Nelle pieghe di un dire comune, un’occasione per volgersi a Severino e Heidegger.
Non è raro imbattersi in una differente versione – non è chiaro quanto frutto di un refuso, di un fraintendimento basato sull’allitterazione o di un falso ricordo – del più originario “chi muore giace e chi vive si dà pace” in cui il “giacere” si muta nel “tacere”.
“Chi muore tace e chi vive si dà pace”, dunque.
Questa versione alternativa del noto motto popolare mi ha sempre pungolato con il suo – forse involontario – tratto epigrafico, drammatico e quasi poetico.
Mi pareva inoltre d’intuire confusamente che serbasse in sé alcune risonanze poste ben al di là della sua superficie semantica.
Come tutti i detti della stessa specie potrebbe certo richiamare, in chi tenda a guardare con diffidenza alle sentenze ricavabili da un dire più o meno comune destinato alla ripetizione pedissequa, un certo sapore stantio, come quelle caramelle, rimaste a lungo in una credenza, che, una volta masticate, sprigionano un retrogusto di chiuso e per di più si attaccano fastidiosamente ai denti.
Ma se si provasse a scandagliarlo lasciando emergere sfumature che una pregiudiziale sufficienza intellettuale tenderebbe a lasciare sommerse, riuscirebbe forse a svelare profondità che si farebbe fatica a riconoscergli se lo si limitasse alla mera attestazione di evidenze immediate riguardanti la vita e la morte.
È esperienza comune che chi muore, se non è stato in vita un individuo celebre o famigerato, o uno dei pochi o pochissimi “immortali” della storia dell’uomo, lascia intorno a sé un certo alone, più o meno forte ed esteso, consistente nel cordoglio, nei ricordi e nelle testimonianze di quelli che lo hanno amato od odiato o anche solo conosciuto.
Nella sfera più vicina all’estinto anche le stesse cose – gli oggetti – che egli utilizzava o toccava, costruiva o collezionava, sembrano evocarlo (“son le cose, prolungano te”, recita una splendida canzone di Battisti-Panella).
Questo alone s’allarga più o meno a seconda della proiezione sociale emanata in vita; in altro modo si riduce alla pur degna cerchia ristretta dei familiari e degli amici.
Quali che siano la sua consistenza e la sua dimensione, l’alone che promana dall’individuo deceduto e che potremmo connotare, sulla scorta di un linguaggio di ispirazione fenomenologica, come “semantico” (essendo il volume contenitore di tutti i significati da egli generati o trasmessi in vita), tenderà ad attenuarsi sino a disperdersi del tutto quando saranno a loro volta trapassati, cioè avranno cominciato a tacere, coloro che lo testimoniavano e che ne tramandavano la memoria palpitante (“ah, noi espiriamo noi stessi, e via; di brace in brace manda il legno di noi sempre più debole odore”, così il Rilke delle Elegie).
A ben vedere esso si attenua già prima dello scomparire delle generazioni prossime all’individuo “passato a miglior vita”, perché chi sopravvive, come sentenzia il detto, a un certo punto si dà pace perché deve darsi pace, perché deve farsi nuovamente trascinare dalla corrente vitale. “Prima o poi bisogna riprendere a vivere”, è il leitmotiv.
A chi invece, dopo il trauma decentrante del lutto, risultasse impossibile riposizionarsi nel flusso esistenziale, o rientrare “nel troppo commercio con la gente, con troppe parole in un viavai frenetico” (Kavafis), non resterebbe che seppellirsi insieme al morto. O trasformarsi, se ne ha la propensione, in un mesto frequentatore di temi sepolcrali e di caducità.
Tra chi tace, ovvero chi è morto, e chi si dà pace, quindi chi è ancora vivo, a patto che essi siano considerati in un’istantanea fotografica o in una dimensione sincronica che isola l’hic et nunc, sembra porsi una distanza incolmabile, se si escludono quei fenomeni medianici che presuntivamente mettono in contatto i vivi e i morti attraverso alcuni sensi fisici (e quindi non solo come foscoliana “corrispondenza di amorosi sensi”).
Il detto in oggetto, considerato nella sua variante, suggerisce infatti il carattere pressoché assoluto del tacere di chi è morto, sembrando così allontanare drammaticamente quest’ultimo dalla modalità di quelli che si danno pace, ovvero i sopravviventi.
Ma se si assume un punto di vista longitudinale o diacronico, quelli che distinguiamo in “vivi” e “morti” finiscono per avvicinarsi vertiginosamente, perché i secondi sono individuabili come coloro che prima di tacere si davano pace e i primi come quelli che si danno pace in attesa di tacere a propria volta.
Se poi la prospettiva longitudinale si allunga indefinitamente, il tempo del darsi pace, cioè del vivere, si rivela ben poca cosa – matematicamente infinitesimale – rispetto allo sterminato tempo del tacere, per cui di fatto chi è vivo è già morto e chi è morto anche da vivo si trovava già da sempre assediato dalla dimensione del tacere, come uno sparuto scoglio d’essere circondato dall’immane oceano di nulla.
Anzi, il tacere finale, ricongiungendosi al prima del prima, ovvero al silenzio che precedeva l’ingresso nell’essere, si richiude sull’intervallo vitale rendendo trascurabile lo “essere stati vivi”. Almeno nelle concezioni che di fatto assimilano l’essere e il nulla, considerando la vita alla stregua di una scintilla nel buio di cui non rimane traccia.
Già nell’Ecclesiaste suggestivamente e con un paradossale piglio nichilista ante litteram si ritrova un’equiparazione dei vivi e dei morti nel loro destino già da sempre comune, indipendentemente dalle loro qualità morali, dalle colpe e dai meriti, lontanissima dalla visione neotestamentaria ed evangelica: “la stessa sorte attende il giusto e l’empio, il buono e puro e l’impuro, chi offre sacrifici e chi non li offre; come è il buono così il peccatore, come è colui che giura così chi teme di giurare. (…) così il cuore dei figli degli uomini è pieno di malvagità e hanno la follia nel cuore mentre vivono; poi se ne vanno fra i morti”.
In altre visioni invece la morte è il più pieno compimento della vita e il suo autentico suggello di senso. Quindi in qualche modo è vita.
Ma provando noi a porci piuttosto su una scia che ricerca la prossimità del vivente e del già-morto in un tertium che è oltre sia l’uno che l’altro e al contempo li ingloba, potremmo cominciare col denotare che il tacere non è equiparabile al “non essere più nulla”; anzi il tacere, come chiarisce Heidegger, premette la possibilità di dire; l’Esserci, per tacere, deve avere qualcosa da dire.
Se possiamo affermare, come implicato dal motto in oggetto, che un tratto rilevante dei morti è il tacere, è perché pre-intendiamo che essi abbiano ancora qualcosa da dire e tuttavia non lo dicano più, ed è anzi proprio questa circostanza che ci permette di affermare che essi tacciono. Il tacere è all’interno del dire; è una possibilità stessa del dire.
Certo si potrebbe opinare che non sia il tacere l’aspetto più evidente dell’esser-morto, ovvero che il suo tratto fondamentale sia ben altro.
In questo caso dobbiamo allora provare a chiarire in cosa consista, guardando a ciò che è meramente evidente e indubitabile, quell’evento che chiamiamo “morte”. Esprimendoci nei termini di un linguaggio filosofico di minima, dobbiamo mettere a fuoco quell’accadimento dal punto di vista fenomenico, vale a dire a partire da ciò che vediamo manifestarsi, prima di ogni sua interpretazione o attribuzione di senso.
E qui ci facciamo guidare da Emanuele Severino.
La morte è, da un punto di vista di ciò che appare, di ciò che meramente si mostra, il “non apparire più” di un dato ente, essendo questo ente quel soffio vitale che anima il corpo. Permangono certo il cadavere o in sua vece la cenere, ma questi letteralmente non sono lo stesso ente che prima appariva.
Ma anche il “non apparire più” è a propria volta un apparire, ovvero un qualcosa che si mostra, che si fa innanzi, poiché lo stesso “non apparire più” si presenta (appare). D’altronde se questo non apparire più non apparisse (non si mostrasse), noi non potremmo mai “vedere” quell’accadere che chiamiamo “morte”.
Forse è ridondante specificare che con “apparire” non s’indica l’emergere di un miraggio, di una parvenza fallace, come per lo più lo intende il linguaggio corrente quando per esempio stigmatizza le cosiddette “apparenze” reputandole inani e fuorvianti. L’apparire è qui inteso nel senso del mostrarsi di un fenomeno (che è a sua volta qualcosa che appare, ovvero che si fa avanti), per cui ciò che appare con l’apparire di qualcosa è contemporaneamente, oltre alla cosa che appare, lo stesso apparire dell’apparire.
Ciò che invece solitamente designiamo con il termine “morte”, insieme alle valenze culturali e simboliche che esso porta inevitabilmente con sé, è piuttosto un’interpretazione di questo “apparire del non apparire più”.
Questo solo noi possiamo dire a riguardo della morte, il resto essendo interpretazione o, come direbbe il pensatore greco classico, doxa: che la morte sia decifrata come un finire nel nulla o piuttosto un transitare in un altro mondo, migliore o peggiore, o un continuare in una catena di reincarnazioni, in ogni caso si tratta di flatus vocis.
Che il “non apparire più” sia a sua volta un modo dell’apparire è d’altronde difficilmente dubitabile in quanto noi siamo nell’apparire (nel “cerchio dell’apparire finito”, direbbe Severino); il mondo che esperiamo e conosciamo è un inesausto apparire di scenari avvicendantisi, essendo questo avvicendamento di scenari, ovvero questo continuo “eventificarsi” di cose, di persone, di storie che arrivano e se ne vanno, ciò che chiamiamo “tempo” e vicenda storico-mondana.
Ma se la morte è l’apparire di qualcosa che è nel modo del non apparire più, essa pure si situa all’interno del cerchio dell’apparire. Non è qualcosa che si collochi al di fuori di un siffatto orizzonte. Non si tratta delle antonomastiche “cose dell’altro mondo”.
Siamo in una posizione, per così dire, anti-epicurea, all’opposto cioè dell’affermazione del filosofo di Samo in base alla quale vita e morte sarebbero tra loro incommensurabili poiché mai potrebbero incontrarsi.
Detta altrimenti, il vivere e l’essere morti – non il morire che sta già più chiaramente all’interno dello spazio del vivere – sono compresi nello stesso orizzonte degli eventi coincidente con l’orizzonte del mondo, il quale è un mostrarsi che viene incontro a qualcuno che lo “vede”. Ecco: se dobbiamo definire più didascalicamente cosa intendiamo per “apparire”, è proprio il venire a mostrarsi di qualcosa a qualcuno che lo “vede”.
Il testimone vedente di questo “farsi avanti” è l’Esserci – termine con cui si designa l’uomo nella sua qualità precipua – che lo incontra in modo a sé trasparente, anzi di più, che è lo sguardo senza il quale non potrebbe darsi l’apparire di ogni cosa che appare e che poi si congeda per lasciare spazio all’apparire della successiva, in scenari continuamente sopraggiungenti e dileguanti.
Ancora seguendo il discorso di Severino potremmo più propriamente dire che il testimone che vede l’apparire delle cose e dell’apparire stesso non è la singola coscienza dell’individuo concepito come ente storicamente situato, ma è la coscienza intesa in senso trascendentale, la quale costituisce quindi la condizione stessa della possibilità del mostrarsi di un mondo.
D’altronde “chi muore tace” lo ha anche espresso, in modo senza dubbio letterariamente più elevato rispetto al nostro motto, William Shakespeare nel MacBeth, in quel “and then is heard no more” riferito al poor player, al povero guitto identificato col vivente, che, dopo essersi agitato per un’ora – un tempo quindi trascurabile – sul palcoscenico dell’esistenza, tace per sempre.
Descrivere l’apparire come presenza nell’esistenza alla stregua di un attorucolo che si dimena brevemente sul proscenio e dal quale non si ode poi venire più alcuna voce, al di là del disprezzo grondante dalle parole di MacBeth, cos’altro è se non dire che la morte è un tacere e quindi un assentarsi del teatrante dalla scena?
Restando in siffatta immagine analogica, possiamo dire che l’attore, dopo l’atto di scena che lo riguarda, non finisce nel nulla ma dilegua dietro le quinte. La quinta è tuttavia una parte del teatro, così come lo sono il proscenio e gli altri luoghi che insieme rientrano in quello spazio che è da essi costituito e che al tempo stesso li include tutti non coincidendo singolarmente con alcuno di essi.
Questo spazio teatrale globale potrebbe essere assunto come la metafora di ciò a cui ci riferiamo con l’espressione “coscienza trascendentale”, o più precisamente, con linguaggio severiniano, “apparire trascendentale”, ovvero quello spazio in luce, che in definitiva è l’Esserci, in cui solo, in modo auto-trasparente e dunque auto-riflessivo, può accadere (manifestarsi) un mondo.
Si può proporre quindi che il motto proverbiale nella sua variante “tacente”, da cui queste riflessioni sono partite, porti con sé implicazioni profonde proprio in virtù del fatto che non afferma che chi muore “non è più” (che, seguendo Severino, non è un’evidenza, ma un’interpretazione del “non apparire più”), ma piuttosto che “tace”, laddove il tacere, con Heidegger, scopre la sua natura di possibilità che sta all’interno del dire.
Rivela dunque in questa luce, in modo sorprendente, al contrario della sua prima superficiale significazione, che il morto e il vivo sono molto più prossimi di quanto il tacere e il darsi pace suggerirebbero, e che lo sono a tal punto da tendere a coincidere se la prospettiva temporale diventa, per così dire, quella dell’Aion.
Sì è detto, mutuando un’espressione della Fisica dei buchi neri, che morti e vivi sono all’interno dello stesso orizzonte degli eventi, gli uni nel modo del tacere di chi si era dato pace attendendo di tacere, gli altri nel modo del darsi pace in attesa di un tacere che verrà.
Ma questo presunto carattere futuribile, mentre si è in vita, del tacere (tacere che verrà), è a ben vedere un mascheramento dell’essere il tacere-morire già da sempre lì con il vivente, perché, come ha indicato Heidegger, nell’impersonalità della comune espressione “si muore” abita una subdola negazione della morte nella forma di un sottotesto che dice: “sì, certo, si muore ma intanto non io, intanto non ora”.
Questo “intanto non” tradirebbe una fondamentale elusione della questione.
È in virtù dello svelamento di questo scotoma cruciale che il filosofo di Messkirch può asseverare che l’Esserci realizza l’esistenza autentica solo se è essere-per-la-morte, vale a dire se è integrazione piena della morte e dell’angoscia da essa derivante come innervazione e significazione dell’intera esistenza.
La morte, in questa visione, non è un esito che ci attende a un certo punto della nostra strada, un luogo di là da venire, dove il “di là da venire” ha il significato di spingerlo sempre più avanti subdolamente, ma è ciò che ci corre costantemente accanto.
Questo tuttavia non fonda la necessità di affermare che, data la sproporzione di forze in campo tra la sconfinata estensione del tacere e i trascurabili intervalli viventi, l’essere si risolva già da sempre nel nulla (nichilismo), perché il tacere del morto, seppure dominante, non è una dépendance del nulla. Almeno se seguiamo Severino.
Tirando le fila: vivere è, seguendo ancora il filosofo bresciano, apparire all’interno di quello che egli chiama “cerchio dell’apparire finito” o “cerchio dell’apparire trascendentale”, corrispondente allo spazio illuminato in cui solo può farsi avanti (apparire) quella molteplicità degli enti, e degli scenari cui essi danno luogo, che chiamiamo mondo; la morte pure è in questo cerchio come apparire del non apparire più di un dato ente, ma di essa null’altro possiamo affermare, noi mortali (brotoi), senza scivolare nel vaniloquio o nel sapere mitico.
Severino invece, essendo uno di quei pochi immortali (athanatoi) cui si accennava all’inizio, può argomentare, sulla base di un discorso filosofico rigoroso e serrato, rifuggente proprio ogni suggestione e parlare mitico, che ciò che appare e poi a un certo punto compare, cioè appare come non apparire più, non è altro che il sopraggiungere, e il successivo congedarsi, di un eterno in quello spazio in luce aperto dalla coscienza trascendentale.
Come il sole che sorge nell’alba, segue la sua traiettoria nell’arco del cielo e infine tramonta senza tuttavia inabissarsi in un mare di nulla.
Riferimenti bibliografici
Nicoletta Cusano, Capire Severino – La risoluzione dell’aporetica del Nulla, Mimesis Edizioni, 2011
Martin Heidegger, Essere e Tempo, a cura di Pietro Chiodi, trad. Pietro Chiodi, Longanesi, 2005
Emanuele Severino, Destino della Necessità-Katà tò chreon, Adelphi, 1980
Grazie Gaetano per il tuo scritto che mi ha suscitato domande tra cui:darsi pace come accettazione della morte o costrizione della vita? Morte e male non sono sovrapponibili, ma hanno punti in comune, se non altro perché il male tende alla morte o può addirittura provocarla. Sono stata vicina a un uomo morente, molto consapevole della prossima fine, mentre diceva” ricordati che non sei niente “come sopraggiunto da una grande definitiva rivelazione che urgentemente doveva trasmettere anche se stava in fondo parlando a sè stesso di sè stesso. Proprio lui che, come usano gli artisti, amava mostrarsi, apparire, comunicare e dunque parlare…e così ha fatto fino all’ultimo respiro, quando inaspettatamente superando la profonda angoscia che lo opprimeva, si è aperto in un sorprendente sorriso che mi è parso rivolto alla sua compagna di vita, infatti si era girato verso il suo posto come gli fosse in quel momento apparsa… uno spazio di luce aperto dalla coscienza trascendentale?
Grazie a te, Caterina, per la generosa attenzione e soprattutto per questa condivisione così intima e palpitante, alla cui bellezza spietata e dolorosa può corrispondere adeguatamente da parte mia solo una contemplazione silenziosa.
Grazie a te, Caterina, per l’attenzione e soprattutto per la condivisione di un momento così intimo e rivelatore, alla cui bellezza spietata e dolorosa può corrispondere da parte mia solo una contemplazione silenziosa.