ABSTRACT
This article, written on the occasion of the centenary of Franco Basaglia’s birth, examines the possibility that his opinions may have also extended to the field of drug-induced psichopathology. Lacking first-hand evidence, it is claimed that the overall cultural climate, the “Basaglia climate”, has acted indirectly, and in different ways, on the drug addiction issue and is related to contemporary phenomena of liberal practice found in the western world during the same years.
Questo contributo, redatto in occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia, prova a indagare intorno a una questione apparentemente periferica rispetto alla caratura complessiva della sua “rivoluzione” del pensiero e delle prassi psichiatriche vigenti al tempo: ci riferiamo alla possibilità che anche nel campo delle tossicomanie si sia avvertita la sua influenza. Per quanto sia difficile valutarne specificamente l’entità, la posizione qui sostenuta è che, nonostante le resistenze opposte da un sistema rigido e moralistico, il nuovo clima si infiltri lentamente nei servizi pubblici delle dipendenze; magari a partire dall’azione di singoli operatori sensibili che si pongono al servizio di istanze critiche nella gestione dei pazienti.
Di tanto in tanto, ricondurci alle figure significative e ai momenti salienti della nostra storia ben oltre la mera intenzione celebrativa ci consente di illuminare ex post l’andamento diacronico che ci ha collocati là dove siamo; permettendoci, inoltre, di riprendere fili interrotti e di comprendere la sostanza nucleare delle nostre azioni nell’attualità, senza cedere all’imperio delle istanze aggiornate, spesso regressive e semplificatorie. Quanto la lezione di Franco Basaglia abbia influito nel modificare un sistema oppressivo e rinchiuso nelle sue inscalfibili certezze è cosa fin troppo nota per doversi soffermare in questa sede; un testo come L’istituzione negata (1968) è ormai un libro di culto e un imprescindibile classico della letteratura psichiatrica. Tuttavia una questione che occorrerebbe porsi riguarda la permeabilità di quel pensiero, e delle relative pratiche, nelle labirintiche periferie del mondo della Salute mentale. Ci riferiamo in particolare alle Tossicomanie, o, in termini attuali, alle Dipendenze patologiche. La domanda sottesa a questa riflessione dunque sarebbe: l’influenza delle teorie e delle pratiche sostenute dallo psichiatra veneziano è riscontrabile anche in quell’ambito apparentemente marginale della Salute mentale costituito dalle tossicomanie, oggi anch’esse soggette a una modificazione del proprio statuto, rilevabile nello stesso mutamento definitorio in Dipendenze patologiche?
Stornata dal peso ingombrante delle contraddizioni dell’assistenza psichiatrica manicomiale, dalla prepotenza interpretativa attraverso cui si concepiva la condizione psicotica e dalla disumanizzazione alla base della quale si interveniva sulla malattia mentale, la psicopatologia tossicomanica non fu oggetto particolare di attenzione presso gli innovatori, se non tangenzialmente. Lo stesso Basaglia vi accenna soltanto in testi sparsi, interviste e conferenze si veda ad esempio la voce “Farmaco/droga” dell’Enciclopedia Einaudi, redatta insieme a Franca Ongaro Basaglia (1979) , riportando questa condizione alla marchiatura, effettuata dalla società, dei fenomeni di “devianza”; del resto, per la società, deviante è anche il folle, commenta Basaglia (Di Paolo, 2004). Il che non implica asserire semplicisticamente che la società produca causalmente la follia, pena il rimanere impigliati in assunti positivistici. La critica dell’ideologia sottesa ai meccanismi di esclusione sociale costituisce l’interesse e promuove l’azione culturale basagliana; la sua visione accomuna, di necessità, situazioni differenti da un punto di vista psicopatologico, coerentemente con la sua fenomenologica “messa in parentesi” dello statuto implicito di malattia. Il punto che va sottolineato, però, è che in quei tempi la tossicodipendenza rimase schiacciata sulla sua supposta natura deviante e divenne pertinenza privilegiata della riflessione sociologica.
Ritornando al quesito di partenza dopo aver accennato ai riferimenti basagliani diretti al tema e rintracciabili in testi di diversa origine, giungiamo a comprendere che la questione riguarda soprattutto la ricezione delle sue tesi e della nuova cultura che si impose prepotentemente sui logori equilibri dell’assistenza psichiatrica. Quindi è forse necessario porre la questione in un altro modo e chiederci se, a parte ogni considerazione diretta, non fosse proprio la “temperie basagliana”, quell’atmosfera culturale che cominciava a diffondersi nel pensiero collettivo e nelle istituzioni pubbliche, a penetrare dovunque ci fossero le condizioni adatte per proliferare. Nel mondo della tossicomania questo nuovo spirito faceva certamente fatica a esprimersi, sia perché era ancora fraintesa almeno in Italia la natura psicopatologica di tale condizione, sia per l’appalto del “trattamento” ad agenzie di tutt’altra natura: nel migliore dei casi ad agenti di medicalizzazione, altrimenti a promotori di una via moralistica alla questione. Non possiamo per altro escludere che una generazione di giovani psichiatri sensibili, che a quel punto si fosse trovata a lavorare nei SerT, non abbia portato con sé un’aria nuova, ma è difficile dimostrare l’entità di tale fenomeno al di là di singoli casi noti. È possibile che l’influenza di certe idee si sia fatta strada in modo indiretto, come contagio culturale e sensibilità acquisita all’interno della movimentata dinamica sociale di quel periodo storico. Questo potrebbe voler dire che l’azione di rinnovamento sia stata propriamente implicita e che si sia avvantaggiata di opportunità varie ed estrinseche per esprimersi.
I tempi erano comunque favorevoli a un cambio di paradigma. Alcuni punti fermi tradizionali cominciavano a essere messi in discussione anche nel campo delle dipendenze; analoghi e correlativi processi di modernizzazione interessavano con forza il mondo anglosassone. Zinberg (1984) smarcava l’assunzione di sostanze psicotrope da parte dei pazienti dal dogma dell’astensione completa, adombrando la possibilità di un uso controllato. La diffusione, in anni immediatamente successivi, della pratica del colloquio motivazionale secondo Miller e Rollnick (1991) promuoveva un diverso rapporto che poteva essere intrattenuto con gli assistiti: non più direttivo e sottilmente autoritario, ma empatico e responsabilizzante. L’affermarsi della cultura della Riduzione del danno, poi, rappresentò un’ulteriore spinta in questa direzione.
Ma Basaglia in che modo entra in tutto questo? Non è rilevante stabilire se gli autori citati conoscessero il lavoro dello psichiatra italiano che tuttavia ha sempre goduto di una notorietà internazionale e se una qualche sua influenza fosse presente e più o meno avvertibile, anche se solo tendenzialmente e culturalmente. Ma certamente i tempi inducevano a mettere in discussione molte sclerotizzazioni e diversi limiti ritenuti invalicabili. Forse però è più importante rintracciare nel pensiero del nostro autore alcuni punti che meriterebbero di essere affrontati ai fini della domanda che ci siamo posti inizialmente.
Partiamo innanzitutto dalla considerazione che il lavoro basagliano si situa in un momento felicemente propizio ai mutamenti. Lo spirito di quegli anni, che col senno di poi si ricorda come “l’epoca del Sessantotto”, è il naturale scenario entro cui accadono molte cose nuove; a riguardare quel passato dalla postazione incerta dell’attualità, ci sembra di poter cogliere in tutta la sua evidenza un dinamismo sociale e culturale che tentava, tra fallimenti e successi, di operare una diversione radicale dal grumo compatto di tradizioni, consuetudini, inerzie e rigidità sul piano del costume, come su ogni livello della cultura. Da qui si originava la possibilità di dare spazio a pratiche alternative e voce a personalità di rilievo; come, d’altronde, a chiunque proponesse idee innovative.
Nella realtà e specificità italiana, tutto ciò si traduceva in importanti conquiste. Pensiamo, per quanto ci interessa in questa sede, alla riforma sanitaria degli anni Settanta e, nello specifico, alla legge 180, corollari delle quali sono due cardini essenziali: l’intervento pubblico e l’assistenza sanitaria territoriale. Da queste stesse idee sorsero, esperienza unica e specifica del nostro paese, quelle strutture che prenderanno il nome di Servizi per le tossicodipendenze (ora denominati SerD). A dire il vero, a causa di alcuni aspetti critici, il mondo delle tossicodipendenze in Italia evitò da subito l’abbraccio rischioso con la psichiatria, favorendo una sostanziale depsichiatrizzazione e provando a circoscrivere autonomamente l’ambito dell’assistenza al problema tossicomanico, con l’effetto collaterale di indulgere in molte occasioni a un conformismo medicalizzante; è altresì anche vero, e lo si è visto in più occasioni, che una cattiva psichiatria può fare danni incalcolabili in questo settore. Questo modello ha funzionato finché ha potuto, ma in seguito è stato messo in crisi dai cambiamenti dei consumi e dall’emergere del fenomeno della cosiddetta Doppia diagnosi. Oggi sarebbe dunque azzardato negare che una dipendenza sia qualcosa che rientri pienamente nella definizione di Salute mentale.
Le differenze cui si è accennato sopra riposavano anche in altre condizioni. Nel caso delle tossicomanie non si trattava, per gli esponenti più liberali, di lottare contro i manicomi reali; qui il problema sembrava essere costituito dai manicomi interni, mentali: erano le gabbie epistemologiche, le restrizioni vigenti nella mentalità anche professionale, alle quali erano sottoposti e vincolati i pazienti. Del resto, se per Basaglia come per altri autori le comunità terapeutiche costituivano una delle possibili risposte alla deriva manicomiale, nelle dipendenze queste strutture erano appaltate ai sostenitori del contenimento mentale, potatori di una pericolosa visione moralistica tutta interna a irrigidite concezioni patriarcali. Negli ultimi tempi anche il mondo delle comunità terapeutiche si è trasformato, perdendo quel carattere pseudo-coercitivo e autoritario, ma siamo ancora ben lontani, almeno nella maggioranza dei casi, da quei luoghi di cura aperti e compartecipati che gli psichiatri democratici intravedevano per i cosiddetti “matti”. Ma ci torneremo in seguito.
Fin qui abbiamo appurato, così ci sembra, che per quanto Basaglia non abbia affrontato specificamente e con approfondita analisi la questione tossicomanica se non inserendola genericamente nel suo discorso critico globale , quella che abbiamo definito la temperie basagliana, e cioè l’atmosfera culturale che ha sostenuto e diffuso i suoi insegnamenti, in un modo o nell’altro sembra aver infiltrato il mondo dell’assistenza alle dipendenze patologiche, magari per vie singolari e per influssi aspecifici; insieme, è giusto dirlo, a concezioni che venivano dall’altra sponda dell’Atlantico e si rivelavano consustanziali per la comune origine critica alle società chiuse e reazionarie. L’abbandono dei presupposti “patriarcali” insiti nelle pratiche classiche e assunti acriticamente, la sentita necessità di studiare i fenomeni sine ira et studio e alcune concrete prassi di cura basate su criteri differenti davano corpo al costituirsi progressivo di una nuova operatività.
A questo punto è opportuno chiedersi in cosa potrebbe consistere, oggi, una prassi che si ispiri nello spirito alle idee fondamentali dello psichiatra veneziano con il necessario adeguamento ai tempi e, naturalmente, fatte salve le specificità di una particolare provincia del mondo complesso della salute mentale.
Partiamo innanzitutto dall’elemento centrale del suo pensiero e del suo agire, da quel radicalismo fenomenologico, come lo definisce Piero Cipriano (2018), incardinato potentemente su un’apertura ardita al problema, così come permessa dall’epoché, dal “mettere in parentesi” il discorso comune su psicopatologia e trattamento. Operazione che in quel momento smascherava i condizionamenti esterni e occulti di una condizione di sofferenza, interpretata astrattamente attraverso categorie generali e spersonalizzanti; veniva così in primo piano quanto le condizioni reali di un ambiente che si supponeva terapeutico fossero in realtà fonte di degradazione e di malessere iatrogeno. In secondo luogo, la “messa in parentesi” decostruiva la dittatura della pseudo-ontologia diagnostica e rischiarava il soggetto sofferente nella sua complessa costituzione, fatta di disagio certamente , ma anche di molto altro; e proprio questa constatazione apriva alla possibilità di cura e di cambiamento. Un’analoga operazione, trasposta nel campo delle dipendenze, permette essenzialmente di raggiungere due ineludibili obiettivi preliminari.
Anteporre a qualsiasi intervento la riduzione fenomenologica implica in prima istanza la messa in discussione dello stereotipo tossicomanico, quell’agglomerato di luoghi comuni che rimandano a una certa immagine del soggetto dipendente; immagine non completamente falsa, costituendo essa quella congerie di tratti di superficie, quella maschera difensiva inautentica che ricopre la singolarità più propria del paziente; solo con l’accesso a quest’ultima dimensione si può contemplare con pertinenza la possibilità della cura. Inoltre, l’epoché è anche ciò con cui si delegittimano i vissuti immediati degli stessi operatori, a volte portatori di una serie di pregiudizi ascrivibili all’immagine sociale di un tale paziente. Senza contare, poi, che anche i servizi per le dipendenze spesso manifestano criticità rilevanti che possono facilmente contribuire a cronicizzare la condizione patologica di partenza, alterandone la realtà effettiva.
Come asserito in precedenza, l’impianto che sosteneva il trattamento delle tossicomanie, all’origine del riconoscimento della loro rilevanza, era nettamente inquadrabile nei rigidi domini della più radicata cultura patriarcale, fortemente moralistica nei presupposti. L’atteggiamento con cui si rispondeva a queste condizioni patologiche era imbevuto di autoritarismo e di rigore inquisitorio. Il paziente era invitato a sottostare a regole a volte arbitrarie, a volte ad alto tasso di violenza morale, e a praticare ogni sorta di autodafé; il risultato, nel “migliore” dei casi, era il formarsi di una coriacea rigidità delle difese nel soggetto. L’epitome di questa cultura si ritrovava spesso nelle Comunità terapeutiche, in cui la gestione era affidata per lo più a operatori non professionali, portatori in molti casi di una generica e corriva valutazione del problema.
Abbiamo già accennato al Colloquio motivazionale, probabilmente l’espressione principe di un cambio di paradigma nell’assistenza alle dipendenze. Com’era avvenuto nelle esperienze psichiatriche alternative, era necessario agire un possibile trattamento all’interno di un’atmosfera empatica e di riconoscimento dell’altro, ponendosi in un’interrelazione che non prevedesse direttività e ruoli di potere. Si trattava insomma di non imporre nulla né di prefigurare obiettivi per conto terzi; nessun confronto, bensì condivisione di percorsi e di risultati desiderabili. Si apriva pertanto la possibilità che il paziente si sentisse responsabilizzato rispetto alle proprie scelte, partecipando alla scena della cura senza concedere alcuna delega in bianco. In effetti, anche i “basagliani” si erano trovati nella necessità logica di coinvolgere i pazienti intorno alla loro stessa cura; aspetto non facile, naturalmente. Ma era di primaria importanza far sì che il soggetto sofferente acquisisse consapevolezza dei propri bisogni e del modo per soddisfarli; gradualmente e tendenzialmente, almeno. Basaglia riteneva che la tossicomania giovanile fosse anche il risultato di mancate risposte a certi bisogni, per le contraddizioni della società. Comprendere questo significava avventurarsi per la strada della consapevolezza e del possibile esito trasformativo.
Allontanandosi dal romantico mito della guarigione, le concezioni degli psichiatri democratici orientavano le prassi in direzione della possibilità che a ciascuno fosse concesso di poter aumentare il proprio grado di libertà, di gratificazione, di partecipazione. Proprio perché non identificabili strettamente attraverso la loro psicopatologia, i pazienti dovevano godere del diritto di sperimentarsi nelle loro potenzialità, diversamente presenti anche laddove la situazione sembrava preclusa a ogni risultato sperabile; così anche progressi di limitata entità avevano il loro senso. Il lavoro della riabilitazione sociale ha implicato proprio questo spostamento d’accento, dalla inesorabilità diagnostica al riconoscimento di abilità residue anche nei casi disperati. Questo dispositivo di cura è sicuramente molto indicato nel lavoro con dipendenti gravi, e per fortuna, per quanto forse ancora timidamente, esso è già presente in alcune realtà. Nelle Comunità terapeutiche che ospitano pazienti in doppia diagnosi buona parte del loro recupero passa attraverso un intervento del genere.
Abbiamo anche fatto cenno al ruolo della comunità come alternativa alla psichiatria manicomiale. I cardini del lavoro comunitario possono riassumersi in alcuni punti essenziali, a partire dalla riconsiderazione del cosiddetto “malato”, bollato da un’etichetta diagnostica che si pretende essere la sintesi descrittiva di un singolo. Per Basaglia la follia, condizione naturale e possibilità dell’esperienza umana, su cui non si può dire mai nulla di definitivo, nel momento in cui entra in contatto con l’istituzione psichiatrica, genera la figura della malattia mentale, a rappresentare una forma sottile di razionalizzazione dell’indicibile e del perturbante. Nel porre la questione di ridare una qualche dignità al paziente, si apre a quel punto la possibilità di considerarlo un soggetto, che oltre alla patologia presenta, accanto ai bisogni essenziali, un insieme di tratti “sani”, fossero anche barlumi e nuclei potenzialmente passibili di sviluppo, i quali si prestano alla realizzazione di forme di integrazione nella realtà sociale, e quindi a produrre competenze e valorizzazione, incentivando al tempo stesso la possibilità di intrecciare relazioni umane soddisfacenti. Come abbiamo visto, il ruolo della riabilitazione psico-sociale svolta da una équipe terapeutica consapevole e integrata, quale strumento per realizzare questo proposito, assume un valore fondante. L’obiettivo primario è dunque quello di restituire i “matti” alla società civile cui di diritto appartengono. Per questo è necessario prevedere una continuità con la realtà esterna, una concezione e una collocazione territoriale dell’assistenza.
Nel campo delle dipendenze patologiche, al contrario di quanto descritto e come abbiamo già largamente sostenuto, il trattamento comunitario, soprattutto all’inizio, aveva assunto spesso una valenza regressiva, dando rilievo a forme di coercizione e di indottrinamento. L’immagine del tossicomane deviante imponeva una consuetudine a indulgere verso pratiche quasi espiative e rieducazioni forzate; da alcuni anni, fortunatamente, nella maggior parte delle strutture comunitarie il clima è cambiato, anche molto, ma è un processo che sarebbe necessario completare fino in fondo. Il dipendente non è certamente visto come un tempo, ma ancora diversi stereotipi si agitano nelle nostre menti. Anche qui la riconquista di una propria soggettività non uniformata a parametri pregiudiziali, né ancorata ai meccanismi tossicomanici è la premessa per la soddisfazione di bisogni e desideri più autentici e per rientrare con maggiore convinzione nella società. Perfino in casi molto gravi e refrattari a progetti di cura più articolati, la Riduzione del danno si presenta come un modo per consentire forme di esistenza seppur minimali, una gestione accettabile dei possibili danni biologici e sociali.
Resta da dire ancora qualcosa su questo tema. Le cosiddette strutture intermedie, intorno alle quali si edificava l’apparato previsto dalla legge 180, con le ben note difficoltà di cui conosciamo peso ed entità, erano pur tuttavia tasselli importanti dell’insieme delineato dalla riforma. Oltre alle comunità, il sistema assistenziale delle dipendenze si gioverebbe non poco dall’esistenza di centri diurni, ad esempio, che nel caso in questione potrebbero essere centri-crisi, di gestione degli eventi acuti, ma soprattutto strutture semiresidenziali in cui effettuare determinati trattamenti e percorsi di vario genere. I SerD nascevano proprio nel momento in cui si affermava una concezione della salute mentale che, come abbiamo visto, tendeva a privilegiare la territorialità dell’assistenza. Nel corso degli anni quest’assunto è stato oggetto di resistenze, perché proprio nel territorio ci sono state forti tensioni scaturite dal discredito di cui “gode” il tossicomane, visto come individuo pericoloso e infido.
Basaglia era ben consapevole degli ostacoli posti alla sua riforma. Oltre alla questione delle strutture intermedie, la società civile non era del tutto disponibile a cambiamenti del genere. Egli sapeva che, una volta riconquistato il suo territorio, il paziente avrebbe dovuto affrontare un clima spesso sfavorevole, con relativi riverberi anti-terapeutici; la libertà concessa dall’aprirsi di un cancello non garantiva di per sé dal penetrare in un nuovo incubo, in un ambiente le cui dinamiche erano differenti da quanto ci si aspettasse. Qualcosa del genere riguarda anche le tossicomanie. Uscire dall’ambiente protetto e ovattato di una comunità terapeutica significa a volte scontrarsi con le contraddizioni del mondo esterno: lo stigma, le difficoltà familiari e sociali, il trovarsi a ricontattare le figure del mondo tossicomanico e i luoghi della sua storia. Inoltre, spesso il mondo ipermoderno presenta un profluvio di stimoli che incentivano, come sappiamo, una cultura del godimento che contrasta ferocemente con le piatte e semplificate dinamiche che regolano la vita comunitaria. La dimissione da un progetto terapeutico anche ben condotto non dovrebbe avvenire con la brutalità di un taglio netto, ma sarebbe giusto prevedere, appunto, l’intervento di quelle strutture intermedie e di quei passaggi cui abbiamo fatto cenno.
Nelle Conferenze brasiliane (1979), Basaglia accenna brevemente anche al tema della psicoterapia, soprattutto all’interno della domanda che si chiede se e quanto le tecniche psichiatriche si pongano a strumenti di liberazione o di oppressione. Pur non essendo particolarmente interessato all’argomento e nonostante sia piuttosto critico in particolare con la psicoanalisi, vista come tecnica organica alla borghesia, che cura solo benestanti e chi possiede un certo livello di conoscenze , egli asserisce che la psicoterapia, in sé, non è mera tecnica di dominio, ma può essere tale, oppure il suo contrario, sulla base della relazione medico-paziente. Laddove questa relazione sarà improntata a determinare dipendenza e non reciprocità, ci sarà spazio sufficiente per produrre un effetto di dominio. D’altra parte, se l’istituzione non può mai rispondere veramente alle esigenze dei pazienti e produce innanzitutto controllo, il rapporto curante-curato, al contrario, può realizzare un autentico incontro tra due soggetti, se riesce a creare al suo interno una certa tensione, uno stato comune al terapeuta e al paziente; se non c’è tensione non c’è vita nel rapporto di cura. Riferendosi, quale esempio, a Moreno, riconosce a quest’ultimo la capacità di essere un perfetto stimolatore di contraddizioni tendenti all’apertura delle situazioni, benché al tempo stesso sia stato anche un abile manipolatore.
Da quanto riportato, pur nella rimarcata diffidenza sulla psicoterapia, Basaglia ci indica qualcosa di interessante: sembra che le sue perplessità riguardino in particolare il contesto allargato cui essa si riferisce e certe suggestioni tecnicistiche, ma dalle sue parole si ricava una salda fiducia nel rapporto medico-paziente, purché vengano soddisfatte alcune condizioni. Anzi, questa relazione ha possibilità concrete di agire in un senso “liberatorio”, ben oltre i vincoli che le istituzioni hanno costitutivamente e con regolarità riproducono. Naturalmente i due attori della scena terapeutica, nella loro reciprocità, dovranno essere in grado di esprimere una tensione, che origina anche dal saper determinare contraddizioni che possano consentire l’apertura a qualcosa di nuovo. Ci pare che questo programma apparentemente minimalista si situi alla base di ogni psicoterapia che voglia fondarsi su un impianto fenomenologico. Psicoterapia ma noi preferiamo definirla cura fenomenologica dei pazienti gravi e complessi, come quelli che sono stati indiretti protagonisti della storia basagliana. La centralità della relazione, la reciproca partecipazione al di fuori delle seduzioni di potere, il riconoscimento della soggettività del paziente anche grave, ma anche una tensione verso le contraddizioni, a dimostrare che non si tratta di pacificare o di edulcorare l’incontro con un’imbelle patina di amabilità: queste le indicazioni che ci sembra di poter trarre da poche e saltuarie affermazioni. E di una tale cura si gioverebbero anche quei pazienti affetti da gravi forme di dipendenza, come del resto concrete esperienze in tal senso ci dicono ormai da tempo.
Pur nella sacrosanta esigenza di empatia e di accoglienza, del mantenimento di un atteggiamento aperto e umanizzante soprattutto nei confronti di quella soggettività assoggettata che è costituita dal paziente “difficile”, onde medicare le sue ferite interne con quella sorta di risarcimento che gli è dovuto, non si può ridurre l’incontro terapeutico a questo aspetto ed è necessario che alcuni elementi contraddittori si facciano strada e prendano vita. Contraddizioni, si badi bene, che non si riferiscono esclusivamente ai due protagonisti della cura. Infatti tale rapporto non è qualcosa di puramente privato che riguarda due persone in interazione. La relazione avviene all’interno di un sistema sanitario organizzato in una certa forma, il quale a sua volta rimanda alla più allargata realtà sociale in cui essa si trova ad agire e a farci i conti. I punti di forza argomentativa del pensiero di Basaglia vertono proprio sulla consapevolezza della doverosa attenzione che occorre prestare ai temi sociali, politici, economici; la critica alla psicoanalisi si basava primariamente su aspetti del genere.
È imprescindibile riferire queste osservazioni anche alla situazione odierna. Un libro recente, Manifesto della cura, coglie questi aspetti, riferendoli agli equilibri economici e anche politici del capitalismo neoliberista, dell’individualismo che trionfa in un mondo privo di forme sostanziali di socialità e di senso della comunità. In tale scenario, parlare di relazione di cura e, in effetti, oggigiorno se ne parla molto spesso implica riferirsi a una situazione equivoca e ambivalente, essendo necessario fare cenno allo stesso tempo all’incuria con cui il mondo tratta anche la sofferenza. Promozione del sistema privato ai danni di quello pubblico, drammatica disuguaglianza nell’accesso all’assistenza, sfruttamento; sono temi che risuonano anche nella nostra più ristretta realtà e che dovremmo tenere nella giusta considerazione, pena lo svilimento del nostro lavoro, riproducendo nei fatti le condizioni per una cura inautentica. E questo discorso riguarda ogni settore della salute mentale, anche il campo delle dipendenze patologiche, dove per la verità il privato rimane ancora subalterno e a volte si limita a promuovere interventi costosi e sostanzialmente poco efficaci.
Concludendo, è giusto notare che la temperie basagliana, come l’abbiamo definita, è ormai situata cronologicamente in un luogo piuttosto lontano della storia sociale. Oggi molte cose sono cambiate, certi giudizi possono essere riveduti, l’impostazione alla base delle esperienze si mostra molto legata al periodo storico in cui tutto questo è avvenuto. Il mondo stesso è cambiato e avvertiamo a volte l’esigenza di altre priorità, nel nostro stesso posizionarci come agenti della cura. Tuttavia, ritornando circolarmente all’inizio, questa immersione nel passato, in una fase emblematica di un periodo forse eroico e certamente avvincente, ci ha consentito di ripensare a questo innovatore, amato e a volte contestato, e di riprendere le sue intuizioni; da una parte per indicare un possibile influsso su quel settore della salute mentale che oggi definisce la psicopatologia delle dipendenze patologiche, e per un altro verso affinché ci si possa ricongiungere a quelle esperienze per un ripensamento doveroso intorno alle nostre strategie assistenziali. E non ci pare che sia uno sforzo inutile, questo.
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