, da una parte, la vicinanza dei corpi, la materialità del rapporto adulto-bambino, dall’altra il combinarsi, l’intrecciarsi, più o meno fitto e “dialogante”, dei due paradigmi dei: quello medico e quello non medico.
Questa combinazione, a mio avviso, implica una accentuazione del rischio che la riabilitatrice, come i genitori, spesso non siano in grado di lasciare al disabile motorio in età evolutiva la possibilità di definire uno spazio intermedio adatto all’evolversi di manovre transizionali normali, e non siano in grado di formare con esso la corrispettiva in-lusione gruppale. Ma, anzi, che facilmente siano messe in piedi situazioni in cui lo spazio transizionale del bambino sia quello corrispondente a ciò che Masud Khan ha definito come “oggetto feticcio”, e che conseguentemente anche la in-lusione gruppale corrispettiva sia, facilmente, quella che in altra sede ho definito come illusione gruppale di tipo feticistico (in: Angelini, Bertani).
Poichè la problematica sottostante a questa particolare configurazione dei fenomeni transizionali (e più tardi dell’area del gioco e della cultura) è quella dell'”oggetto-Sè”, cioè la non chiara distinzione fra i confini personali e quelli dell’oggetto (madre o riabilitatrice, che sia) ne deriva una maggiore fatica del disabile motorio ad intraprendere la strada dell’autonomia.
3.Gioco, partita e incontro
“La psicoanalisi si è sviluppata come una forma
altamente specializzata di gioco, al servizio
della comunicazione con se stessi e con gli altri”
D.Winnicott
“Game! Set! Match!” grida l’arbitro alla fine di un incontro di tennis. Ed anche nel nostro caso, quello della psicoterapia, il termine “setting” ci riporta in un’atmosfera di gioco (play) che ha delle proprie regole che servono a determinare e a circoscrivere, proprio come in un incontro sportivo, lo spazio ed il tempo in cui avvengono i singoli “games”, le regole secondo le quali si procede nella “partita” (il setting), e la fine dell’incontro. L’unica differenza con lo sport è che nel nostro caso ciò che deve essere in certo qual modo “ritualizzato” (fissato in un “struttura”, direbbe Agamben) non è solo l’aggressività, come avviene per lo sport (Elias, Dunning), ma qualcosa di più vasto e più profondo, e cioè il “gioco” del transfert e del controtransfert.
Abbiamo già visto nel paragrafo precedente quali urgenze vi siano, in generale, dietro il bisogno di definire in ciascuno di noi un’area di gioco che ci connoti sul piano dell’appartenenza, così come abbiamo visto come quest’area possa riprodursi nel gioco terapeutico. Vedremo ora come il play si declina all’interno di una tradizione terapeutica, fissandosi in una struttura (setting) che ha delle regole che definiscono i singoli games, così come l’intera partita del gioco terapeutico stesso. Vedremo, successivamente, come questa che, a prima vista, appare al terapeuta come una “struttura”, figlia di una tradizione e, in ultima istanza di un mito, sia in effetti essa stessa un campo pieno di tensioni, in cui spinte alla fedeltà ed all’appartenenza da parte del terapeuta sono temperate da controspinte che vanno nella direzione dell’eccentricità e dell’unicità. Cosicché alla fine il setting diventa un luogo con un tasso di originalità più o meno elevato a seconda delle caratteristiche personali del singolo terapeuta e delle circostanze specifiche in cui avviene, di volta in volta, l’azione terapeutica stessa.
Ritornando alla psicoterapia infantile, è noto che, almeno in ambito psicoanalitico l’attività di gioco, così come essa si dipana nei singoli “games”, e per tutta la durata della “partita”, sia l’equivalente di ciò che nella psicoterapia degli adulti è la parola.
Infatti, così come la parola è il “gioco” che permette di definire un’area comune all’analista ed all’analizzato nel rapporto terapeutico degli adulti, il gioco, l’attività di gioco serve a definire l’area duale nel rapporto terapeuta infantile – bambino.
In quest’area comune vi è una doppia dimensione, come dicevamo prima: quella temporale (che costituisce l’oggetto principale della presente riflessione) e quella spaziale. Vediamo per un momento come si definisce esternamente ed internamente lo spazio in psicoterapia infantile, per ritornare subito dopo alla dimensione temporale.
Caso clinico. Antonio è un bambino di 7 anni da due anni in terapia. L’inagibilità del mio ambulatorio per un certo numero di mesi ha fatto si che la terapia continuasse in un nuovo luogo. Da parte mia vi è stata una sorda opposizione a questo cambiamento, che pure era stato da me voluto in quanto che il soffitto del mio ambulatorio si era rivelato composto da materiale cancerogeno. La mia opposizione, che al fondo aveva dei contenuti paranoidei basati sulle voci che in effetti questo trasloco non era temporaneo, ma definitivo e che tutto era connesso con il progetto di chiusura dei distretti territoriali, si è concretizzata in un vero e proprio acting out, manifestatosi sotto forma di dimenticanza di vari oggetti di gioco, di cartelle cliniche, etc, nel vecchio ambulatorio, dove sapevo non sarebbe stato più possibile andare a riprenderle fino alla fine del lavori.
Fra l’altro avevo dimenticato di portare nel nuovo ambulatorio i burattini con i quali a volte Antonio mostra di voler giocare.
Antonio ha reagito a questa dimenticanza attraverso tutta una serie di manovre volte alla rassicurazione e consistenti in elogi sperticati del nuovo posto, della mia posizione e della mia sedia nell’ambulatorio, nel voler prendere il mio posto, nel pretendere, alla fine della seduta, che i suoi genitori gli diano una tazza di cioccolato caldo profusa da un distributore che è nel corridoio, etc.
Lo spazio in cui il gioco può avvenire è uno spazio particolare, sia nella sua dimensione esterna, sia in quella interna.
Esternamente perchè la comunanza, la sovrapposizione, direbbe Winnicott (1986), sia possibile lo spazio dovrà definirsi innanzitutto come spazio raccolto, in cui cioè gli attori siano tutelati nella loro intimità e possano con una certa facilità farsi prendere dal gioco.
In secondo luogo lo spazio esterno dovrà essere, appunto, comune, nel senso che ci sia una disposizione da parte dei due soggetti coinvolti (bambino ed adulto) ad attribuire a tale spazio una valenza ludica e, in concreto, mettersi in gioco.
Infine dovrà trattarsi di uno spazio stabile, ancorché disadorno[2], in modo da permettere a tutti i presenti di potersi perdere e ritrovare nel gioco, di volta in volta e per tutta la durata della partita e dell’incontro, senza timore che ad ogni smarrimento corrisponda un naufragio.
Sul piano interno le coordinate spaziali sono ugualmente importanti e possono essere definite come compresenza e coniugazione dinamica fra i tre universi, fra i tre luoghi dai quali siamo abitati (Napolitani D., 1987): – la dimensione spaziale protomentale, intesa come luogo in cui, da uno stato di con-fusione e di coniugazione con l’altro, possa emergere un qualcosa di nuovo che sia il frutto germinato da questo accoppiamento; -la dimensione immaginaria come luogo delle origini, come vecchia casa in cui continuano ad albergare i vecchi personaggi , i vecchi fantasmi che ci hanno “ab initio” abitato, vecchi personaggi che continuano a costruire, in rapporto più o meno dialettico con le novità che vengono dal protomentale, ed a delimitare sempre nuove pareti interne, in rapporto a tutti i cambiamenti che, volenti o nolenti, devono giornalmente affrontare; -la dimensione simbolica in cui spazialmente una nuova casa viene costruita che, pur nata sullo stampo di quella originaria, trova la sua dimensione nella sfida con il nuovo che affrontiamo durante tutti i viaggi che abbiamo la ventura di fare, tutte le partite che nella vita ci tocca giocare.
Gioco, partita ed incontro, da un punto di vista temporale, invece, mi fanno venire in mente immediatamente la tensione esistente fra analisi terminabile ed interminabile, e cioè la necessità, che è insita in ogni rapporto di avere un inizio, uno sviluppo e una fine e l’opposta necessità di vivere con pienezza la propria vita definendo sempre “nuove unità”, mi pare dicesse Freud, e quindi non rinunciando mai a cercare nuovi punti di eccentricità e di arricchimento.
Per cui, rimanendo in ambito terapeutico, e mettendoci nei panni del terapeuta possiamo immaginare tutto l’incontro, tutta la terapia, ed ogni suo singolo “game” come il risultato di una coniugazione interna fra il patrimonio di conoscenze “scolastiche” che sono state da lui apprese nel “ginnasio” della sua esperienza personale e delle “scuole” che fino a un dato punto ha frequentato e di cui si sente figlio, da una parte, e tutto ciò che, rispetto ad esse, vi è di eccentrico e di unico in quel dato singolo rapporto, ed in quel dato singolo momento della terapia che lui sia in grado concretamente di cogliere. In questo modo è possibile porsi contemporaneamente all’interno di una tradizione terapeutica e all’esterno di essa: coniugare cioè l’appartenenza scientifica e professionale con la propria individualità e con il proprio sentire che proviene dal rapporto con quel dato paziente in quel dato momento della sua terapia.
Anche nel caso della fisioterapia lo spazio esterno della cura deve essere uno spazio raccolto, uno spazio cioè in cui la fisioterapista ed il bambino possano sentirsi tutelati nella loro intimità, ed entrare in un rapporto corporeo che li possa prendere, senza remore che non siano quelle definite dal setting.
La fisioterapia in età evolutiva, però, poichè ha nel proprio “DNA” la compresenza della doppia dimensione del gioco, ha bisogno che lo spazio comune sia chiaramente definito in questa doppia dimensione non solo da entrambi i partner, ma anche dalla famiglia, in modo da minimizzare il rischio che qualcuno, ad un certo punto del percorso riabilitativo equivochi sulla necessità del primo, e soprattutto del secondo tipo di gioco (stare insieme solo per l’arto impedito \ sentirsi dire che lì non si fa altro che giocare).
Per quanto riguarda la stabilità dello spazio di gioco, nel caso delle fisioterapiste, vi è una complicazione dovuta ad una serie di fattori (turn over, assegnazione dei casi da parte di una entità estranea al lavoro in palestra) che possono minare le basi stesse della continuità riabilitativa, e quindi dell’alleanza col bambino. E mi pare che anche il termine disadorno nel vostro caso assuma un’altra valenza, rispetto al significato che esso assume nel setting psicoterapeutico: resta il fatto che disadorno, in ogni caso, non deve mai coincidere con spoglio.
Sul piano della dimensione che lo spazio ed il tempo assumono dentro ciascuna di voi non mi pare che vi sia alcuna differenza con quanto detto a proposito dello spazio e del tempo interno allo psicoterapeuta: la dialettica fra vecchia e nuova oikìa, fra vecchia e nuova “casa” che internamente andiamo costruendo rimettendo giornalmente in circolo le nostre appartenenze e rendendo sempre più nostro, cioè personale questo spazio, è un tema che abbiamo già ampiamente affrontato nei nostri ultimi incontri.
4.Gioco e mito
“Domani -mi dici sempre- domani
comincerò a vivere” -Postumo,
quando viene domani?
Quanto è lontano domani?
Dov’è questo domani?
Dove lo cercherai? Nascosto fra gli Armeni
o magari fra i Parti?
Ah! che questo domani ormai ha gli anni
di Nestore e di Priamo!
E, dimmi, quanto costa questo domani!
Postumo, è già tardi vivere oggi.
Postumo, saggio è chi ha vissuto ieri.
Marziale, Epigrammi,
Libro 5°,N.LVIII.
La filosofia del “mythos” -cui viene contrapposta la filosofia del “logos”- può essere erroneamente vista come una filosofia al di fuori del tempo che verrebbe messa in crisi dal pensiero logico-razionale, anche nella sua supposta dimensionalità atemporale, mitica per l’appunto. In questo modo si potrebbe erroneamente pensare che, dalla crisi e dal superamento di questa supposta atemporalità del mito, la filosofia del “logos” avrebbe potuto far nascere in tutto l’occidente la storia, cioè una temporalità sfatata e perciò oggettivabile e analizzabile.
Dicevo “erroneamente” perchè, a ben guardare, anche nella dimensione mitica vi è una temporalità (così come una spazialità) assolutamente non fatata.
L’analisi comparata dei miti (Graves) pone in evidenza l’esistenza di un processo di contaminazione e di trasmissione della struttura e dei contenuti mitologici che non è molto diversa dalle considerazioni che in sede strutturalista e psicoanalitica è possibile fare oggi sui processi di contaminazione e di trasmissione, ad esempio nelle fiabe o nelle altre forme del narrare orale.
Contaminazione fra i “dialetti” mitologici che si influenzano uno con l’altro, trasmissione da una generazione all’altra con le trans\formazioni che sono indotte dal variare delle ragioni di fondo che impongono, in un dato momento e in un dato luogo, il propagarsi di un dato mito e non di un altro, ragioni di fondo che sono di ordine materiale e spirituale e che concorrono nel determinare il carattere etnico di un popolo e, conseguentemente, l’inconscio etnico di quel dato popolo (Angelini, 1989).
Perciò è errato e semplicistico contrapporre un’età dell’oro di tipo mitico in cui lo spazio ed il tempo non esistono ad una età bronzea della ragione in cui la tirannia del tempo improvvisamente cala sulla civiltà imponendole i suoi ritmi: il mito infatti si forma esso stesso nel tempo storico e nello spazio geografico e, secondo queste stesse coordinate, si trans\forma.
Ma allora cos’è che lo contrappone così pesantemente alla storia?
Caso clinico: Antonio per tutto un periodo ha continuato a disegnare sempre la stessa storia consistente nella contrapposizione fra due entità genitoriali che poi finivano con l’eliminare le loro parti aggressive e con il rappacificarsi.
Caso clinico: Daniele per un lungo periodo ha rappresentato sempre addirittura la stessa scena, quasi con le stesse didascalie. Questa scena rappresentava un bambino che gioca a palla, un bambino più grande che se ne impossessa fraudolentemente ed il bambino più piccolo che, mentre il più grande e prepotente dorme, “pàno pàno” va a riprendersela.
Caso clinico: Elena, una preadolescente a rischio psicotico, disegna da tempo una casa con un bimbo che gioca appena fuori di essa, un cane che si allontana e che rischia di perdersi e di avvelenarsi, e qualcuno della famiglia che va a riprenderlo ed a riportarlo a casa, dove viene (ri)adottato.
Gli elementi mitici, afferma Agamben, consistono in una tensione che comprime la diacronia in sincronia.
Un elemento, cioè, che era storia si blocca ora in struttura, in cerimoniale, in coazione a ripetere.
Potremmo forse dire che, gruppoanaliticamente, un elemento che aveva un suo peso dentro una storia che, nel momento in cui era vissuta, era la risultanza di una tensione fra appartenenza e autenticità, ora si presenta più o meno incartapecorito in un rituale, in una cerimonia.
Allora quell’elemento era trans\formativo, ora e conservativo. Allora c’erano di fronte ad esso altri elementi con funzioni conservative che si opponevano alla trasformazione, oggi è diventato esso stesso elemento di conservazione che si oppone ad altri elementi (che, fortunatamente anche in Antonio, Daniele ed Elena ci sono, come vedremo meglio fra un poco) che sono con esso in un rapporto di tensione che può sfociare sempre nel prevalere ora del polo conservativo ora di quello innovativo.
Anche dentro il terapeuta vi sono elementi di conservazione e di trasformazione che agiscono in un rapporto dinamico sia con le parole ed il gioco che l’altro propone, sia con le proprie matrici ed il proprio Autos.
Esempio clinico: Le mie resistenze al cambiamento di ufficio e l’acting out che ne è derivato possono essere visti sia in rapporto a ciò che andava accadendo dentro di me di fronte ai pazienti in quella circostanza, sia in rapporto alla mia storia personale nell’istituzione in cui lavoro.
Da una parte cioè un elemento di trasformazione, che poteva essere “messo in gioco” e quindi usato come veicolo di altre trasformazioni, di arricchimento sia per me stesso sia per i miei pazienti, non lo è stato (soprattutto nelle prime settimane) poichè io stesso mi sono trovato spiazzato rispetto a questa possibilità per cui non son riuscito a vedere quali possibilità dinamiche vi erano in quel cambiamento. Dall’altra le mie vecchie storie con l’istituzione mi spingevano a vivere quel gesto istituzionale -che pure io stesso, insieme ai miei colleghi avevo sollecitato- come un gesto sovraccarico di significati svilenti, svalutanti, come abbiamo già visto.
Il tempo mitico non è altro che il tempo come appare a chi vive sotto il mantello della dimensione transferale: un tempo che non riesce a vivere il presente se non in termini di dipendenza, e che non riesce a progettare il futuro se non in termini sintomatici o di coazione a ripetere. Cosicché l’oggi, nella dimensione mitica, è come schiacciato sullo ieri, in modo che ne risulta, soprattutto nel caso dell’acting out, la replica esatta; e il domani “ha ormai gli anni di Nestore e di Priamo”.
Ciononostante il perdersi ed il ritrovarsi nel gioco, anche nella dimensione mitica, acquisiscono un significato del tutto particolare che in sede terapeutica va attentamente considerato. L’insistere infatti in una perpetua replica di una storia a fumetti, o di un gioco con i burattini, etc, può essere, fra l’altro, considerata come un tentativo di riprodurre nel “qui ed ora” della relazione terapeutica le domande sfingee cui Edipo è costretto a rispondere se vuol proseguire nel suo percorso di autorealizzazione.
La stessa cosa avviene nel processo autoterapeutico innescato dall’ascolto delle fiabe: anche qui il bambino-Edipo deve continuamente ascoltare ciò che la fiaba-Sfinge gli presenta sotto forma di quesito finché il nodo critico che aveva sollecitato il bambino a richiedere sempre la stessa fiaba non viene superato, grazie all’innesco di un processo abreatorio.
L’unica differenza fra la prima e la seconda scena è nel fatto che, nella relazione terapeutica, lo psicologo un po’ sarà esso stesso Edipo che cerca di rispondere al quesito che la Sfinge culturale e familiare propone a tutti e due, un po’ è già riuscito a rispondere -grazie al suo training personale, al suo lavoro con se stesso- ad una serie di domande ed è perciò in grado di porsi in una posizione più critica nei confronti della Sfinge (con i limiti che abbiamo già visto). Per cui il terapeuta non ha bisogno di attendere che intervengano casuali processi abreatori, ma può, ponendosi in gioco, transfert contro transfert, innescare processi circolari di carattere ermeneutico, interpretativo.
Nella scena fisioterapica tutto ciò, come già si diceva alla fine del 2° paragrafo, si complica terribilmente. Penso che nel vostro caso, spesso, anche di fronte a situazioni in cui il secondo tipo di gioco potrebbe, ad un certo punto del percorso terapeutico, svilupparsi in termini nuovi, non ripetitivi, le imposizioni che vengono dal primo tipo di gioco (quello più strettamente fisio) finiscono col procrastinare all’infinito l’emergere del nuovo.
E’, ancora una volta, la pesantezza derivante dalla corporeità, dalla fisicità dei vostri giochi che fa da freno, innescando facilmente situazioni in cui tutte le tappe della maturazione psicologica sono definite nello stampo di un processo di separazione-individuazione incentrato sulle tematiche dell’oggetto-Sè. E’ più facile nel vostro caso che il paziente possa mettere in piedi in altri contesti di gioco più incorporei della palestra di fisioterapia (ad esempio in scuola) rapporti più aperti alla novità.
E’ più facile. Ma non molto più facile , poichè i disabili motori tendono, anche in tali contesti, a rimettere sempre in piedi giochi vischiosi che catturano l’altro, l’adulto, in un rapporto in cui i confini corporei e mentali siano confusi e le membrane individuali inesistenti. E’ per questo che, a mio avviso, nell’analisi del vostro controtransfert fisioterapico andrebbe attentamente valutato sempre (e cioè in ogni momento e per ciascun bambino) fino a che punto anche voi (come spesso avviene per i familiari del disabile motorio) siete soggetti dialoganti distintamente col bambino e fino a che punto, invece, voi siete in una situazione di collusione, di accondiscendenza con lui, in una parola suoi complici.
5. Storia e gioco
“Quanti secoli stanno
nelle ore di un bambino?”
Luis Cernuda (da “Ocnos”, in:
Biblioteca di “In forma di parole”)
Nel rapporto fra gioco e storia Agamben suppone uno sviluppo opposto a quello che nasce dal rapporto fra gioco e mito.
Se il mito comprime la temporalità, annulla la diacronia, e riduce gli eventi in cerimonie, la storia, al contrario, esalta la temporalità, rompe la rigidità del cerimoniale e crea la possibilità che gli eventi avvengano.
Allora, venendo alla psicoterapia infantile, è possibile immaginare un’altra dimensione del gioco, che non è più fissata sulla lunghezza d’onda dell’immaginario, dell’universo transferale, ma aperta alle trasformazioni del simbolico e del protomentale.
Abbiamo visto, nel paragrafo precedente, che anche l’universo transferale è continuamente contaminato da tutti i rapporti che sul piano spaziale e temporale si impongono ad un dato “milieu culturale”, per cui si può parlare di infiniti “dialetti mitologici”, corrispondenti ad infiniti “milieux” culturali, ma abbiamo visto anche che, quando prevale in noi l’universo tranfrerale, quando siamo sotto il suo caldo, e per altri versi asfissiante mantello, è come se tutta l’energia che proviene da questi contatti fosse come convogliata in un “buco nero” che l’accumula per solidificare ancora di più la fissità dei sintomi, delle coazioni, dei cerimoniali, delle vecchie giaculatorie. Ed, allo stesso modo, in terapia quando riemergono i dati transferali è come se tutte le storie che emergono in quella dimensione diventino dei volani che prendono dentro di sè i vari elementi che provengono sia dall’esperienza quotidiana, sia dal confronto fra i due transfert, per costringerli ad assumere i panni logori dei personaggi che da sempre abitano il paziente, come lo psicoterapeuta, ed a recitare la parte che loro compete nel cerimoniale.
Qualora però prevalga la creatività, la germinatività, ecco che gli stessi elementi diventano il veicolo di una possibile trasformazione, di un possibile decentramento rispetto ai personaggi che ci abitano “ab initio”.
Esempio clinico: Massimo verso la fine del processo terapeutico rappresenta un uccello ammalato che si rivolge ad un dottore il quale, dopo una lunga cura, fa si che lui possa tornare a volare.
Esempio clinico: Elena, dopo aver superato l’impatto con il nuovo ambiente della scuola media inferiore che l’aveva spinta ad esasperare le sue storie tutte fatte di allontanamenti da casa e di possibili morti per avvelenamento proveniente da un ambiente vissuto come terrificante, una mattina disegna una storia che consiste in un bambino (i suoi protagonisti sono sempre maschili) che pesca lungo un fiume e che prende un pesce bellissimo, variopinto. Ammaliato dalla bellezza del pesce il bambino decide di ributtarlo in acqua.
Esempio clinico: Antonio, colpito da un film visto in TV sulla storia di Ulisse, all’interno del quale la scena cannibalica di Polifemo lo pone nella impossibilità di eludere l’esistenza dei moti aggressivi presenti in lui e nei suoi familiari che lui nelle sue storie tende sempre a risolvere in un “vogliamoci bene” falsamente riparatorio, reagisce a tutto ciò in maniera molto elaborata.
Dapprima mi dice che ha visto qualcosa in TV che gli è piaciuta, mi chiede se anch’io ho visto la TV la sera precedente. Io gli domando di parlarmi di questa storia, ma lui glissa.
La seduta successiva si presenta con i genitori che dicono che è terrorizzato da un film che ha visto nella settimana precedente. Tento con lui di parlare di questo film, ma Antonio si mette a piangere. Infine mi racconta la storia in modo tale che faccio fatica a riconoscere la trama dell’Odissea e soprattutto tende ad eludere la scena di Polifemo.
Solo quando gli propongo di disegnare qualche episodio del film vien fuori la storia di Polifemo, ma è ancora così terrorizzato che non è in grado di disegnare l’ultima scena, quella in cui Ulisse, risalito sulla nave lo sbeffeggia dopo averlo accecato.
Infine, dopo un’altra seduta impiegata a disegnare Polifemo, Ulisse ed i compagni nella grotta (che claustrofobicamente ricorda la casa dei suoi), decide di colorare quest’ultimo disegno e, significativamente, dimentica di armare Ulisse.
Creatività e germinatività: val la pena forse cercare di vedere con maggiore precisione come queste due istanze psichiche possono emergere in noi, poichè è da esse che nasce la possibilità di uscir fuori dalla pesantezza della struttura, e di lievitare nella leggerezza della storia.
Kris, la cui indagine pure è incapsulata in una visione oggettivistica del problema della creatività, può essere utile per comprendere meglio da dove nasce la creatività, quali forze la sostengono, quali le si oppongono.
Kris vede il problema da un punto di vista “sistemico” per cui definisce in termini di Io, Es e Super-Io le istanze psichiche di base, ragiona in termini quasi idraulici di pressioni che all’Es giungerebbero e dall’interno e dall’esterno. Pressioni cui l’Es reagisce in termini di investimento al quale si contrappone un controinvestimento dell’Io che lascerebbe arrivare alla coscienza solo quegli elementi che possono essere in quel dato momento tollerati ed organizzati dall’Io. Su questa base, fatta in un primo tempo di ispirazione, ed in un secondo tempo di elaborazione, sarebbe possibile l’emergere in termini creativi, cioè individuali (autentici) del materiale proveniente dall’Es e sollecitato dall’esperienza.
Nella misura in cui il materiale che tende ad emergere è troppo distonico rispetto all’Io i controinvestimenti da parte di quest’ultima istanza sarebbero così massicci da inibire ogni possibilità di coniugazione fra ispirazione ed elaborazione e non vi sarebbe alcuna disposizione a creare.
Questo l’impianto di Kris: se ora ci lasciamo suggestionare da questo materiale e cerchiamo di metterlo in rapporto con quanto fin qui abbiamo detto, e soprattutto con l’approccio gruppoanalitico, penso che da questa coniugazione possa nascere qualcosa di interessante.
La storia a fumetti, così come ogni altro racconto, come ogni altro “gioco” fatto in analisi, può diventare allora o un prodotto che, come abbiamo visto prima, non riesce ad uscire dalle maglie dell’immaginario con tutti i problemi di ripetizione e di coazione, in termini appena camuffati, delle vecchie storie, interpretate dai vecchi personaggi, oppure può dimostrarsi adatta e disponibile alla contaminazione ed alla coniugazione, può diventare cioè una nuova storia, un veicolo di decentramento che può dare nuovo senso all’individuo, sia nelle sue parti più autentiche, sia anche nel suo Idem (che, pur rappresentando il passato può essere così rimesso in circolo in maniera più plastica, meno rigida)
In questo modo il tempo della storia, o meglio il tempo delle storie, pur restando sempre l’ambiguo imperfetto, acquisisce un significato opposto a quello del mito.
L’imperfetto, lo dice la parola stessa, permette il mantenimento di uno stato di sospensione sul senso temporale che una storia può avere. La ragione di fondo per cui viene usato l’imperfetto nel raccontare una storia è nel fatto che se fosse usato il presente allora la storia sarebbe troppo immanente e ci sarebbe il rischio per il bambino di sprofondare in essa come si sprofonda in un sogno nel momento in cui viene vissuto. Se ci fosse il passato remoto la distanziazione sarebbe, al contrario, troppo netta e il bambino correrebbe il rischio opposto di non lasciarsi affabulare, di non lasciarsi prendere dal racconto.
L’imperfetto permette l’affabulazione, che, come abbiamo visto, è fondamentale nel “setting fiabesco”, così come nel setting analitico, e permette di mantenere una distanza altalenante da tutti i Polifemo che incontriamo nelle nostre storie terapeutiche.
Ma l’imperfetto, che nella dimensione mitica rimanda ad un universo già temporalmente definito in maniera assolutamente chiara, non ambigua, ad un luogo in cui tutto è già accaduto e dal quale Postumo non partirà mai, nella dimensione creativa (e cioè nel protomentale e nel simbolico) diventa luogo in cui la temporalità (e la spazialità) possono essere soggettivate in termini autonomi.
Cosicché l’uccellino guarito di Massimo può abbandonare il dottore ed andare per la sua strada, il pesce di Elena non deve ritornare a casa come tutti i suoi cani, i suoi gatti e i suoi bimbi, ma può liberamente nuotare, ed anche l’Ulisse di Antonio, benché non ancora conscio di avere anch’egli una spada e soprattutto benché ancora ignaro che l’uso di queste armi può essere “giocato” meglio in casa e fuori, può allontanarsi da Polifemo (ma con l’aiuto ancora del terapeuta).
Ecco, mi pare che qui si veda con maggiore evidenza le differenze fra le possibilità di gioco nel setting psicoterapeutico e quelle del setting fisioterapico. Riprendendo la metafora dell’imperfetto, mentre nel primo caso il passaggio dal mito alla storia, dalla dimensione transferale a quella autonoma e creativa è possibile, nel caso del setting fisioterapico la vicinanza dei corpi, la fisicità del gioco provoca uno spostamento di tutto il quadro sul piano del presente, non solo, ma di un presente in cui regna una situazione di confusione di corpi e di membrane che rendono molto più penoso (anche per il disabile motorio intelligente) il processo di uscita dal mito e di ingresso in una storia, che abbia i crismi dell’autonomia e della autenticità.
R.E. 26.2.1996
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