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L’inquietante caleidoscopio dell’identità di confine- Pavel Fonda

24 Lug 24

A cura di Pierpaolo Martucci

Intervista di Jernej Šček a Pavel Fonda, psichiatra e psicoanalista sloveno di Trieste

L’intervista in sloveno è stata pubblicata il 15 luglio 2023 su Delo, il principale quotidiano di Lubiana.
Ringraziamo Paolo Fonda che ci ha permesso di postare su psychiatry-on-line la traduzione in italiano dell’articolo.

L’inquietante caleidoscopio dell’identità di confine

Lo psichiatra e psicoanalista sloveno di Trieste vive i conflitti europei fin dalla nascita, non solo teoricamente, ma concretamente, sulla propria pelle, in un epicentro socio-politico incandescente come lo era la Trieste del secolo scorso, dove si scontravano e premevano le placche geologiche dello spirito europeo:  il rapporto tra Oriente e Occidente lungo la cortina di ferro, le nazioni italiane e jugoslave piene di nazionalismo lungo confini nazionali ancora non definiti, i sistemi comunisti e capitalisti, religione e ateismo, il mondo germanico e quello mediterraneo. Tensioni senza fine! In occasione del suo 80° anniversario, Saša Petejan ha coniato per lui una frase, che sembra scritta sulla sua pelle: è una gemma, una modesta gemma levigata.

Il problema, o meglio la sfida, nasce già con il suo nome personale: Pavel o Paolo? E se scrivessimo e?

Fui battezzato a Trieste nel 1942 come Paolo, perché durante il fascismo era proibito dare nomi non italiani. Successivamente, dall’asilo alla maturità, sono stato Pavel nelle scuole slovene e Paolo nell’ambiente italiano. Il doppio nome riflette la mia storia personale. La risposta alla domanda: “Cosa sei?” una volta era sul palmo della mano: “Sloveno, naturalmente!” Nel tempo, le cose si sono complicate. Innanzitutto la scoperta che, come tutti gli sloveni d’oltreconfine, sono uno “sloveno difettoso”. Non sapevo nemmeno come si diceva frizione in sloveno! Poi lo sconcerto quando qualcuno in Slovenia mi dice: “Voi italiani”. Nei primi decenni del dopoguerra, quando i nazionalismi infuriavano da entrambe le parti e mi trascinavano inevitabilmente nella loro corrente, temevo di non essere sloveno fino all’ultimo capello, cioè completamente diverso da coloro che si ritenevano italianissimi. A poco a poco mi è diventato chiaro che tali rappresentazioni erano solo miti nazionalistici, una forzatura della realtà. Non solo ho il diritto di essere quello che sono, ma anche che la mia identità – come quella di tutti gli altri – si sviluppi, fiorisca e si arricchisca anche di elementi stranieri.

Un giorno sua madre entrò in casa in lacrime: il tricolore italiano sventolava definitivamente sulla piazza Unità di Trieste. Era l’anno 1954. Un uomo di frontiera, volente o nolente, deve confrontarsi con eventi del genere per tutta la vita…

Mia madre in lacrime si lamentò allora con me: “Siamo tornati ‘sotto’ l’Italia!” I ricordi del periodo fascista erano ancora troppo vividi, lo sconcerto dei familiari era grande. Mi ci sono voluti cinquant’anni interi per uscire dai pregiudizi permeanti e rendermi conto che era giusto che Trieste non passasse ‘sotto’ la Jugoslavia. Sarebbe stato uno tsunami! Due terzi della popolazione della città, tra cui molti sloveni, sarebbero fuggiti in Italia per paura del regime totalitario, che a quel tempo non si era riuscito a lavare le mani insanguinate dalle stragi del dopoguerra. Gli italiani e gli sloveni dalla Jugoslavia, così come i profughi provenienti da altri paesi dell’est, continuavano a rifugiarsi nel campo di raccolta non lontano dalla nostra casa a Servola, un villaggio sul mare sulla costa orientale di Trieste. Il sole sarebbe brillato solo con l’indipendenza della Slovenia e il suo ingresso nell’Unione Europea cinquant’anni dopo.
Dopo aver studiato medicina a Padova e aver lavorato all’Università di Milano, è tornato a Trieste come psichiatra diplomato. Qui ha trovato lavoro nell’ospedale psichiatrico e in seguito ha diretto il Centro di salute mentale di Aurisina. La rivoluzione antipsichiatrica di Franco Basaglia – l’apertura delle porte, togliere le camicie di forza, abolire l’elettroshock – l’ha vissuta in prima persona. Il punto di svolta della deistituzionalizzazione della follia, se tiriamo le somme, ha funzionato o a un certo punto ha mancato il bersaglio?

Nel 1970 ho iniziato il lavoro nell’ospedale psichiatrico di Trieste, e contemporaneamente la mia formazione psicoanalitica a Venezia. Il Prof. Basaglia è venuto a Trieste con la formidabile ondata rivoluzionaria che travolgeva l’Italia e buona parte del mondo occidentale dal 1968. La società fremeva per liberarsi dai vincoli autoritari che limitavano e subordinavano le persone all’autorità e alla cultura borghese. Entusiasti giovani psichiatri e volontari giungevano a Trieste da altre località d’Italia e dall’estero, poiché vedevano nella liberazione dei malati di mente uno degli ambiti da cui iniziare la trasformazione radicale della società. C’erano molte idee, ma anche confusione. Le riunioni si trascinavano fino a tarda notte tra nuvole di fumo ideologico e di sigarette. Ero un po’ preoccupato di dove questa variopinta compagnia avrebbe trascinato l’ospedale, i pazienti e alla fine anche me.
Tuttavia, risultò che Basaglia sapeva tenere sotto controllo la confusione, anche se non troppo strettamente, in modo da poter utilizzare la grande energia del fervore rivoluzionario. Dopo un decennio di incessanti sforzi, abbiamo raggiunto il nostro obiettivo: l’ospedale è stato svuotato e la rete dei centri di salute mentale, che forniscono anche assistenza domiciliare, è stata consolidata. Il governo italiano ha esteso per legge l’esperienza triestina a tutto il Paese: tutti i manicomi sono stati chiusi. Anche la destra politica, che all’inizio si era opposta in tutti i modi all’esperimento, poi se ne vantava davanti agli psichiatri stranieri che visitavano Trieste per studiarne il successo.

Nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni, dove oggi fioriscono rose e fragole, tra i dipendenti c’erano anche molti sloveni. Gli oppositori erano rumorosi? Come ha accolto la città i nuovi cittadini, che passeggiavano per le strade? Per noi è diventato quotidiano convivere con la follia: recentemente ho notato che sull’isola d’Arbe c’è un ospedale psichiatrico di tipo chiuso accanto al precedente campo fascista di Kampor. Che colpo, la vista di quei reclusi!

Il nostro lavoro ha avuto successo, anche perché ci siamo tutti impegnati negli incontri con i consigli rionali, le scuole, i sindacati e i partiti politici, oltre che con personaggi della cultura, artisti, giornalisti e, naturalmente, la popolazione, che ha sempre partecipato numerosa agli incontri pubblici sulla riforma psichiatrica. La gente era preoccupata per l’apertura dell’ospedale psichiatrico e per l’integrazione dei pazienti nella società, perché prevalevano ancora pregiudizi stereotipati sull’aggressività e la pericolosità dei malati di mente: “pericoloso a sé e agli altri” era scritto nella legge del 1904 successivamente abrogata. Le assemblee potevano a volte essere anche burrascose e piene di ansia, se non di paura. Ma agli incontri i pazienti raccontavano le storie delle loro vite, mostrando così che anche loro erano esseri umani e non solo “qualcosa di sconosciuto e pericoloso, rinchiuso dietro quelle mura”. Nell’ospedale erano rinchiusi anche molti sloveni di Trieste. Basaglia aveva ottimi rapporti con gli infermieri, le assistenti sociali e gli psichiatri sloveni.
Con la graduale apertura dell’ospedale, i pazienti giravano liberamente per le vie cittadine, facevano visita ai parenti e partecipavano agli eventi organizzati dal servizio psichiatrico. Aprimmo un asilo nel parco dell’ospedale psichiatrico, dove anche i colleghi psichiatri iscrivevano i loro figli. Nel corso degli anni la paura della popolazione si è attenuata e con essa il livello di ansia e aggressività dei pazienti. Questa era la prova che gran parte della loro aggressività non era stata un sintomo della loro malattia, ma un prodotto della “istituzionalizzazione”, della vita in condizioni disumane. Questa aveva aizzato e distrutto, lungi dal curare, i pazienti già indeboliti dai loro problemi.

L’antipsichiatria si basa sul riconoscimento del legame fondamentale dell’umanità, i diritti inalienabili di ogni persona in quanto essere umano – il paziente è prima questo, poi un malato. Se già Rousseau sottolineava l’influenza dannosa della società, che avrebbe corrotto il bambino moralmente “puro”, Basaglia insegnava che la società sarebbe stata l’unica che poteva guarire. È davvero così?

Si è parlato molto dell’influenza dell’ambiente, fuori e dentro l’ospedale, sull’insorgenza e sul decorso dei disturbi psichiatrici. Derivava davvero tutto dall’ordine sociale – alcuni sostenevano che i disturbi mentali erano solo un prodotto del capitalismo – o erano una combinazione di fattori biologici, psicologici e sociali? Ė prevalso il secondo punto di vista, anche se con un diverso accento sui singoli fattori. È stata unanimemente riconosciuta la dannosità dell’istituzionalizzazione, cioè l’esclusione dalla società e la violenza occulta o esplicita, che istituzioni come i manicomi esercitano volenti o nolenti. “La libertà è terapeutica” è ancora scritto sul muro del manicomio vuoto.
Basaglia ammetteva che gli psicofarmaci erano necessari, ma metteva in guardia contro il loro uso come mezzo repressivo di controllo sociale, per mettere a tacere il paziente. Comunque, senza i neurolettici, l’abolizione dell’ospedale psichiatrico non sarebbe avvenuta.

E se tornassimo alle colonne d’Ercole dell’antropologia: anche il comunismo presuppone profondamente che l’uomo sia buono per natura…

La persona è davvero intrinsecamente buona, e corrotta solo dall’ambiente e dalla società, o tutti portiamo dentro di noi una dicotomia tra costruttività e distruttività, che crea conflitti a tutti i livelli – personale e sociale? Quest’ultima è una posizione più vicina alla visione psicoanalitica dell’uomo. Per me l’ambiente e la psiche individuale sono sempre fattori complementari (e–e) e non esclusivi (o-o).
Il presupposto che una persona immacolatamente buona sia corrotta principalmente dalle relazioni sociali, cioè capitaliste, ha ripetutamente portato alla negazione o allo sminuire dei problemi personali, che sarebbero allora solo un residuo della mentalità borghese. Di conseguenza, la psicoanalisi è stata connotata come una pseudoscienza borghese che, concentrandosi sui problemi personali, avrebbe coperto quelli sociali. Ecco perché questa scienza ha dovuto aspettare fino al 1990 per prendere vita anche in Oriente.

Come dice lei, la psicoanalisi da Fernetti a Vladivostok, nel blocco orientale, era considerata un vizio borghese. Dopo la caduta del muro di Berlino, lei ha invece riscontrato un grande interesse per essa in oriente. Tramite l’Istituto Psicoanalitico per l’Europa dell’Est lei ha formato psicoanalisti nell’Europa post-comunista, tra cui Slovenia e Croazia. Come spiega un tale successo?

In Oriente negli anni ’90, dalle rovine del comunismo, è emersa una domanda sorprendentemente intensa di psicoanalisi e formazione di psicoanalisti che prima là non c’erano. L’Associazione Psicoanalitica Internazionale e così la Federazione Europea hanno risposto a questa richiesta istituendo l’Istituto Psicoanalitico per l’Europa dell’Est affidandomene la direzione. Per oltre un ventennio l’istituto ha tenuto scuole e seminari in Oriente per candidati psicoanalisti di quasi tutti i paesi orientali, fino alla Cina, formando alcune centinaia di psicoanalisti.
Come l'”esperimento” psichiatrico di Trieste aveva prosperato grazie all’energia rivoluzionaria del 1968, così il lavoro dell’Istituto Psicoanalitico per l’Europa dell’Est ha prosperato sull’onda dell’entusiasmo dell’incontro tra orientali e occidentali dopo il 1990. Si sono incontrate persone che erano state costrette a rimanere separate per quasi un secolo, come se fossero vissute su pianeti diversi, per poi scoprire con sorpresa e gioia di essere così simili. Ciò era particolarmente vero per l’area dell’ex Unione Sovietica. Gli orientali potevano finalmente parlare dei loro traumi senza esitazione.

Nel corso degli anni, ha cambiato parecchio la sua posizione sul comunismo. Ha riconosciuto nella sua ideologia la paranoia che impone il principio “con noi o contro di noi”?

Nel 1968 iniziò un intenso fermento in tutta l’Europa occidentale, così come nel Nord e nel Sud America. Era chiaramente orientato a sinistra. In Italia, come altrove, provocò violente controreazioni da parte della destra, vi fu persino la minaccia di un colpo di stato militare fascista sull’esempio di quello greco. Tra i principali pilastri della democrazia e del rinnovamento c’erano i due milioni di iscritti al Partito Comunista d’Italia (PCI). Durante l’invasione della Cecoslovacchia il PCI criticò l’Unione Sovietica, poi rinunciò formalmente all’obiettivo della dittatura del proletariato, muovendosi a fianco dei partiti spagnolo ed altri occidentali nella direzione dell'”eurocomunismo”, verso una posizione socialdemocratica. Enrico Berlinguer [una delle figure più influenti e iconiche del comunismo italiano] e Aldo Moro [politico illuminato, democristiano, che pagò con la vita la sua apertura a sinistra, vittima delle Brigate Rosse] parlavano del “compromesso storico” tra comunisti e cattolici di sinistra.
Ho sentito il bisogno di non rimanere in disparte e ho aderito al PCI, confidando in un suo ulteriore sviluppo in direzione del pluralismo e della vera democrazia. E in realtà è andato in quella direzione. Un po’ per scherzo, un po’ seriamente, dicevo che ciò è stato grazie a Churchill e Stalin, che a Yalta avevano fatto un patto valido ancora oggi: l’Italia deve appartenere all’Occidente! Stalin quindi disse a Togliatti [il segretario del PCI del dopoguerra] di togliersi dalla mente la rivoluzione nella penisola appenninica. Nel nostro Paese il PCI è stato così costretto a tutelare il pluralismo e la democrazia, perché solo questi gli garantivano il diritto di agire politicamente, seppure solo all’opposizione.
Quando ho iniziato a diffondere la psicoanalisi nell’Europa dell’Est negli anni ’90, a volte ero preso da un senso di vergogna perché avevo ancora in tasca la tessera del PCI. Non perché il PCI avesse mai commesso cose gravi: non era mai stato nemmeno al potere. Ma mi confrontavo costantemente con le sofferenze e i crimini subiti dai miei colleghi orientali. Mi conducevano alle fosse comuni delle vittime dell’NKVD [dal 1922 il servizio di sicurezza sovietico], poi del KGB [ibidem dal 1954] con file senza fine di nomi scolpiti su lapidi commemorative, agli edifici ancora esistenti dei gulag, alle carceri con celle di tortura… Avevo ascoltato molte storie personali e familiari. Non c’era quasi famiglia in cui qualcuno non fosse stato “represso”.
Mi vergognavo che con i miei compagni di partito in Italia avessimo manifestato per tutti quegli anni solo contro la guerra in Vietnam o contro i regimi fascisti in Sud Europa e Sud America, ma mai una sola parola sulle sofferenze nell’Europa dell’Est. E c’erano milioni di persone che avevano vissuto, lavorato ed erano morti nei gulag come schiavi. Qui nessuno aveva mai menzionato il Goli otok (1), anche se è praticamente dietro l’angolo.

L’assunzione di colpe collettive è una delle questioni europee irrisolte. Non c’è nazione in Europa che non abbia le mani sporche. Le pratiche sono molto diverse, dalla denazificazione alla defascistizzazione mai iniziata. Il Goli otok per la Jugoslavia, e anche la giovane Slovenia non ha elaborato le sue uccisioni di massa del dopoguerra. Stiamo ancora negando?

Ho letto delle stragi del dopoguerra in Jugoslavia nella letteratura degli emigranti già alla fine degli anni Cinquanta. Successivamente, questo lato inquietante della storia slovena si è andato nascondendo dentro di me in un angolo oscuro, parzialmente scisso, di “quasi oblio”. Non per appartenenza ideologica, perché all’epoca ero ancora un entusiasta giovane scout cattolico, ma per la dura pressione dei nazionalisti italiani. Siccome in queste stragi sono finite anche diverse migliaia di italiani, ho dovuto allontanare dalla mia coscienza questi contenuti per cercare – indipendentemente dall’ideologia – di salvare l’immagine della mia nazione. Tuttavia, nei decenni successivi, tutto ha cominciato inevitabilmente a tornare alla luce. Molti italiani a Trieste iniziarono a distinguere tra sloveni, comunisti e non comunisti solo dopo la caduta del comunismo. Allo stesso modo, d’altra parte, gli sloveni hanno a lungo equiparato gli italiani ai fascisti e per decenni hanno ostinatamente taciuto sui propri massacri.

Torniamo al totalitarismo e al ruolo coesivo che vi svolge il nemico nei regimi non democratici.

L’intensa emotività ci costringe a una visione paranoica in bianco e nero, perché così ti liberi anche della tua negatività proiettandola sull’avversario, che così diventa sempre più mostruoso, e ti aggrappi al tuo gruppo così purificato, perché lo senti come buono e immacolato, che solo può proteggerti dal mostruoso nemico. Il comunismo, come tutti i totalitarismi, è essenzialmente paranoico: “Chi non è con noi è contro di noi!”. Ha un disperato bisogno di un nemico in agguato. Nel secolo scorso, inoltre, paranoia ideologica e paranoia nazionalista, specie nelle nostre zone, si sono purtroppo rafforzate a vicenda.
Nel suo libro di memorie The Way of the Cross [DZS 1992], Yevgenija Ginzburg descrive come negli anni ’30 un ufficiale dell’NKVD, mentre la torturava, le disse: “Ma lei non è un essere umano, è un nemico del popolo!” Così pensavano anche i capi del campo italiano dell’isola d’Arbe, del campo jugoslavo di Goli Otok, per non parlare dei nazisti della Risiera a Trieste. Ma non è facile conquistare un’immagine diversa degli eventi passati e di sé stessi: del proprio atteggiamento nei confronti del passato.

Nelle aree di contatto etnico, linguistico e culturale, ognuno ha il proprio “inquietante straniero interno”. Ci parli delle dinamiche radicate in questo nostro laboratorio di frontiera.

Quando è interiorizzato, lo schema in bianco e nero regola il pensiero e l’azione in gran parte inconsciamente. In questo modo, uno separa determinati contenuti e li nasconde a sé stesso o perlomeno li minimizza. Ci vuole un duro e lungo lavoro per sbarazzarsi di questo schema una volta che ti ha permeato. Un esempio è la mia convinzione che Trieste dovesse essere jugoslava, o che esistesse solo il nazionalismo italiano, ma non quello sloveno. Davanti a questa presa di coscienza, come prima, primitiva reazione compare un doloroso rimprovero: “Ma tu metti tutti sullo stesso piano!” Poi vengono gli impossibili tentativi di giustificare ciò che non può essere giustificato. Infine arriva una confessione redentrice: “Sì, noi – i nostri abbiamo commesso questo!” Solo allora si può sviluppare un vero dialogo con l’altro.

Qualche tempo fa ha tenuto una conferenza a Padova sul fatto che l’elaborazione collettiva si sviluppa in tre fasi.

Lo scorso anno il Centro Psicoanalitico di Padova, che riunisce un centinaio di analisti del nord-est italiano, ha scelto il tema della responsabilità storica degli italiani per le atrocità commesse durante le guerre coloniali, l’occupazione dei Balcani durante la seconda guerra mondiale e la persecuzione degli ebrei. Dall’esperienza conoscitiva è risultato evidente uno sviluppo dell’elaborazione in tre fasi: primo, è necessario contenere il dolore per tutto ciò che la nostra gente ha sofferto; poi bisogna riconoscere la sofferenza che abbiamo causato agli altri; solo in seguito è possibile cercare la pacificazione e la riconciliazione con quegli avversari che anche riconoscono le loro responsabilità.

Secondo lei, nel nostro crocevia, entrambe le nazioni, italiana e slovena, hanno nella propria cultura radicate le immagini stereotipate dell’altro come ostile e minaccioso…

Fino a poco tempo fa, gli italiani difficilmente si sentivano responsabili del “loro” fascismo, che tanta sofferenza aveva causato agli sloveni, e gli sloveni non si rendevamo conto di quanta sofferenza avesse portato agli italiani il “nostro” comunismo. Per riparare le relazioni, ciascuno dei partecipanti deve fare un passo indietro e guardarsi anche dal punto di vista dell’altro, il che, come detto, non significa livellare arbitrariamente tutto.
Oggi le cose si muovono in questa direzione: ricordo il Concerto dei Tre Presidenti, che nel 2010 ha riunito i presidenti italiano, sloveno e croato nella gremita piazza Unità di Trieste; così come l’incontro dei presidenti di Slovenia e Italia a Basovizza nel 2020. Con questo spirito ho letto libri come Nel silenzio della memoria. L’”Esodo” e l’Istria (2021) dell’antropologa Katja Hrobat Virloget in Slovenia e Adriatico amarissimo (2021) dello storico Raoul Pupo in Italia. È passato quasi un secolo dai tragici eventi ai quali tutto ciò si riferisce, ma dobbiamo renderci conto che si tratta di spostamenti “geo-tettonici”. Possiamo però dire con Galileo: “Eppur si muove!”
Lanciare colpe e recriminazioni sugli altri non conduce da nessuna parte, o meglio, può solo giovare a coloro che non vogliono la riconciliazione, perché si identificano con ideali irreali della propria completa innocenza e con tale manipolazione cercano di mantenere l’influenza su una cerchia di persone che la pensano allo stesso modo.

Parliamo dei conflitti militari dell’Europa: la Grande Guerra, la Seconda Guerra Mondiale, la Trieste del dopoguerra, i Balcani negli anni ’90, e oggi la guerra in Ucraina. I ricordi sono anche portatori dei traumi, che vengono trasmessi, manifestati e sperabilmente risolti da generazioni diverse. Ma come funziona l’inconscio collettivo? Lei ci insegna che la trasformazione e l’elaborazione dei traumi collettivi è un processo lento e graduale che avviene necessariamente a livello transgenerazionale…

Guerre e rivoluzioni seminano un numero enorme di traumi personali e di gruppo, che possono essere elaborati e superati solo nel corso di varie generazioni. La soluzione è nelle mani dei giovani, che meno oberati, possono affrontare la convivenza in modo diverso. Se non sono accecati dall’odio, possono vedere nel loro avversario un altro essere umano, mettersi nei suoi panni e riconoscere le sofferenze causate dai propri predecessori. La guerra porta sofferenze da tutte le parti, il che non significa però necessariamente che tutte le parti abbiano uguali responsabilità, che i conti vengano regolati automaticamente.
Quanti traumi rimasti a lungo congelati sono venuti alla luce nell’ultima guerra jugoslava. Hanno preso vita, hanno seminato di nuovo morte e sofferenza. Come se la generazione intermedia avesse trasmesso alle generazioni successive solo il trauma collettivo non elaborato e imponendo loro così anche l’inconscio bisogno di cercare una sua tragica risoluzione attraverso l’azione, la coazione a ripetere. Per cinquant’anni il regime paranoico non ha affatto incoraggiato l’elaborazione dei traumi, ma li ha solo sfruttati a proprio vantaggio. Sono passati solo trent’anni da quando l’elaborazione di vecchi e nuovi traumi in Slovenia può svilupparsi più pienamente. Solo ora i germogli, un tempo repressi, di Strah in pogum di Kocbek (2) possono scongelarsi e germogliare di nuovo.
Una nazione che non elabora i traumi del passato rimane vulnerabile, debole e soggetta a manipolazione. Ridursi a sterili relazioni paranoiche, sia interne che con i vicini, inibisce lo sviluppo. L’elaborazione di un passato doloroso richiede molti anni di sforzi, ma non c’è altro modo. Gli sloveni, anche se non senza dolore, si stanno finalmente muovendo nella direzione della riconciliazione e gli sforzi congiunti saranno senza dubbio premiati.

La sua vita personale e professionale è segnata da continui cambiamenti evolutivi: dieci anni scout cattolico, dieci anni Basaglia, vent’anni comunista, altri venti nell’Europa dell’Est, oggi rifiuta il ​​comunismo. Sta dicendo che la coerenza non è una virtù in sé?

L’uomo è come il Timavo che nasce sotto il Snežnik e poi scorre in parte in superficie, in parte sottoterra, riceve affluenti – ma viene anche inquinato – in parte scorre in altre direzioni e infine sfocia nel mare a Duino. È una concezione dinamica dell’uomo, in un costante interscambio tra personale e sociale, conscio e inconscio, accumulato nella memoria e immesso continuamente dalla vita. L’identità cambia nel corso della vita. Ci sono, ovviamente, diverse ragioni per cambiare: dal banale disonesto interesse personale alla ricerca della verità, dell’armonia con sé stessi e con il mondo.

Su Trieste e il bisogno di purezza identitaria, sulla regola del “tutto o niente”, che nella comunità viene detto “o con noi o contro di noi”, ci parli della riduzione disumanizzante dell’altro in aree etnicamente miste dove, secondo Lévi-Strauss, l’umanità finisce ai confini della tribù.

Ho trascorso la mia vita nell’ambiente triestino, che è in gran parte italiano, e ovviamente vi ho attinto molto di ciò che inevitabilmente costituisce la parte italiana della mia identità. Negli anni ho vissuto questo sempre più come un arricchimento e non come un “inquinamento”.
Una questione difficile, invece, riguarda l’inconscia introiezione di pregiudizi stranieri “inquinanti”. Quando apri le porte alla cultura italiana, oltre alla sua ricchezza, si insinuano in te anche del tutto sgraditi pregiudizi negativi nei confronti degli sloveni, cioè nei confronti di te stesso. E viceversa: dalla cultura slovena ti arrivano pregiudizi negativi verso gli italiani, quindi anche verso una parte di te stesso. In una certa misura, tu senti tutto ciò in modo inquietante come tuo! L’identità di confine diventa un caleidoscopio: basta un piccolo movimento e i frammenti multicolori compongono all’istante un altro quadro. Ti porti dentro uno sloveno che ammira gli italiani, ma anche uno che disprezza gli italiani, così come un italiano che disprezza gli sloveni, e allo stesso tempo uno che ammira gli sloveni. Non è facile convivere con così tante immagini interiorizzate di sé stessi e degli altri, specialmente quando sono in netto conflitto tra loro. Ecco allora che la tentazione della semplificazione paranoica si fa forte!
Nelle immagini caleidoscopiche in continuo mutamento devono però esserci anche contenuti e linee che diano una certa continuità al vivere, il senso che faccia sentire il “prima e il dopo” come nostro, per muoverci nella direzione della coerenza del vivere. Solo allora la diversità arricchisce una persona. La personalità non deve essere troppo rigida, limitata, chiusa, senza vita, ma nemmeno deve disintegrarsi nella confusione, in un impasto di elementi contraddittori.

Quali meccanismi di difesa della psiche collettiva sono maggiormente all’opera all’interno delle comunità minoritarie e maggioritarie triestine? In altre parole: la comunità slovena in Italia, un ponte o un muro?

Alcuni di noi si rifugiano ancora nella paranoica certezza che siamo gli unici veri e buoni, e che gli italiani persistono invece nella loro malizia. Di conseguenza, una parte della minoranza slovena trasmette alla madrepatria un’immagine prevalentemente negativa degli italiani, rendendo così un pessimo servizio a sé stessa e alla madrepatria, perché avvelena i rapporti tra le due nazioni confinanti. Invece di costruire ponti, costruiscono muri.
L’identità di “vittima innocente” ha permeato una parte della minoranza, soprattutto la parte più anziana. Il ruolo di “vittima” mi è assolutamente insoddisfacente. Per me, per i miei figli e nipoti, preferisco il ruolo positivo di un costruttore del nuovo e del vitale, piuttosto che quello di uno scultore che scolpisce lapidi per i monumenti alle vittime.

In qualità di rappresentante degli sloveni in Italia, lei ha tenuto un discorso al Cankarjev dom nella sessione del Congresso mondiale sloveno alla vigilia della dichiarazione dell’indipendenza della Slovenia. Cosa resta dello spirito intraprendente, ottimista e unitario di quella primavera slovena? Come spiega le profonde divisioni nella società slovena di oggi?

Nei momenti di svolta storici si sprigionano energie molto vitali, come accennavo prima a proposito degli anni ’68 e ’90. Ma lo slancio iniziale non dura indefinitamente. È necessario a realizzare alcuni cambiamenti radicali, ma poi c’è una pausa e un lungo lavoro per costruire i complessi meccanismi sociali della democrazia. Questa non può essere stabilita per decreto: deve essere conquistata giorno per giorno perché ci impregni profondamente. Potremmo dire con Kundera “l’insostenibile leggerezza della democrazia”, ​​che è costantemente sull’orlo della dissoluzione, perché per sua stessa natura deve includere forze opposte. Ma se ne eliminassimo alcune, saremmo di nuovo in una dittatura.

Note

(1) Goli otok – Isola Calva è un isolotto roccioso nella Dalmazia, dove nel dopoguerra fu istituito un campo di concentramento, dove furono reclusi e sottoposti a un regime simile ai campi nazisti, principalmente i “cominformisti”, cioè coloro che dopo lo scisma del 1948 si erano schierati con Stalin anziché con Tito.
(2) Edvard Kocbek, poeta cattolico di sinistra, dal 1941 membro del Comitato Esecutivo del Fronte di Liberazione Sloveno, nel 1954 pubblica un libro di racconti Strah in pogum – La paura e il coraggio, in cui descrive la guerra partigiana in una visione umana, con tutte le sue contradizioni, e non nella retorica idealizzante e mitica del regime. Il Partito comunista al potere lo costringe a rinunciare a qualsiasi carica pubblica e vivrà poi sorvegliato fino alla morte.

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