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“Fare l’impossibile” – Prendersi carico – Il pensiero nuovo di Franco Basaglia – un saggio di Marica Setaro per il centenario della nascita.

2 Dic 24

Di Sergio-Mellina

«E mi no firmo!».

Franco Basaglia

OPP Gorizia novembre 1961

La ricerca su un tempo di contestazione della psichiatria manicomiale, quando la disciplina era imbalsamata in due dimensioni stabilizzate, immobili e contrarie: quella nevrotica e quella psicotica, quella asilare e quella accademica è sempre un lavoro da accogliere come un grande regalo da chi si immerge tra i documenti degli archivi, squaderna, soffia via la polvere dalle carte, le collega nel loro tempo per trovarne le corrispondenze e le trasferisce nel nostro affinché risulti più chiaro; tempo storico, per l’appunto. Purtroppo, la cronaca del nostro presente, appare frettolosa, distratta, spesso approssimativa e ancora troppo ideologica. Ebbene, Marica Setaro, ricercatrice storica dell’Università di Pisa, ha fatto questa ricerca e questo lavoro a ritroso con grande precisione. Direi di più, con acribìa storica e filologica su documenti di molte raccolte e archivi dei protagonisti di questo centenario basagliano. L’opera che s’intende segnalare è un prezioso libriccino di Marica Setaro (a cura di) “Fare l’impossibile. Ragionando di psichiatria e di potere“. Donzelli Editore, Roma, Saggine, p. 144, apparsa il 26/04/2024, 17,00 €. Una brossura chiara, elegante, minuta, che avvolge pagine dense di riflessioni e valutazioni, con una bibliogafia ineccepibile, note, glosse e rimandi ad illuminare una stagione lontana e ancora incompresa della riforma psichiatrica italiana, identificata col nome di Basaglia. Io c’ero, come dirò diffusamente a commento dei passi salienti e, buona parte delle circostanze narrate, le ho rivissute.

È importante fare subito una premessa. Franco e Franca Basaglia sono stati due soggetti complementari strafichissimi e per giunta veneziani, entrambi. Non biondi, ma certamente «belli e di gentile aspetto», da ricordare il dantesco Manfredi e la sua Beatrice. La loro fisicità è importante, altrimenti non si può comprendere la loro esistenza e il loro successo, come presenza fascinatoria, Avevano, come si suol dire, le physique du rôle per pensare, dire e fare cose esplosive nell’istituzione manicomiale, ideata per custodire i matti e tenerli rinchiusi. Lui, un affascinante prodotto della borghesia veneziana di Campo San Polo, dove vide la luce, l’11 marzo 1924, nella casa dei genitori, affacciata sulla “Piazza granda”, la seconda, per grandezza, della Serenissima. Lei, nata poco più in là, il 15 settembre 1928, sorella di Alberto (“Alfredo Nogara”) scrittore e vignettista, di due anni più grande, amico di Dino Battaglia, anch’egli veneziano, letterato e illustratore di opere letterarie. Un gruppo di “belle persone” – come direbbero a Napoli – coetanei antifascisti, perché la dittatura l’avevano vissuta e contestata. Soprattutto quel «credere obbedire combattere», oggi tornato di moda, nel governo familista di due sorelle romane. Si dà il caso che quegli intellettuali veneziani di gusti raffinati e pensiero progressista, fossero gelosi delle loro rare intimità cameratesche perché il resto della settimana si doveva andare a Padova, all’Università. Dunque, bisognava trovare il tempo di scambiarsi le idee, tra un cichéto e un’ombretta al bàcaro più vicino (spuntino, e calice di vino nella tipica osteria popolare veneziana); per sentarse un po’ a ciacolar (per sedersi a chiacchierare). Non raramente, poteva darsi che si unisse a loro, magari per andare a un bàcaro particolare al “Campo della Pescaria” (Rialto), un amico comune, salito da Rimini, Hugo Pratt, il fumettista di “Corto Maltese”.

La descrizione più completa, dell’empatia spontanea che promanava da Franco Basaglia, l’ho trovata in poche righe, una gouache veloce, tratteggiata da Giovanni Rossi, un giovane Collega mantovano. Era andato a riceverlo alla stazione, perché l’Amministrazione Provinciale di Mantova lo aveva invitato per un “Convegno” di metà dicembre del 1979 (ero presente1). Erano tutti molto contenti di ascoltarlo in casa, senza dover andare fino a Trieste. Emozionante e autentico l’incontro con la celebrità del momento. Testualmente Rossi: «Franco Basaglia era veneziano e somigliava ai campanili e alle torri di segnalazione che danno verticalità all’orizzonte piatto della laguna. Da lontano un punto di riferimento, che tuttavia ti avvicinava, alto ma non imponente, e, in men che non si dica ti coinvolgeva divenendoti familiare, attraverso il gesticolare e la parlata che distinguono il veneziano dal veneto, come l’acqua dalla terra»2. Descrizione perfetta e memorabile, degna di un suo conterraneo “… io son Sordello de la tua terra!”, citato da Dante nel VI del Purgatorio. E ancora Rossi «Basaglia aveva freddo in quel dicembre 1979. Mi chiese di indicargli dove comprare un pullover. Lo accompagnai da Marco boutique in piazza delle Poste. Era a Mantova per partecipare ad un convegno: “Le nuove istituzioni della psichiatria” in cui si sarebbe discusso di chiusura dei manicomi e nuovi servizi». Dall’articolo si viene a sapere anche che «Evelina Soregotti, una infermiera psichiatrica dell’SPDC di “Dosso del Corso”, si era offerta di accompagnare Basaglia a ritirare un oggetto da un antiquario, con negozio vicino al Sociale». Durante il tragitto «le confidò della malattia, di cui aveva appena saputo. E’ possibile che, sulla via di Mantova, avesse fatto sosta a Verona per un consulto con Hrayr Terzian, suo amico fraterno … ». Era venuto a parlare della sua esperienza triestina su “Le nuove istituzioni della psichiatria”, data la legge di abolizione dei manicomi approvata da poco più di un anno. «Al vederlo e sentirlo così vitale, nessuno immaginava che Franco Basaglia fosse già consapevole della malattia che dopo pochi mesi l’avrebbe vinto». Quel 16 dicembre rappresentò una delle ultime, se non l’ultima uscita pubblica di Basaglia.

Ottimo il pretesto del centenario della nascita di Franco Basaglia (1924-2024), e lo scontro casuale dell’autrice giovanissima, con Alberta Basaglia, figlia di Franco e Franca, rammentato con quel «Ehi ragazzina, càvati di qui, non vedo Basaglia»3, per riprendere il discorso su quella che è diventata la psichiatria italiana senza manicomio. Purtroppo senza risorse, senza più entusiasmo né un euro per l’assistenza, dopo 46 anni dalla introduzione della “Centottanta”: è questo il vero simbolo della chiusura dei manicomi in Italia, sancita nel Settantotto, del secolo passato. Chi scrive, come anticipato, ha vissuto quell’epoca e ricorda perfettamente le lunghe riflessioni critiche che si facevano nelle assemblee in ogni tipo di istituzione sanitaria. Specialmente, dopo aver trascorso un decennio di carriera universitaria, nella Clinica romana delle “Malattie Nervose e Mentali”, diretta da Mario Gozzano. Alla “Sapienza”, le discussioni accademiche vertevano sempre sul tema della libertà individuale ma la natura di quelli che prendevano la parola era della più disparata provenienza dell’area medica. Per quanto riguarda chi scrive, sul finire del 1968, era salito al “Santa Maria della Pietà”, il manicomio provinciale di Monte Mario, per cambiare lavoro e mestiere. C’era stato il “maggio francese”. Era echeggiato il grido di ribellione “Ce n’est qu’un début3. Lo scrivente e la moglie, avevano anticipato a marzo il loro engagement con una coppia di gemelli bio-ovulari, bi-coriali, femmina e maschio, capelli lisci, la prima, capelli ricci, il secondo, in sequenza, quando non esisteva l’ecografia e il padre fuori a fumare una sigaretta via l’altra. Non più neuropsichiatra dell’istituzione universitaria, ma psichiatra dell’istituzione manicomiale. Una situazione veramente incredibile e inimmaginabile, completamente fuori dal mondo! Gli pareva di essere capitato nella “Fortezza Bastiani” del “Deserto dei Tartari”, il romanzo di Dino Buzzati.

A questo punto devo cambiare registro e usare la prima persona perché la mia esperienza diretta di impegno anti-manicomiale, tranne una parentesi in Sardegna, al Cagliari 1 e 2 (Dolianova), si è svolta interamente con l’Amministrazione Provinciale di Roma. Assunto nei ruoli sanitari dell’Ospedale Psichiatrico della Provincia di Roma, ero diventato una sorta di sottotenente “Drogo” col compito di vigilare tassativamente affinché nessuno entrasse o uscisse da quella specie di “Spielberg dei pazzi” di Monte Mario. Lontanissimo da ogni forma di palpito vitale e assolutamente privo di qualsiasi nemico. Il mio superiore, non era fortunatamente il maggiore “Matti”, ma il primario Giuseppe Francesconi, detto “Peppino” o “Lillo”, a seconda che fosse in reparto o in ambito familiare. Gran cacciatore di fagiani, era nativo di Trevi nell’Umbria, medico competente gioviale e determinato, aveva spessore sindacale e, in aggiunta, una preziosa specializzazione in radiologia. Una marcia in più che, alla “Neuro” – dove anch’egli era stato, prima di salire al manicomio – lo rendeva polifunzionale e lo abilitava ad eseguire pure le angiografie cerebrali. Il secondo assistente era Antonino Lo Cascio, “Nino”, junghiano per la vita, compagno liceale, di laurea in Medicina e di specializzazione in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, a Roma, da Mario Gozzano, al numero 30 di Viale dell’Università. Dunque, “Peppino”, la mattina, dopo “la visita”, era la disperazione della suora capo-sala. Chiudeva e scostava le “vacchette” (diari di Reparto) presentate aperte, da contro-firmare, per ogni corsia del padiglione, debitamente firmate dal turno di guardia delle infermiere precedenti (era un padiglione femminile), dove c’era scritto: “presa consegna 15, lasciata consegna 15, nulla da segnalare”. Poi, raccoglieva le lettere personali dei “malati”, presentate aperte dalla suora per essere controllate e sequestrate (era tassativamente proibito scrivere all’esterno, in specie al presidente della repubblica, al capo del governo, alla magistratura e, naturalmente, a casa). Scandendo bene le parole, diceva poi, davanti alla monaca esterrefatta: «Venite, andiamo al Bar-Tabacchi di fronte, compriamo i francobolli, li attacchiamo e le imbustiamo tutte. Ci prendiamo anche il caffé, perché quello della suora è d’orzo!».

Qualche volta c’era con noi anche una giornalista di “Paese Sera“. Era l’epoca delle grandi contestazioni e avevamo i “radicali”, sempre appostati in portineria. Franco Basaglia passò alla storia per aver detto a Gorizia in analoghe circostante: «E mi no firmo!». Ognuno, allora, faceva quello che si sentiva di poter fare, come e dove poteva, per deistituzionalizzare i manicomi e noi, nel nostro piccolo, facemmo altrettanto. Tutti sapevamo della vicenda Basaglia, osteggiato accademicamente da Belloni, fin da quando era vento a Roma alla Clinica Neuro, invitato da Gozzano a presentare le sue idee sociali d’ispirazione esistenzialista, sulla base delle quali stava trasformando il manicomio di Gorizia. Ricordo benissimo la sua conferenza. Ci sarebbe dovuto essere, a sentirlo, anche Romeo Virgili, il direttore del manicomio di Rieti, allievo di Cerletti, e proprio in quel pomeriggio nell’attraversare il Viale dell’Università fu travolto da un’automobile e perse la vita. Era un tragico pomeriggio del 1973, se la memoria non mi tradisce. Nel suo piccolo, Giuseppe Francesconi, scomparso proprio quest’anno, e noi con lui, facevamo parte di un piccolo ma risoluto gruppo di medici manicomiali romani ex-S. Maria della Pietà che, si erano attivati fin dalla promulgazione della rivoluzionaria “Legge Mariotti”, la 431, del 1968, quella dell’ingresso e della dimissione volontaria, in OP! Un missile antistituzionale, per l’epoca! Ricordo una incursione al Manicomio di Volterra per un Convegno5 nell’aprile del 1974. L’attività sindacale antimanicomiale cui “Peppino” Francesconi afferiva, era la sigla sindacale “AMOPI”6 di Eliodoro Novello psichiatra di area cattolica, che lavorava al manicomio della “Brusegana” quando era diretto da Ferdinando Barison, psichiatra fenomenologo tra i precursori dell’applicazione in Italia, della corrente filosofica husserliana per leggere la follia.

Quelli che erano seriamente intenzionati a superare l’istituzione manicomiale, per cominciare a delineare un minimo di dialogo sulla sofferenza mentale, si conoscevano tutti, anche se non infrequentemente, si dava il caso litigassero ferocemente per imporre “il modello migliore”. Sapevo quello che facevano “i perugini” al “Santa Margherita” e quello che combinava Ferruccio Giacanelli (dal 1978) al “Roncati” di Bologna in Sant’Isaia 90. Me ne parlava direttamente Tullio Seppilli di cui ero amico dai tempi in cui era assistente ad Antropologia, nella Città Universitaria di Roma. Sapevo sulle stravaganze originali di Sergio Piro, un geniale napoletano di origini sarde, che s’era inventato il “Linguaggio schizofrenico” (Feltrinelli, 1967). Mi teneva al corrente una coppia di Colleghi partenopei: Paola Russo e Fausto Rossano. I due, di provata serietà professionale, junghiani convinti e all’avanguardia nella lotta antimanicomiale, avrebbero provveduto a svuotare il mastodontico manicomio “Leonardo Bianchi”, in quel di Capodichino.

Tornando a Franco Basaglia, va detto che dall’inizio del Novecento, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, a dirigere la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di Padova si erano succeduti

Ernesto Belmondo, l’autore della “Legge n. 36 del 14 febbraio del 1904”, una legge di polizia, che autorizzava l’internamento nei manicomi, con la seguente formula tautologica «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Successivamente, sulla cattedra padovana, si erano avvicendati, il vogherese di successo Carlo Giuseppe Riquier, giunto fino a Milano, che, si dice, apprezzasse i cavalli per trattare i postumi dell’encefalite letargica. Poi, per breve tempo, Carlo Berlucchi, un lodigiano prestigioso che, poco dopo preferì, l’Università di Pavia, anche per dare il suo contributo alla resistenza, dopo l’otto settembre 1943. Berlucchi fu tra i primi, rarissimi, con Fabio Visintini a prestare orecchio alla “fenomenologia”, come strumento d’indagine psicopatologica, tanto da proporre a Danilo Cargnello di salire in Valtellina per assumere la direzione del manicomio di Sondrio. Erano in pochi, i fenomenologi della psichiatria, da contarsi sulle dita delle mani: Giovanni Enrico Morselli (il milanese, non il modenese), Ferdinando Barison, Franco Basaglia, Aldo Giannini, Bruno Callieri, Arnaldo Ballerini, Eugenio Borgna, Luciano Del Pistoia. Una specie di carbonari, s’incontravano ai Congressi, ma anche alle “Giubbe rosse” – lo storico caffé di Firenze – per redimere il biologismo psichiatrico della SIP.

Nell’anno accademico 1941-42, la Facoltà di Padova chiamò Giambattista Belloni per insegnare la neurologia e la psichiatria. Non si era mai staccato dall’Istituto che frequentava con passione fin da studente. Veniva dalla provincia, Este, a sud dei Colli Euganei, residenza degli Ezzelini, poi abbandonato dagli Estense per Ferrara. Salvo qualche rara eccezione, l’impostazione generale delle discipline neurologiche e psichiatriche in Italia, era “organicista” ad oltranza. Vigeva il rigido assioma di Wilhelm Griesinger: “tutte le malattie della psiche non possono che corrispondere ad una lesione cerebrale”, inoltre riteneva la neurologia e la psichiatria, discipline mediche inscindibili. Nello specifico, stava poi alla perspicacia e alla bravura del medico, neurologo e psichiatra, cercare il danno biologico e dimostrarlo al tavolo anatomo-patologico. Una quindicina di anni più tardi, la medesima ideologia fu ribadita e impartita da Theodor Meynert, celebre neuropsichiatra di Dresda, direttore del policlinico di Kiel, salito su Cattedre altrettanto prestigiose: Il Cairo, Tubinga, Zurigo, Berlino, Vienna. Ebbene, il direttor Belloni, non si discostò mai da questa rigidissima impostazione biologica della neuropsichiatria. Quella che Giovanni Alemà, un altro mio grande maestro, chiamava “l’immacolata percezione della scienza neuropatologica”7. Si può concludere che Giambattista Belloni, essendo stato alla direzione dell’istituto universitario padovano di neurologia dal 1941 al 1966, per ben 25 anni – senza contare quelli precedenti trascorsi da studente e poi quelli immediatamente successivi alla laurea conseguita nel 1920, per fare il primario neuropsichiatra negli ospedali o per reggere le cattedre di neuropsichiatria a Sassari e Pisa – esercitò indefettibilmente la sua influente dottrina, per negare diritto d’asilo alle discipline filosofiche presso quelle bio-mediche. Segnatamente le neurologiche e psichiatriche. Il necrologio accademico ufficiale dell’Università di Padova, loda, di Belloni, cattedratico di vecchio stampo, il suo «merito di stimolare una sostanziale rivoluzione nell’organizzazione della Neurologia nell’Università e nel territorio, Neurologia che rese autonoma dalla Psichiatria e con una collocazione distinta dalla Medicina Generale. Coerentemente con questa impostazione, egli preferì denominare la Scuola di Specializzazione come Scuola di Specializzazione in Neurologia e non in Neuropsichiatria come era in uso nelle altre Università»8.

Potrebbe sembrare banale, ma più che una vicenda accademica, la partita che si giocò tra Basaglia, il pensatore e Belloni, l’organizzatore; tra la filosofia democratica e l’assolutismo dispotico, fu un grande e memorabile scontro per la salute mentale. La concretezza di Belloni si manifestò nella invenzione della “cisternografia alla Belloni“, grazie alla quale, si visualizzavano gli spazi subaracnoidei togliendo un po’ di liquor e insufflando aria; più che uno psichiatra fu un ottimo “neuro-radiologo”, quanto di più lontano dalla speculazione clinica, per fare un passo avanti nelle conoscenze delle infinite patologie della mente, ovvero dalla psicopatologia antropofenomenologica che si andava affacciando sulla spinta dell’esistenzialismo. Bisogna peraltro considerare che, in Europa, nella prima metà del Novecento, quella che negli anni di mezzo, per sei anni e 1 giorno, dal 1939 al 1945, fu messa a soqquadro da una feroce coppia di “casi clinici”, Mussolini e Hitler (sette anni di differenza), le sedicenti cure pei malati mentali, erano tra gli atti più feroci che la medicina avesse mai potuto escogitare. Il cosiddetto periodo delle “Cure grandiose e disperate”9, riservato alle sofferenze mentali, venne sciaguratamente in mente ai cosiddetti “scienziati del cervello”, quando pensarono di recare giovamento ai malati mentali provocando loro un’altra patologia: l’epilessia! L’antico “mal caduco”, che Fedor Dostoevskij conosceva perfettamente e aveva descritto ancor meglio, compresa la “stimmung”, lo stato d’animo che precede l’“aura”. Non c’era alcuna incompatibilità tra psicosi ed epilessia, come stavano a dimostrare icasticamente «Smerdjakov» il figlio illegittimo de “I fratelli Karamazov”, «Lev Nikolàevic Myskin», il principe de “L’idiota“ e tutti i personaggi affetti da patologie epilettiche, di cui tra l’altro soffriva l’autore russo medesimo, descrivendone ogni dettaglio nei suoi quattordici romanzi e venti racconti. Non è soltanto splendida letteratura di livello mondiale, la sua, ma anche, e soprattutto, finissima psicopatologia antropofenomenologica. Immenso è ciò che riesce a scrivere sull’epilessia: «che importa se è una malattia». Peraltro, la sua penetrante diffidenza nei confronti di coloro che bramano apparire “sani e perfetti” fino all’esasperazione, è un’altra sua geniale intuizione che precedeva un altro grande psicopatologo dell’antropologia: Luigi Pirandello.

Cos’era il mondo delle terapie psichiatriche nella prima metà del Novecento è presto detto. Nessuno sapeva cosa fosse veramente la pazzia, ma pochi studiosi importanti, si erano limitati a descriverla e catalogarla. Moltissimi, però, si misero a curarla. Un plotone d’esecuzione di esploratori della psiche, molto famosi, si ingegnava in ogni modo per maltrattare il cervello dei poveri folli. Qualche esempio? Il medico psichiatra austro-bavarese Julius Wagner von Jauregg, nel 1893 assunse la direzione della clinica psichiatrica di Vienna. Trentaquattro anni dopo, nel 1927, venne insignito del Nobel per la medicina a motivo del suo “contributo fondamentale nella terapia neuropsichiatrica: la cura delle psicosi, e soprattutto della demenza paralitica, mediante l’inoculazione della malaria”. Il suo primo lavoro sull’azione delle malattie febbrili nelle psicosi è del 1887; la prima malarizzazione fu eseguita nel 1917. Non è un refuso, si tratta proprio della malaria, la tremenda infezione palustre, la piaga delle acque morte, spesso letale. Dunque, mentre il mondo scientifico internazionale, Ronald Rosse, in India, Alphonse Laveran in Francia e, quello italiano in particolare, con Camillo Golgi, Ettore Marchiafava, Angelo Celli, Giovanni Battista Grassi, si affannava sulla identificazione dei vari plasmodi della malaria, ossia dei diversi protozoi diffusi dalla puntura di differenti zanzare “anofele” descrivendone il ciclo nelle sue forme “benigna” e maligna, “regolari”, “terzane” e “quartane”, nonché della corrispondenza tra la moltiplicazione del parassita e l’accesso febbrile, altri vaneggiavano con la giusta cura per i matti. Mentre gli studiosi delle infezioni umane erano impegnati nel cercare un rimedio certo, contro la puntura della zanzara “Anopheles maculipennis” nonché predisporre una efficace lotta antivettoriale, altrove, sempre in luoghi ufficiali di cura, inservienti dei manicomi, giravano con le gabbiette di zanzare, per inoculare il “plasmodium vivax” – il più benigno dei quattro, dello stomaco dell’anofele – nelle braccia dei malati mentali. Lo shock da febbre malarica, l’accesso febbrile ricorrente!

Manfred Sakel un medico ricercatore austro-ungarico di Nadvirna10 di origini ebree, nel 1938 ricevette il “Nobel” in Fisiologia e Medicina, per aver messo a punto all’Università di Vienna, un metodo chiamato “insulino-coma-terapia” (ICT) iniziato nel 1933, per il trattamento delle dipendenze da oppiacei e delle psicosi paranoidee. Lo psichiatra austro-ungarico Ladislao Joseph Meduna, nato in una famiglia di ebrei sefarditi di origine friulana, nel 1934 aveva proposto una sedicente “cardiazol-terapia” per il trattamento della psicosi schizofrenica paranoide, inducendo nei malati accessi convulsivi, ripetuti in serie settimanale, nell’ipotesi – mai dimostrata – che esistesse un antagonismo tra epilessia e schizofrenia11. Meduna, come altri ebrei, nel 1938, fu costretto ad emigrare negli Stati Uniti, dove ottenne la cattedra di neurologia a Chicago presso la “Loyola University”. In Italia, fu Adamo Mario Fiamberti, detto “Amarro”, nel 1937, prima ancora di divenire direttore del manicomio di Varese, a riprendere la tecnica di Meduna, iniettando per via venosa dell’acetilcolina al fine di provocare una “burrasca vascolare” nei poveri malati afflitti da “sindromi schizofreniche”. Come facilmente si può immaginare, nelle cure pei pazzi s’infilò proditoriamente la neurochirurgia e furono dolori seri! Egas Moniz, un medico portoghese, ricevette il “Nobel” nel 1949 per aver inventato e proposto, nel 1936, una tecnica chirurgica chiamata “lobotomia” (recisione di una parte di encefalo) e una seconda, analoga, indicata come “leucotomia prefrontale”9. Si dette anche alla politica ed entrò nel Grande Oriente lusitano, ma non gli andò gran che bene per il resto della vita, che trascorse in carrozzella, poiché un paziente gli sparò alla schiena, nel 1949, e restò paraplegico. Da sottolineare che l’idea di spegnere il pensiero della follia tagliando qualche pezzo di cervello ebbe fortuna nel mondo che precedette la prima guerra mondiale. Anche in questa circostanza, “Amarro” Fiamberti si era subito impadronito della tecnica neuro-chirurgica del Nobel lusitano per la mutilazione cerebrale, indicando la via da perforare col trapano per giungere all’interno della scatola cranica: un punto preciso della volta oculare.

Non solo dei manicomi, ma anche degli psichiatri, ben prima che le denunciasse Franco Basaglia, erano note le vicende torbide di quel mondo impenetrabile della follia che si pretendeva di voler “custodire” in appositi Asili. Erano state girate indimenticabili pellicole cinematografiche come la “La fossa dei serpenti” di Anatole Litvak (1948, USA), “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Miloš Forman (1975 USA), “Family life” di Kean Loach (1971, Regno Unito). Tanto nei film più antichi quanto in quelli più recenti, il manicomio era sempre stato presentato per quello che era: un luogo oscuro, violento e temibile, peggio di un carcere. Non parliamo poi dei luoghi dove si eseguivano le lobotomie. Personalmente non ho mai avuto l’occasione di incontrare un paziente lobotomizzato, ma sulle imprese della coppia statunitense Walter Jackson Freeman, il neurologo e James Winston Watts, il neurochirurgo, mi è capitato di leggere il libro di Jack El-Hai, un giornalista d’inchiesta, californiano di Los Angeles, intitolato: “Il lobotomista: un genio della medicina anticonformista e il suo tragico tentativo di liberare il mondo dalle malattie mentali12. Il maggiore interessato alla diffusione del libro sembra fosse l’editore, John Wiley, perché dalla sua nota di presentazione ne viene fuori un panegirico indecoroso a favore del dottor Walter Freeman e delle sue mutilazioni precedute da elettroshock per intontire il paziente. Un maldestro tentativo di giustificare una metodica feroce e aberrante sul modo di trattare la sofferenza mentale.

Di certo il dott. Freeman viaggiò in Europa e in Italia, numerose volte, è ben documentato. Conobbe Amarro Fiamberti e fece tesoro della lobotomia transorbitale. La sua vittima più illustre fu, nel 1941, Rosemary Kennedy, sorella di John Fitzgerald Kennedy assassinato a Dallas. All’epoca dell’intervento sulla povera Rose, quando aveva 23 anni, c’era stato l’attacco del Giappone a Pearl Harbour (7 dicembre 1941). Quasi a giustificare che tutto fosse divenuto legittimo, i malati psichiatrici, ancora una volta furono ritenuti, come sempre, pezzi di umanità difettosa di cui disfarsi. Rosemary fu sottoposta alla lobotomia, eseguita di nascosto e a domicilio, da Freeman e Vatts. L’aveva ordinata il “padre padrone”, Joseph Patrick Kennedy, dopo un rapido consulto con Freeman, per gli sbalzi di umore della figlia e per il fatto che fosse attratta dai ragazzi. Naturalmente, per vergogna, nascose l’operazione al resto della famiglia. Va detto che, almeno in Italia, il mio maestro, Mario Gozzano, aveva preso posizione fin dal 1937 contro queste pratiche brutali, ritenendole “frutto di un semplicismo quasi ingenuo”, a voler essere magnanimi. “Come pensare altrimenti l’ipotesi, inverosimile, di identificare anatomicamente il meccanismo del pensiero delirante in un sistema di fibre a percorso quasi obbligato”. Quanto poi alla presunta “incompatibilità epilessia-schizofrenia”, di cui s’è accennato, Mario Gozzano, scrisse esplicitamente che «leggere addirittura le premesse istologiche e guardare i “vetrini” come dimostrazione a conferma era come narrare una “mitologia indigeribile”». Tra l’altro, posso testimoniare che allo studio ed alla cura della epilessia, compresi gli aspetti sociali, dedicò molta parte della sua attività sia accademica, che divulgativa.

Tornando al saggio della Setaro, e anche altrove13, è riferito che Franco Basaglia, nel 1961 andò al manicomio di Gorizia per iniziare «a fare quello che ritenevamo impossibile … il “laboratorio vivente” di costituzione di una comunità terapeutica […] non […] certo il frutto di una notte, ma un lento e parziale esercizio che […] aveva potuto coinvolgere solo un piccolo numero di pazienti […] e, prima della progressiva apertura dei reparti, della fine della contenzione meccanica e delle terapie da shock e di isolamento, e dell’inizio di una relazione comunitaria che restituisse ai soggetti internati, lo statuto di persone […] smorzato dal realismo del quotidiano […] la fatica di inceppare la logica dell’istituzione manicomiale La caratteristica sovversiva di questo lavorio […] non era indenne da tensioni e conflitti […] premessa necessaria alla produzione di una contestazione attiva, aperta. Esercitarsi a riprendere, faticosamente, la percezione e il controllo del proprio corpo, cominciare a parlare nelle assemblee generali e nelle riunioni di reparto, chiedere conto del proprio destino in manicomio o della possibilità di tornare “fuori”, imparare a stare in relazione con gli altri […] con l’équipe […] rompono lo schema di controllo e di funzionamento standardizzato dell’ospedale».14 Difficile dire come siano state riempite tutte le caselle accademiche istituzionali, precedenti alla destinazione di Basaglia in un Ospedale psichiatrico sul confine della Slovenia. Certamente, a Padova, soprattutto dal suo direttore e anche altrove, Basaglia, non veniva soltanto spacciato, per «filosofo». Molti lo ritenevano addirittura un «sovversivo», come giustamente rimarcato da Marica Setaro15. Il peccato originale del suo Assistente veneziano, per il direttore padovano, era quello di aver superato il positivismo per approdare alla fenomenologia fin dalla specializzazione. Di aver poi frequentato gli esistenzialisti francesi, J.P. Sarte e Merleau-Ponty, in particolare, di averne condiviso il pensiero e perfino l’amicizia, nonché la reciproca stima, soprattutto col secondo, durante le numerose visite effettuate a Parigi. Ma c’era di più. Aveva osato interrogarsi sul “dasein”, sulla mondanizzazione del corpo, sulla sua ambiguità, quando scopre che un conto è “il corpo che ho” un altro è “il corpo che sono”, soprattutto, allorché ragionando sartrianamente, distingue la coscienza di sé dal mondo. E poiché Franco Basaglia, amava anche scrivere il suo pensiero, oltre che parlarne ai Congressi della SIP (Società Italiana di Psichiatria) e ovunque fosse invitato a tema, aveva pubblicato qualcosa sull’ipocondria nella Rivista Sperimentale di Freniatria16. Tutti sapevamo che lo “psichiatra” designato dal direttore Belloni fra i suoi Assistenti, era Simone Rigotti, dirottato all’Università di Bari e che al 29° Congresso nazionale della SIP organizzato a Pisa dal 24 al 27 maggio 1966, dopo il precedente di Napoli 1963, erano stati predisposti due temi ufficiali di relazione. Il primo “Nosografia delle psiconevrosi”, affidato a Rigotti che più nosografico e statistico non si poteva, di ben 115 pagine, supervisionato da Belloni. Il secondo era stato assegnato a Pietro Sarteschi, ossia al padrone di casa, secondo consuetudine: “Funzioni psichiche e centri talamo-striati”. Si può dire che la completa frattura tra Basaglia e il suo ex-Direttore, si era nel frattempo già consumata. Infatti, nelle relazioni del primo tema, l’allievo si presentava in proprio come Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia17.

All’epoca si pensò persino che il direttore Belloni, indispettito, lo avesse voluto “castigare” offrendogli Gorizia, e lui, da perfetto “signore veneziano”, per ripicca, avesse accettato la sfida. Chi scrive, e un po’ tutti quelli che erano in carriera universitaria, questo pettegolezzo la ricordano benissimo. Il passato non è mai perduto, basta ricordarlo, mi diceva Raffaello Vizioli, della scuola di Gozzano, nel portarmi seco a Cagliari per fare “l’Aiuto di psichiatria”. Il concorso dal ministero , però, non venne mai e anch’io presi la strada del manicomio. In effetti, il concorso per Gorizia di Basaglia, venne fuori per caso e accidentalmente. Niente di predisposto! All’epoca, per chiunque fosse stato in carriera universitaria, il direttore d’Istituto era tutto per i propri allievi. Padrone di vita e di morte, Dominus assoluto del tuo destino, salvo lasciare18. Come che sia, a novembre 1961, era giunta la notizia della morte il direttore del manicomio di Gorizia, dunque si era liberato il posto. Bisognava preparare subito i documenti per la domanda. questa era la volontà del direttore della Clinica Neuro, della Città del Santo. Nessuno fiatò e tutti obbedirono, perché se gli altri dell’Accademia erano “baroni”, quello di Padova si riteneva “Re”. Solo Paride Stefanini, il grande maestro di chirurgia, a Roma, ebbe il coraggio di entrare in un’aula di Patologia Chirurgica della Sapienza, gremita da studenti che contestavano, per accedere lentamente sulla cattedra. Sedutosi comodamente scrutò la platea con aria di sfida, dicendo lentamente: «Se tutti gli altri sono i baroni della Medicina, ebbene io sono il Principe! Domattina iniziano le lezioni del mio Corso». Chi scrive era presente non perché avesse ambizioni chirurgiche, ma per il livello del personaggio, e lo ricorda invincibile. Di quelli che ti capitano una volta nella vita, come Pietro Valdoni, Raffaele Paolucci di Valmaggiore, Giulio Cotronei, Cesare Frugoni, Mario Ageno, Giuseppe Amantea, una intera scuola di maestri della sanità mondiale, di cui lo scrivente ha avuto la fortuna di seguire le lezioni, nel lungo tragitto della propria formazione personale … per essere capace di mettersi all’ascolto della sofferenza mentale.

C’è un saggio abbastanza stringato ma verosimile di Massimo Cirri, che racconta l’arrivo di Basaglia a Gorizia per sostituire il vecchio direttore morto per un incidente stradale. «… Si chiamava Antonio Canor e veniva dall’ospedale psichiatrico di Pola. Nei reparti si vedeva poco ma nell’ospedale ci viveva, con la vecchia madre. Non usciva quasi mai. E’ uscito una mattina, in macchina. Niente nebbia, strade pulite, ma sul dirittone che va da Gorizia a Gradisca d’Isonzo è finito fuori strada ed è morto. Così arriva Basaglia. Perché all’università di Padova ha capito – gli hanno fatto capire – che non riuscirà mai a fare carriera. Studia, è bravo, ma legge molti libri di fenomenologia. E’ diventato troppo filosofo per fare lo psichiatria all’Università. Farà il direttore a Gorizia» e oltre « … il 16 novembre 1961, Franco Basaglia entra da Direttore nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Non ne ha mai visto uno […]. La psichiatria che si fa nelle università è una cosa, quella degli ospedali psichiatrici è un po’ diversa, un lavoro più sporco […] È uno psichiatra universitario ma l’università lo ha cortesemente messo alla porta. Franco Basaglia, 37 anni, è un po’ “disallineato” per i canoni della disciplina: legge troppi libri di filosofia, fenomenologia soprattutto, e il suo capo accademico, professor Giovanni Belloni, Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Padova, lo chiama “Il filosofo”. Che non è proprio un complimento»19.

Il pezzo di Massimo Cirri20 uno psicologo pubblicista che ha lavorato nel SSN e dunque le nostre cose le vede dalla giusta prospettiva, cioè quella di chi, dopo i manicomi, ha praticato la psichiatria riformata e la tutela della salute mentale nel territorio, vale la pena di essere letto fino in fondo per cercare di immedesimarsi nello stato d’animo di Basaglia, in quel 16 novembre 1961, un giovedì. «… Quando entra nei padiglioni del manicomio in quella mattina […], dagli altoparlanti esce una canzone, Tintarella di luna, Mina. Forse l’hanno messa in suo onore. Lui sente subito un odore e si accorge di averlo già sentito. [….] quando è finito in galera. Era antifascista, c’è stato 6 mesi. Qui, in manicomio, l’odore è lo stesso: odore di morte. Poi si guarda intorno: ci sono viali alberati, muri e padiglioni, reparti chiusi, persone chiuse. C’è molta violenza, molta miseria e molta insensatezza. C’è qualcosa, ancora, che Franco Basaglia riesce a vedere perché è un po’ filosofo: che qui ci sono 650 internati ma non c’è più nessuno. Sono stati tutti schiacciati da qualcosa: la diagnosi, l’istituzione totale, la chiusura, l’abitudine del manicomio, la miseria fisica e delle relazioni. Allora si vergogna e prova a cambiare qualcosa. Comincia a parlare con tutti, sistematicamente. O a provarci: con ognuna delle 650 persone chiuse nel manicomio. […] qualcosa che continua con l’Assemblea generale dell’ospedale psichiatrico, i reparti aperti […] pensare a cosa si debba costruire al posto del manicomio. Continua […] a Trieste, perché da Gorizia lo cacciano e anche a Parma non lo vogliono, con la legge 180 del 1978. Continua sempre. E’ una storia che va ancora avanti. Ha a che fare con come ci guardiamo gli uni con gli altri: se riusciamo a vedere le persone sotto le malattie, le etichette, le parole che definiscono e allontanano. Tocca a tutti fare un po’ i filosofi, sempre»21.

Dal punto di vista del riscontro storico mi pare utile seguire invece la traccia del testo di Marica Setaro “Fare l’impossibile”, cit., dove ho trovato notizie interessanti sulle riflessioni di Basaglia e le sue relazioni coi cattedratici del tempo. L’esatto contrario di Belloni, a Padova, era Fabio Visintini, da Toscolano sul Garda, direttore a Parma. La sua stima per un allievo non suo, con idee originali, gli attirò non poche critiche. Già allora si andava delineando la fazione dei “ribelli” e dei “conservatori rassegnati”. Mario Tobino, per esempio, lo scrittore-psichiatra, reduce dalla dissennata guerra nel deserto (1940-43), autore di “Le libere donne di Magliano” (Vallecchi, 1953) pensava che “dalla follia non si guarisce e dunque bisogna avere compassione”. Il fatto è che le vicende accademiche della neuropsichiatria italiana erano un po’ come il “Grand Prix de l’Arc de Triomphe” all’ippodromo di Longchamp dentro al Bois de Boulogne. Non si poteva assolutamente cambiare cavallo, nè scuderia. Lo avrebbero visto tutti e, nessuno dei “baroni”, lo avrebbe tollerato. «Visintini scelse di esercitare il proprio ruolo di accademico di peso in chiave politica. La sua interlocuzione sia con gli allievi diretti, sia con la compagine della prima équipe basagliana a Gorizia si mantenne sempre su un doppio livello. Connettere avvicinare ripensare i luoghi della cura e la loro profonda trasformazione attraverso un dialogo serrato – e non separato – tra gli attori politici del territorio, gli ambienti universitari della medicina e la galassia di quei giovani medici che metteva profondamente in discussione l’impianto del sapere psichiatrico classico»22. Più avanti, Marica Setaro, riporta altri passi di questa corrispondenza tra Basaglia e Visintini, rammaricandosi di aver «estrapolato solo una minima parte di una lettera che si sarebbe tentati di trascrivere per intero»23Così la risposta di Basaglia a Visintini tratta dall’Archivio Basaglia, serie «Corrispondenza», datata 1 febbraio 1969 «[…] Lei mi aveva proposto come ultima carta la possibilità di un’aggregazione ciò mi farebbe rientrare nei meandri della vita universitaria, accettando una posizione in cui ero otto anni fa […] a Padova. Ho dimostrato [nel frattempo] che si poteva lavorare nelle peggiori situazioni sanitarie possibili, dimostrando che la psichiatria universitaria e non, è una grave mistificazione. Questo i suoi colleghi universitari non potranno mai perdonarmelo […]» e oltre «Ho trovato invece lei che ha creduto alla mia azione, ha ritenuto che in un rinnovato clima universitario quale era quello che gli studenti italiani volevano, il mio rientro […] sarebbe stato un utile elemento per cominciare…. Si tratta sempre del medesimo gioco dove, anche se si mutano le posizioni degli scacchi, il Re dà sempre scacco matto»24 .

In quegli anni lontani, che io ho vissuto con vera passione di approfondire la mia preparazione in ambedue i rami delle discipline neurologiche e psichiatriche, dopo aver curato la formazione medica di base, posso dire di essermi trovato, casualmente, in una postazione straordinaria. Tutto sommato me l’ero guadagnata, perché c’era una selezione e bisognava sostenere una prova scritta per essere ammessi alla specializzazione in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali all’Università di Roma, “La Sapienza”. Nel caso fosse stata superata, era necessaria la frequenza giornaliera, mattina e pomeriggio, comprese le guardie! Se uno veniva bocciato o non voleva sottostare alla regola, andava altrove. Di solito andavano a Siena, che per noi di Roma, molto spocchiosi, era un po’ la “Serie B” della specializzazione in neuropsichiatria. Peraltro, dalla “Neuro” di Roma, passavano i candidati alla “libera docenza” in “neuropsichiatria” e in “psichiatria” provenienti da tutta Italia25, primo gradino della carriera universitaria. A parte la mia prova, quelle che mi rimasero più impresse furono le due di Bruno Callieri (Clinica delle malattie nervose e mentali e Psichiatria) e quella in Psichiatria di Ambrogio Donati – delle scuola di Riquier – marito della Nelda una cugina di mia moglie Silvia. Lo ospitammo a casa nostra, dove preparammo la lezione per il giorno dopo. Andrà a dirigere l’ospedale psichiatrico “Giuseppe Antonini”, noto a tutti come il «Mombello», il «colosso dei manicomi italiani».

La scelta di proseguire nelle sedi manicomiali successive, dopo la eccezionale scoperta isontina, per continuarne l’apertura, non fu un’operazione fortunata. Basaglia fu mal consigliato e risucchiato in un vortice di polemiche non cercate. Decisamente un errore, a mio avviso, seguitare nel pellegrinaggio parmense – un vero disastro politico di chi lo avrebbe dovuto appoggiare, e invece gli remò contro26. Franco Basaglia, approdò infine sulla piazza alabardata, per usare un linguaggio calcistico, ma forse era inevitabile. Vero è che aveva molti detrattori e molti nemici, fin dall’inizio della sua carriera universitaria. Un fatto, però, è certo: un manicomio non è una squadra di calcio e il direttore non è un allenatore! I manicomi sono tutti uguali, grandi o piccoli che siano. Basta vederne uno e ci vuole poco a capire che gli ospiti sono privati di tutto, diritti compresi, nonché vittime di violenza, quella istituzionale, per tutta la vita. A Gorizia, Basaglia aveva dimostrato che il manicomio non curava, anzi nuoceva e dunque, andava chiuso. Non poteva fare il “Giro d’Italia” per chiudere tutti gli altri. Anche se l’apertura del primo manicomio italiano aveva fatto girare la testa (e anche le scatole a molti) non poteva ripeterlo, come una canzoncina – anche banale se si vuole – per le strade del pianeta con l’organetto di Barberìa e Franca Ongaro dietro! Non mi posso togliere dalla mente“ Je ferais le tour du monde”, un motivetto francese fine anni cinquanta, allora molto popolare, di Norbert Glanzberg, compositore di origini ucraine. Lo cantavano Edith Piaf e Yves Montand, titolo della canzone “Mon Manege A Moi”.

Se si fosse stati d’accordo tutti quanti, o almeno la maggioranza degli operatori manicomiali, bisognava andare oltre la “Legge Mariotti”, la 431/1968. Quella del ministro fiorentino che poneva una potente carica di tritolo alla base delle istituzioni psichiatriche, contro tutti e tutto quanto le circondava, anticipando Basaglia. Ma in politica, come nel più scalcinato dei condominii, le cose sono molto più complicate, e “pericolose”, che in un manicomio. Fosse anche il più periferico degli Asili mentali, come lo era stato Gorizia. Svariati compromessi sarebbero stati necessari prima di giungere alla “Basaglia-Orsini”, la famosa “centottanta del settantotto”, che li suggellava tutti. Si sarebbe dovuto attendere, per l’appunto, dieci anni, e soprattutto bisognava inventare qualcosa di “comunista” tipo “Psichiatria Democratica” (1973), da affiancare con qualcosa di “democristiano” tipo l’”Amopi”, per traversare il mare delle ostilità, dei timori e dei pregiudizi. Io, “Nino” Lo Cascio e Massimo Marà, a Roma, avevamo entrambe le possibilità. Il nostro Primario, “Lillo” Francesconi, era una delle colonne dell’Amopi col padovano Eliodoro Novello, e Marà era tra i fondatori di PD, tanto che quando giravamo insieme per andare alle assemblee, “Nino”, un battutista eccezionale, motteggiava con Marà: «Dì a Franco Basaglia che Mellina deve essere ascritto come socio onorario a “Psichiatria Demografica”, con cinque figli!» L’ultima nostra figlia Alba Silvia aveva un anno e tirava i primi calci al pallone.

Non so cosa dovesse ancora dimostrare Basaglia, a Trieste, ultima sede operativa. Nondimeno si prese una denuncia penale di “omicidio colposo” per l’uxoricidio di un suo paziente, fin da quando era direttore a Gorizia27 Il poveraccio, dimesso, aveva ucciso la moglie con un coltello. Ora le cose sono molto cambiate. Membri del governo in carica vanno blaterando in giro, che e i femminicidi sono opera di immigrati irregolari e, comunque non li fermano nemmeno coi braccialetti elettronici. Allora, a molti parve una presa di posizione contro gli esperimenti di ospedali psichiatrici “aperti”, con “assemblee” di malati, medici, infermieri, spesso anche parenti, studenti, visitatori, ospiti. Poi nel 1977, a Trieste, venne il “Réseau Internazionale di Alternativa alla Psichiatria” e “Marco Cavallo”. Più che altro per solidarietà, ci andammo in molti. Io per esempio, con mia moglie Silvia, sono stato ospite a casa di Tommaso Losavio che a Trieste era, senza far torto a nessuno, uno dei più completi Primari di Basaglia. «A Trieste il manicomio straripava, si rompeva. Il nuovo cavallo di Ulisse invitava venire “a vedere Trieste”»28, scrive testualmente Marica Setaro. In effetti, il fatto che mi colpi maggiormente non fu tanto il “Cavallo Marco” quanto l’esondazione e il grande movimento dentro il manicomio. Gruppi di gente che parlavano e attendevano qualcuno o qualcosa con impazienza. Una grande quantità di automobili, dell’amministrazione provinciale e di privati che entravano e uscivano. Chi andava, chi veniva. C’era un “ospite” che doveva andare a Basovizza dai parenti e questionava, con gli infermieri che ce lo dovevano condurre, come doveva vestirsi, a che ora sarebbe stato più opportuno arrivare e se fosse stato meglio telefonare prima. Rispetto al Santa Maria della Pietà, silenziosa, ordinata, immobile, dove anche i carabinieri dovevano lasciare l’arma d’ordinanza in portineria, mi pareva di stare al Luna Park.

Il rischio, mai cessato, era, e resta tuttora quello di celebrare la beatificazione di «San Basaglia». Un essere prodigioso che ha fatto chiudere i manicomi, ha introdotto l’antipsichiatria, ha abolito le contenzioni, gli elettroshock, l’insulino-shock-terapia, le “combinate” … «un novello Pinel che libera i matti dalle catene» come giustamente rimarcato anche dalla Setaro29, che riprende un passo di una intervista in tv di Basaglia, resa a Fernaldo Di Giammatteo. Niente di più corrivo e inesatto! A mio avviso, si può tranquillamente affermare che la sua opera più rivoluzionaria sia stata quella di aver scoperto che «la psichiatria universitaria, e non, è una grave mistificazione» (vedi nota 23). Riflettendoci sopra, a distanza di oltre sessantanni, la ribellione che si sprigionò dal suo ingresso nel manicomio isontino, fu l’inizio di un vero e proprio cambio di paradigma epistemologico, secondo la celebre espressione kuhniana del 1962, riferita alla struttura delle rivoluzioni scientifiche. Una visione totalmente nuova, paragonabile alla rivoluzione copernicana, di ciò che appare, si configura, viene definita come “malattia mentale” e sigillata per sempre negli “ospedali psichiatrici”. Franco Basaglia si rese conto che l’istituzione manicomiale non era mai stata “la cura”, peggio, la “custodia”, né mai avrebbe potuto esserlo per un progetto che avesse a fondamento almeno tre punti: la tutela dello stato sociale, quella della salute mentale, le buone pratiche. La prima parte della cura dei matti, avrebbe dovuto essere la distruzione dei manicomi; il resto sarebbe stata una “lunga marcia” come andava di moda dire allora sventolando un “libretto rosso”. Oggi ci capiamo meglio se ricordiamo che si tratta sempre di quel lungo cammino, non solo di operatori formati e preparati, ma della collettività intera, con risorse adeguate, purtroppo cancellate. Questo attirò su Basaglia molti nemici, puntualmente riesumati ed enumerati dalla Setaro che cita, per tutti, una lunga campagna denigratoria su la “terza pagina” del quotidiano la Repubblica: «La morte prematura di Basaglia, a soli due anni dall’approvazione della legge, avrebbe dato la stura ad un attacco concentrico ai principi stessi della legge e a un “processo a Basaglia” sui presupposti scientifici del suo pensiero e del suo operato»30.

Non era stata una vita facile, né comoda, per chiunque l’avesse presa seriamente, l’opera di chiudere gli ospedali psichiatrici. Per tentare di governare un colossale processo di cambiamento, ogni giorno venivano messi in discussione concetti opposti come sanità/follia, ordine/disordine, normalità/devianza e così via … Ma principalmente era uno sforzo titanico, demolire l’antico modello manicomiale, il contenitore mai criticato per rinchiuderci la follia! Quella che fa più paura. Una modalità, per l’appunto, di reagire alla paura della follia, incatenandola, che si perdeva nella notte dei tempi. Sembra che il “Bedlam” londinese per il ricovero di uomini “insani”, sia stato fondato nel 1247. Lo stesso Philippe Pinel che, sullo zeitgeist della rivoluzione francese, aveva liberato i matti rinchiusi alla “Bicêtre”, dalle catene, fu minacciato dai “Cordiglieri”, i più estremisti della rivolta, che gli chiesero a brutto muso se si fosse per caso impazzito. Non tutte le amicizie, non tutte le coppie e le famiglie, degli operatori psichiatrici ressero l’urto, e il peso dell’impegno di lavoro. Talvolta, la prima a cedere fu la propria istituzione familiare, o di convivenza affettiva, ove mai vi fosse, tranne quella di Franco e Franca Basaglia. Alcune esplosero fragorosamente. Non era facile stare sulle barricate dalla mattina alla sera, per chi voleva chiudere veramente i manicomi. Poteva capitare spesso che ti suonassero i pazienti o i loro parenti, o entrambi, il campanello di casa. Non c’erano ancora i telefonini di ultima generazione ma il numero fisso domiciliare del responsabile del padiglione era a disposizione dell’équipe.

Se ne andò, improvvisamente dal gruppo dei basagliani, Giovanni Jervis, leader di grande caratura e di enorme talento didattico. Sbatté la porta clamorosamente e piantò in asso tutti, per andare a dirigere i Servizi psichiatrici territoriali di Reggio Emilia dal 1969 al 1977. Aveva infine lasciato il servizio psichiatrico territoriale insegnando, dal 1977 al 2005, al “Magistero di Roma”: “Teoria della Personalità”. Personaggio di spicco, “Gionni”, non amava sbattere le porte, ma se n’era già andato una volta all’improvviso, quando eravamo specializzandi a Roma da Mario Gozzano, per catapultarsi con Letizia Comba da Ernesto de Martino in una delle prime “spedizioni in Lucania” (1959). Carattere complesso, il suo, andrebbe meglio approfondito in un saggio più lungo. Aveva sempre trovato il modo di bisticciare un po’ su tutto e con tutti, per via del suo perfezionismo. Con de Martino, Musatti, Alemà e Callieri. Alla Einaudi, alla Feltrinelli, da Boringhieri, dove aveva prestato la sua opera preziosa. Nel 1972, “Gionni”, con la puntata di in Emilia, ebbe la sua crisi personale e quella di coppia. Se la prese anche “Contro il Relativismo” (Laterza, 2005): a suo avviso, ogni impostazione culturalista e soprattutto tutti i relativismi che la sottendono, negano il ruolo della biologia e l’unitarietà di ogni esperienza psicologia del genere umano. A me, in fondo, pare una conclusione eccessivamente radicale. Forse, le loro origini valdesi – anche Letizia Comba era di Torre Pellice – erano troppo rigide in partenza, non per fede ma per affinità di valori etici.

Se posso confessare il mio piccolo segreto, a parte il teatro, per il quale ho nutrito profonda passione, studiando ”arte drammatica” con mia moglie Silvia, dal maestro Pietro Sharoff, del Teatro d’Arte di Mosca, famoso allievo di Stanislavskij e Dančenko, mi piaceva moltissimo il calcio. Pur essendo una schiappa come lo certifica il fatto che in anni lontanissimi andai a fare il provino al “Bologna FC” e … quello che mi stava davanti lo presero, diversamente da me che fui scartato, ma si chiamava Cervellati, Cesarino Cervellati, detto “Cagaro”, dai tifosi, veniva da Baricella, a piedi, una trentina di km dal capoluogo. Era una leva calcistica del 1940, tirava una brutta aria. Mi dissero che potevo provare con l’atletica leggera, restò la passione pel calcio e fui contento quando qualcuno cercava un terzino destro. La mia pietra filosofale per misurare l’empatia con gli altri, era il gioco del calcio. Massimo Marà, compagno di guardie al SM della Pietà, aveva giocato nei ragazzi della Lazio, alla “Rondinella” e Nicola Pietrangeli scavalcava il campo da tennis per andare a giocare con loro. Paolo Perrotti era un ottimo giocatore tanto che lo chiamavano “Ernst Stajoaspal”, formidabile centravanti viennese. La prima volta che incontrai Agostino Pirella non facemmo altro che parlare di calcio, aveva giocato in serie B. Aldo Giannini, non andò in serie A perché impedito dal padre. Luigi Cancrini, in area, aveva uno stacco di testa formidabile. Nei tornei interfacoltà la squadra della “Neuro”, l’andavo a prendere io con la mia automobile. Per molti anni, due volte alla settimana, il martedì e il sabato, dalle 7.30 alle 9.30, cercavo di non mancare all’appuntamento, dai “Cavalieri di Colombo” sotto il Ponte Duca d’Aosta, sulle sponde del Tevere, con altri patiti e vecchie glorie del calcio. Sono stato anche temerario, come terapeuta. Quando per arrotondare andavo a fare le guardie nella clinica privata della moglie del direttore, al tempo in cui si faceva “la cura del sonno” (anni sessanta), dopo la colazione portavo tutti sul prato appena fuori la villa, pazienti, infermieri e chiunque altro ospite. La magia si sprigionava quando appariva il pallone e ci mettevamo a giocare. Fare gruppo, fare squadra, assegnare i ruoli, portieri, attaccanti difensori, muoversi, sudare, passarsi la palla, era molto meglio della psicoterapia familiare di Palo Alto o cercare il processo di individuazione junghiano.

Tanti ricordi i miei, molti possibili errori della memoria. Quasi una malattia professionale dei distruttori di manicomi. Quella che la Setaro, con una preziosa invenzione linguistica definisce lo smontaggio continuo delle “fallacie” manicomiali nel passo seguente «Avere infranto le fallacie di senso della psichiatria istituzionale, aver rotto un modello metteva di fronte a una pericolosa ambivalenza. Da un lato una norma che aboliva un manicomio, dall’altro le macerie di un paradigma conoscitivo e tecnico che recalcitrava per essere riformulato»31, si attaglia perfettamente al vissuto di coloro che hanno attraversato quell’epoca compiendo l’estenuante battaglia. Una guerra vera e propria per imporre le “buone pratiche” e il “rispetto umano”. Cose semplici, in fondo, ma che smuovono interessi enormi di consorterie mondiali che le impediscono. Mi ci ha fatto pensare Benedetto Saraceno, psichiatra di formazione basagliana arrivato all’OMS di Ginevra per dirigere la Divisione di salute mentale e Dipendenze Patologiche per oltre un decennio (1999-2010). Dopo il suo geniale “Fine dell’intrattenimento” (Etas, 1995) a testimonianza del fatto che la presa in carico della follia, da Basaglia in poi, è divenuta una operazione totale di tremenda complessità psico-socio-economica, si è ripetuto recentemente sul bene e sul male delle istituzioni mondiali internazionali con un originale noir “Le lingue della paura32.

Un aspetto simbolico molto importante, colto nel prezioso libriccino della Setaro è quello sottolineato alla nota 27, laddove scrive che «A Trieste il manicomio straripava, si rompeva». Il senso della rivoluzione basagliana consisteva proprio in questo essersi accorto della vetustà e dell’inutilità dell’istituzione manicomiale. Mi pare di potervi aggiungere che la “rottura” di un luogo di dannati, a cui nessuno aveva mai pensato prima, di potervi o dovervi porre mano, se non altro, per semplice restituzione di dignità agli esseri umani che lo abitavano, ha “rotto” molte altre istituzioni, a catena. Soprattutto quelle familiari coinvolte nella vicenda: curanti, curati, custodi, custoditi, amministratori, amministrati, mogli, mariti, figlie, figli, donne, uomini, colleghe, colleghi. Uno straripamento enorme della cattiva coscienza della borghesia e dei pilastri istituzionali su cui si è sempre retto, il tartufismo di Molière. Vorrei ricordare due episodi emblematici, di uno dei quali sono stato testimone, l’altro, invece, l’ho letto su “Il Piccolo”, quotidiano triestino. Il primo è la restituzione di senso e di parola alla follia: «Il malato mentale è sempre l’ultimo che viene a sapere di esserlo», ebbe a dire un paziente che aveva avuto il coraggio di prendere la parola a un’assemblea al XVII Pad. del Santa Maria della Pietà. Il secondo è un atto di denuncia di una Collega: Assunta Signorelli, primaria di psichiatria, basagliana di ferro, aveva aperto e diretto il servizio psichiatrico d’urgenza di Trieste, nel primo anno. Tempra di combattente risoluta e scomoda, andò in pensione per protesta nel febbraio 2014, lamentando di essere stata fatta fuori per motivi potere. La notizia fece scalpore, uscì su “Il Piccolo”, di Trieste: «La psichiatria a Trieste gestita da quattro capetti in una stanza»33. Morirà tre anni dopo a 69 anni. La rimpiangono ancora, per la sua schiettezza, il suo parlare fuori dai denti. Assunta Signorelli poneva con decisione sul piatto rovente delle trasformazioni, semplicemente la questione di genere!

Mentre sto riflettendo sul perché non siano stati trovati i denari giusti per continuare “le buone pratiche” e dunque siano state interrotte, mi tornano alla mente i buoni suggerimenti ascoltati da tanti compagni di viaggio: Bruno Callieri, Aldo Giannini, Eugenio Borgna, Paolo Perrotti, e prima ancora da Lamberto Longhi, anche sul piano interpersonale, che è clinico ed empatico allo stesso tempo. Bisogna saper ascoltare la sofferenza mentale, dicevano, toccando diverse corde, intercettare la lunghezza d’onda con la quale viene comunicato il “dolore psichico”. Tentare di precedere il gesto disperato, estremo, l’acting out, se possibile. O almeno scrutare laddove si può … cogliere il varco … rammentarlo almeno, nel senso di Montale, Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera! / Il varco è qui? 34. Poche cose. Son quà … Vediamo se ho capito … se possiamo fare qualcosa insieme o se puoi proseguire da solo, adesso che abbiamo rintracciato il sentiero interrotto (l’holzevege), secondo la metafora heideggeriana … Spesso si sente dire … era sempre tutto tranquillo … mai un grido … chi avrebbe mai immaginato … non ha lasciato scritto nulla… Questo è lo scacco peggiore che possa capitare al clinico, all’operatore psichiatrico. Non essere arrivato in tempo per aiutare ad afferrare il bandolo dell’esistenza … Quando succede, purtroppo, quello è il paziente che ti ricordi per tutta la vita.

Note.

1. Lo ricordo perfettamente perché conservo il congedo straordinario di quattro giorni, a stipendio intero, dell’Amm Prov romana firmata dall’Assessore S. Micucci e dal presidente L. Mancini. Con “Nino” Lo Cascio rientravamo da Parigi dove avevamo presentato la “Legge Basaglia”.

2. Scrive Giovanni Rossi «Quelli della mia generazione che raggiungevano Trieste, dove si stava chiudendo il manicomio, entravano certo in contatto con una straordinaria esperienza collettiva di trasformazione, ma anche con la formidabile forza positiva di un instancabile Franco Basaglia». Basaglia a Mantova – Forum Salute Mentale (www.news-forumsalutementale.it ›). 18 set 2010.

3. Marica Setaro. Fare l’impossibile, Donzelli, 2024, p. 4

4. Ci fu, tra gli altri avvenimenti storici mondiali un movimento studentesco e operaista pressoché ubiquitario in cui gli studenti francesi del maggio 1968 gridavano a Parigi lo slogan «Ce n’est qu’un début continuons le combat!» Cambiò qualcosa? Secondo alcuni, si: uno straordinario momento di crescita civile dello spirito critico; secondo altri, no: un conformismo di massa, e una finestra di pericolosa eversione

5. Giuseppe Francesconi, Antonino Lo Cascio, Paolo Marino, Sergio Mellina (1974). l’Art. 4, ovvero l’intruso che contraddice l’istituzione. Atti del Convegno di studio “L’ospedale psichiatrico. Prospettive per un superamento della realtà attuale”. (Volterra 20-21 aprile 1974) Pacini Editore, Pisa 1975, pp. 102-108.

6. A.M.O.P.I. sigla sindacale, acronimo di Associazione Medici degli Ospedali Psichiatrici Italiani.

7. Giovanni Alemà un livornese di lontane origini basche, poliglotta, grandissimo maestro di neurologia, che non avanzò mai pretese sulla psichiatria, anzi, operava una epoché sul ragionamento diagnostico degli psichiatr. Era un battutista straordinario, preferendo i giochi di parola come i “witzelsucht” dei moriatici frontali, perfettamente consapevole dell’effetto boomerang. Ironizzava anche sulla sua ipoacusia. Girava in bicicletta con la molletta a stringere il bordo dei pantaloni per la città universitaria (sede della Neuro) e il Policlinico (sede della Facoltà di Medicina). Veniva da Piazza Bologna dove abitava, e lo trovavi di primo mattino non solo al primo piano, quello neurologico, dell’Istituto di Gozzano, ma a tutte le visite nei quattro repartini neurologici e, se in clinica c’era stato un decesso, anche al tavolo anatomico di Anatomia patologica del Policlinico Umberto I, sede incontrastata di “Toto”, il vespillone, per le esercitazioni private sottobanco. A me capitò una volta di essere presente, perché avevo compilato la cartella di una paziente di Sezze, dove nella diagnosi all’ingresso, avevo sottolineato che era entrata dopo una indigestione di carciofi. Poi l’avevamo persa per una patologia neuro-vascolare da chiarire. Ricordo benissimo la voce beffarda del Prof. Alemà esclamare: «Vediamo un po’ questa sindrome vegetariana del carciofo di Mellina». (Alludeva al bisticcio tra i carciofi e le mele del mio cognome). Per gli specializzandi la presenza (mattina e pomeriggio) era obbligatoria, comprese le guardie. Un collega, cui piacevano le automobili, si era comprato una potente macchina sportiva e tutti gli specializzandi erano un po’ invidiosi perché la prima cosa che aveva fatto, uscito dal concessionario, era di venire in Istituto per farla vedere. Il giorno dopo chiese di essere sostituito, per malattia. Ancora sento fulminea la voce di Alemà: «sarà una cilindruria da grossa cilindrata». Severo, esigente onestissimo meritocratico, ma anche generoso, brillante e stimolante per gli allievi migliori di cui era capace di far crescere e valorizzare le qualità migliori. Cfr. Donata Guidetti, Gianandrea Ottonello, Giancarlo Di Battista. In ricordo del Prof. Giovanni Alemà www.snoitalia.org

8. Necrologio di Giambattista Belloni. (www.aspi.unimib.it › collections › entity › detail 2 lug 2020.

9. Elliot Spiro Valenstein. Cure grandiose e disperate: l’ascesa e il declino della psicochirurgia e di altri trattamenti radicali per la malattia mentale (Great and Desperate Cures: The Rise and Decline of Psychosurgery and Other Radical Treatments for Mental Illness). New York: Basic Books, 1986.

10. Nadvirna è oggi nell’oblast ucraino di Ivano-Frankivs’k in Ciscarpazia.

11. Circa l’antagonismo tra epilessia e schizofrenia, sembra che circolassero a quel tempo, nei laboratori istologici delle camere mortuarie degli istituti psichiatrici, “vetrini” di tessuto cerebrale con immagini differenti tra un cervello schizofrenico e un cervello epilettico. Vale a dire, preparati istologici, che avrebbero dimostrato una eccessiva rarefazione del complicatissimo sistema delle “cellule gliali” negli schizofrenici, e una eccessiva proliferazione negli epilettici. Una vera e propria pseudo-notizia come più volte sostenuto dal mio maestro Mario Gozzano. Da tenere presente che il tessuto gliale non è “parenchima” ma “mesenchima”, ossia sostiene, nutre, connette, trofizza e forma. Non ha niente a che vedere coi neuroni, ovvero il “parenchima cerebrale”, l’apparato cellulare che comanda, esegue, informa.

12. Il titolo originale è: Jack El Hal “The lobotomist: a maverick medical genius and his tragic quest to rid the world of mental illness“. Publisher Hoboken, N.J.: John Wiley & Sons 2005. Si racconta che Walter Freeman, un neurologo di Filadelfia e James Watts, un neurochirurgo di Lynchburg, Virginia, si conobbero nel 1935 e crearono un sodalizio per rendere accessibile anche ai malati psichiatrici più “difficili”, un intervento di lobotomia; praticamente “vuoti a perdere”. In questo libro, El Hal, riporta di aver rintracciato un lavoro scientifico pubblicato da W.J. Freeman e J.W Watts, nel 1936. Quivi, gli autori riferiscono di aver modificato la tecnica di Moniz e annunciano che da quell’anno, anche negli Stati Uniti d’America, si inaugura l’era della lobotomia. Per un giornalista che fa della psichiatria storica, sempre in America, c’è anche un celebre professore universitario di psicologia biologica, che fa della psichiatria storica: Elliot Spiro Valenstein, già sopra citato. Ebbene, curiosando fra i suoi 10 libri più importanti ne emerge un raffinato tecnico del mestiere, che partecipa alla antichissima guerra tra psicologi e psichiatri, con esclusione degli psicoanalisti e dei socio-psichiatri essendone entrambi reciprocamente ricambiati col silenzio. Valenstein, morto il 12 gennaio 2023 all’età di 100 anni, è stato nel mondo accademico americano, fra i più autorevoli esponenti della bio-psicologia, e campione della stimolazione elettrica diretta del cervello umano. Il suo libro: “Controllo cerebrale: un esame critico della stimolazione cerebrale e della psicochirurgia” (Brain Control. A Critical Examination of Brain Stimulation and Psychosurgery) Ed: Hoboken, NJ, U.S.A., J. Wiley & Sons, Incorporated, 1973, per inciso, è caldeggiato dall’editore, il solito astuto, John Wiley, incorporatore di riviste scientifiche in difficoltà. Tramite un’abile operazione commerciale (2006-7), si comprerà la vecchia Blackwell Publishing, attiva dal 1939, la ditta che pubblicava opere scientifiche, tecniche e mediche. Per farsi un’idea del clima di feroce contrapposizione americana delle agenzie che dovrebbero occuparsi della sofferenza mentale potrebbe essere utile sfogliare anche, del sullodato Eliot S. Valenstein: Dare la colpa al cervello: la verità sulla droga e sulla salute mentale. (Blaming the Brain: The Truth About Drugs and Mental Health) New York: Free Press, 1988.

13. Si veda Marica Setaro. The Gorizia Experiment. Genesis of the Therapeutic Practices in Basaglia’s Psychiatric Community (1962-68), in Gandula Gahlen, Henriette Voelker, Volker Hess, Marianna Scarfone (a cura di) Doing Psychiatry in Postwar Europe Practices, Routines and Experiences, Manchester University Press, Manchester 2024.

14. Setaro, Fare l’impossibile, op., cit., p. 8-9 e infra

15. Ibid., p. 8

16. Franco Basaglia. Il corpo nell’ipocondria e nella depersonalizzazione. La struttura psicopatologica dell’ipocondria «Riv. Sper. Fren.», 80, 1, 1956. In proposito si veda anche l’articolo di Giovanni Pizza (antropologo allievo diretto di Cirese e Seppilli). La questione corporea nell’opera di Franco Basaglia. Note antropologiche. Rivista Sperimentale di Freniatria. CXXXI, N° 1, 2007, pp. 49-67.

17. Si trascrive da “Il Lavoro Neuropsichiatrico”, Vol. XXIX, anno XX, fascicolo I e II atti del XXIX Congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria – Pisa 24-27 maggio 1966. Calendario: martedì 24 maggio ore 10 Inaugurazione ufficiale, ore 12 discorso commemorativo del Prof. Ugo Cerletti da parte del presidente della SIP prof Mario Gozzano, ore 13 ricevimento Amministrazione provinciale Pisa, ore 15 Presidenti: Giambattista Belloni, Giuseppe Gomirato, Michele Torre, Franco De Franco, Umberto De Giacomo, Riccardo Bozzi, Gino Simonini. I tema di relazione “Nosografia delle psiconevrosi”, suddiviso da Simone Rigotti (direttore della giornata), tra i cinque relatori: Egli stesso, in tre parti (pp. 73-186); Franco Basaglia “L’ideologia del corpo come espressività nevrotica. Le nevrosi neurasteniche” (pp. 187-243); Gian Carlo Reda “La psiconevrosi ossessiva”; Franco Giberti “Le depressioni nevrotiche”, Marcello Vacchini (in coll. con Carlo Citterio) “Le psiconevrosi sintomatiche” (pp. 245-309). La discussione del primo tema di relazione (pp. 311-352) è diretta da Belloni che inizia dando la parola a Vito Maria Buscaino e si conclude con la risposta fredda e formale al suo ex-allievo, che pare una discolpa, dove pronuncia il cognome una sola volta per chiamarlo: «Basaglia – Parecchie critiche sono state rivolte all’impostazione generale da me data al problema, critiche che si potrebbero riassumere in una presa di posizione contro il linguaggio fenomenologico adottato ed il modo di avvicinare il tema da un punto di vista socio-psichiatrico. […] mi scuso perciò con i professori Callieri, Cazzullo, Gentili, Rossini, Torre e con quanti altri sono direttamente intervenuti alla discussione, di non aver qui risposto specificamente ad ogni singolo intervento, sperando di aver in tal modo più chiaramente formulato la mia impostazione nei riguardi del problema delle nevrosi e, in particolare, delle sindromi neurasteniche». L’incipit e l’explicit di questa paginetta finale è bastevole per misurare quanto i due mondi del maestro e dell’allievo fossero incommensurabilmente lontani.

18 . Una vera tragedia sarebbe stata l’eventualità che il direttore ti fosse venuto a mancare prima della collocazione in cattedra, come capitò al povero Aldo Giannini, che perse Giuseppe Pintus, direttore a Pisa, quando non aveva ancora compiuto 60 anni.

19. … la vera storia di un’impensabile liberazione – Unife www.unife.it › eventi › novembre › Sinossi_Tra_parentesi Gorizia, 16 novembre 1961. “Un medico di 37 anni entra nel manicomio di Gorizia. Ci sono viali alberati, muri, reparti, e porte chiuse. Se uno volesse avere maggiori ragguagli da chi c’era, con Basaglia, fin dagli inizi, potrebbe leggere “All’ombra dei ciliegi giapponesi”, Edizioni Alphabeta, Gorizia 1961, il libro di Antonio Slavich, che lo raggiunge qualche mese dopo.

20. Il Post (www.ilpost.it › massimocirri › 2018/11/15 › franco-basaglia-filosofo 15 nov 2018 • Io, quella mattina di novembre del 1961 la ricordo benissimo, di anni ne avevo 29, ero appena rientrato da un lungo viaggio di nozze, durato un mese, in giro per l’Europa. Avevo ripreso servizio in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali della Sapienza di Roma al 23 di viale dell’Università, come assistente universitario volontario (AV) di Mario Gozzano.

21. – Caterpillar Radio2 – Facebook (www.facebook.com › caterpillar.radio2 › posts › 15 nov 2018 •

22. Setaro, Fare l’impossibile, op., cit., p. 22.

23. Ibid., p. 25.

24. Ibid., p. 24 e infra.

25. Le prove erano tre: a) discussione dei titoli, b) prova clinica sul malato, c) lezione accademica di 45 minuti con sorteggio del titolo all’istante, e 24 ore di tempo per prepararla. Io, in qualità di Assistente Volontario, durante il periodo di Gozzano, Floris, Alemà, Vizioli (successori di Cerletti, Bini e Challiol), avevo l’incarico di predisporre i malati e le cartelle dei pazienti scelti dall’Aiuto per la prova pratica, corredati di eventuali indagini cliniche nel caso fossero richieste. La commissione, era composta da cinque membri, titolari di Cattedra, uno in funzione di presidente.

26. Quel periodo di virulente polemiche contro Franco Basaglia, soprattutto per gelosie sfacciate lo ricordo perfettamente, perché noi di Roma giravamo parecchio. Ho sotto gli occhi il “congedo straordinario con assegni” firmato dal presidente dell’Amministrazione Provinciale di Roma (Lamberto Mancini) per partecipare al Convegno “I problemi dell’assistenza psichiatrica nell’ambito della riforma sanitaria” che si terrà a Parma il 24.3.1977 ed al Convegno “Analisi epistemologica del concetto di normalità e di devianza in psicopatologia” che avrà luogo a Verona nei giorni 25-26-27 marzo 1977.

27. Il procuratore della Repubblica di Gorizia chiese formalmente l’incriminazione penale di Franco Basaglia, per omicidio colposo, quando si trovava direttore a Colorno, tanto per dire che a Parma le disgrazie non si presentarono da sole, se ad aiutare per la discesa, c’erano i compagni comunisti. La denuncia fece scalpore perché rimetteva le mani nel verminaio d’inizio secolo (Legge 14 febbraio 1904 n. 36) che sanciva l’internamento a vita per tutte le persone afflitte da malattia mentale e dunque “pericolose a sé o agli altri o … di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Era successo che nel settembre del 1968 un anziano contadino dimesso dal manicomio di Gorizia, aveva ucciso la moglie, appena arrivato a casa, con un coltello. È triste constatare che le riforme passano i femminicidi no.

28. Setaro, Fare l’impossibile, op., cit., p. 16.

29. Setaro Fare l’impossibile, op., cit., p. 14.

30. Setaro Fare l’impossibile, op., cit., p. 42-43.

31. Ibid.

32. Benedetto Saraceno. Le lingue della paura. Alphabeta Bolzano, Travenbooks, 03/2022.

33. Assunta Signorelli (www.ilpiccolo.gelocal.it › trieste › cronaca › 2014/02/21 › news › «La psichiatria a Trieste gestita da quattro capetti in una stanza» … «La comunicazione serve solo per costruire un potere personale, non c’è spazio per le donne»

34. Eugenio Montale. La casa dei doganieri.

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  1. Redazione Psychiatry On Line Italia

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