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Filiazione e affiliazione. I figli dei migranti fra famiglia e scuola

14 Set 15

Di claudia.angelini
a. Inculturazione ed acculturazione
 
1. Marie Rose Moro – una etnoanalista francese che ha studiato i processi migratori nelle metropoli post-industriali – parlando dei processi di inculturazione (di socializzazione, direbbe un pedagogista) dei figli dei migranti (cioè delle cosiddette seconde generazioni) distingue fra filiazione ed affiliazione[1].
Laddove per processi di filiazione ella intende tutto ciò che a loro viene dai propri genitori, dalla cultura di cui essi sono i portatori e soprattutto dalle modalità da loro usate per ricondursi e ricondurli ad essa. E per affiliazione tutto ciò che a loro viene dall’incontro e dallo scambio con la cultura del paese in cui si trovano a vivere, e con quel mix di culture dell’immigrazione col quale devono fare i conti non appena entrano in rapporto con tutto ciò che è oltre quel limen che segna i confini fra il dentro e il fuori: il limen che distingue il domi dal foris, avrebbe detto Diego Napolitani[2].
 
2. La distinzione fra un domi ed un foris esiste anche per noi, così come per i loro coetanei autoctoni. Anche per ciascuno di noi si può distinguere fra una appartenenza più prossima e circoscritta – quella familiare -, ed una linea di appartenenza più ampia che, lungo il cammino della crescita psicologica, via via comprende la nostra parentela, la classe sociale di appartenenza, eccetera; fino a definire l’insieme si tutti quei tratti culturali che ci accomunano come italiani; e prima di tutto la lingua.
Ma nel nostro caso – almeno oggi (cioè da quando – soprattutto ad opera della TV – l’italiano si è imposto come lingua comune a tutti dalle Alpi a Pantelleria) – non ci sono iati così profondi che possano spingerci a pensare che il processo d’inculturazione delle nuove generazioni autoctone possa andare incontro a sostanziali linee di discontinuità nel passaggio dal domi al foris: dal lessico familiare alla lingua burocratico – curiale, per fare un esempio centrale per i docenti.


 
3. Invece nel caso dei figli dei migranti di prima generazione la distinzione che fa la Moro segnala la presenza di possibili linee di discontinuità e di frattura, la prima delle quali è rappresentata proprio dalla lingua, ma che, in base all’esperienza, è possibile individuare un po’ ovunque mano a mano che la vecchia e la nuova appartenenza s’intrecciano lungo il cammino della loro crescita psicologica.
Nel loro caso cioè il termine ‘inculturazione’, che per i coetanei autoctoni connota quel processo di allargamento dell’area dell’appartenenza che avviene attraverso l’educazione e lo scambio con le persone più importanti della loro vita, non basta. Poiché nel caso dei figli dei migranti se vogliamo connotare con uguale puntualità ciò che sta avvenendo occorre considerare questo intreccio fra vecchia e nuova appartenenza, che da una parte ha per protagonista la famiglia d’origine, dall’altra principalmente la scuola; e ciò soprattutto nei luoghi più metropolitani, e in ogni situazione in cui i legami di vicinato siano deboli, assenti o impediti (ad esempio dalle politiche abitative).
 
4. Per cui per descrivere con esattezza ciò che avviene nel mondo interno del figlio del migrante dobbiamo considerare l’intreccio che dentro di lui avviene fra il modello di cultura di cui la famiglia (e la comunità di immigrati appartenenti alla stessa cultura con cui la famiglia è in rapporto) sono portatori, ed il modello di cultura vigente nel luogo d’immigrazione: la lingua che lì si parla, gli usi ed i costumi ivi imperanti.
In questo modo il processo inculturativo s’intreccia con quello che gli antropologi chiamano processo acculturativo, che allude allo scambio che si verifica ogni volta che due culture entrano in rapporto fra loro.
 
5. Alphonce Dupront[3] in un vecchio testo sull’acculturazione alludeva al fatto che il processo acculturativo è sempre uno scambio ‘violento’, all’interno del quale il processo del dare e dell’avere vede sempre imporsi la cultura egemone: nel nostro caso la cultura italiana, e quella reggiana in particolare.
Ciò è evidente nel caso della lingua, che non esclude, ma marginalizza la lingua originaria del migrante e la circoscrive fra le mura domestiche come lessico familiare, o poco più.
Inculturazione ed acculturazione, quindi.
 
6. O, come dice Marie Rose Moro: filiazione ed affiliazione.
In ogni caso un intreccio che alla lunga può generare un arricchimento da parte di tutti, ma che nell’immediato genera delle sintonie, ma più facilmente un insieme di distonie che devono essere essenzialmente affrontate da chi è in prima linea sulla barricata del processo inculturativo ed acculturativo – cioè dalla famiglia d’origine e dalla scuola. Affrontare e, per quanto è possibile, dirimere.
 
 
b. I genitori del migrante in età evolutiva da emigrati ad immigrati
 
7. Abdelmalek Sayad[4] ci ha insegnato che i protagonisti del processo migratorio sono destinati ben presto a passare dalle illusioni che sono alla base della decisione di emigrare (o di prendere la strada dell’esilio) alle delusioni derivanti dall’impatto con la cultura egemone: cioè dal processo acculturativo.
Per cui la prima cosa che occorre fare se vogliamo avvicinarci alla comprensione di ciò che proviene al migrante di seconda generazione dai propri genitori è quella di partire dal percorso che essi hanno fatto: dalle loro peripezie, dai loro sogni, dai loro progetti o dalle loro necessità iniziali. Ed in ultima istanza da ciò che è rimasto di questi sogni e di queste necessità dopo l’impatto con noi!
 
8. Partiamo dall’emigrato: ce lo ricorda ancora Sayad, ma anche molti studi misconosciuti sui sogni e le attese tipiche del nostro progetto migratorio (quello italiano!) dalla fine dell’800 in poi: innanzitutto all’origine c’è un bisogno individuale che s’incrocia con un bisogno familiare, e che varia nel tempo. Per cui non è detto che le ragioni che hanno portato a migrare ieri siano quelle di oggi.
Negli studi sugli emigranti toscani provenienti dal mondo della mezzadria nella II metà dell’800 molto dipendeva dall’andamento del raccolto e dal numero di “braccia” occorrenti e bastevoli per portare avanti il campo. E la decisione di emigrare o meno era spesso una decisione familiare lungamente elaborata. La stessa cosa accadeva ieri, ed accade oggi nei paesi del Magreb, ci ricorda Sayad.
 
9. D’altro canto la partenza è sempre gravida si sentimenti fortemente ambivalenti in tutti coloro che la vivono da vicino. E cioè non solo nell’emigrato, ma anche in parenti ed amici che non sono partiti. Nell’emigrato – e ancora di più nell’esule, come vedremo fra un po’ – perché da una parte essi sono portati a vivere la propria terra d’origine, la propria cultura, la propria appartenenza primaria come una matrigna che non è stata capace di sostenerli, dall’altra ad idealizzarla non appena si siano allontanati da essa.
In chi rimane, che un po’ si rallegra un po’ lo invidia chi è riuscito a compiere il grande passo: invidia, o si sente tradito, o le due cose insieme.
 
10. L’esule poi, che per motivi politici, etnici o religiosi è stato costretto suo malgrado a partire, innanzitutto non ha elaborato un vero progetto migratorio; e poi – cosa altrettanto rilevante sul piano dell’equilibrio psichico – non ha avuto spesso né il tempo né la disposizione a ‘salutare’ i propri cari, la propria terra.
Ciò determina nell’esule un terreno sia delle separazioni che delle attese del tutto particolare. Un terreno che spesso di fronte alle delusioni dell’immigrazione li spinge a rivivere traumaticamente i sentimenti di abbandono e di solitudine provati al momento delle forzosa partenza dalla propria terra d’origine.
                                                                                                
11. Entrambi poi quando diventano immigrati non possono non eludere l’impatto con la cultura egemone del luogo in cui si ritrovano a vivere, e con i processi acculturativi ad esso connessi.
Ciò genera una profonda delusione la cui elaborazione – che avviene sotto gli occhi dei loro figli!! – richiede molto tempo e si materializza come una continua oscillazione fra momenti di rifiuto (e inizialmente di vergogna nei confronti di chi non è partito, per non avere attuato il sogno migratorio) e momenti di riparazione in cui prevale la tendenza a conciliare le due appartenenze.
 
12. Queste oscillazioni, a meno di eventi traumatici (che agiscono più pesantemente sui più deboli, e in particolare sugli esuli), tendono ad essere sempre meno accentuate col passare degli anni. Ma su questo piano e su come poi in concreto avverrà il processo acculturativo molto dipende da come la comunità che accoglie l’immigrato e l’esule si comporta nei loro confronti.
Per cui l’ulteriore passo che dobbiamo fare per cominciare a comprendere ciò che sta avvenendo nel processo migratorio è guardare a noi stessi e a come noi ci disponiamo individualmente e gruppalmente nei loro confronti.
 
 
c. Noi di fronte a loro
 
13. Prima di concentrare la nostra attenzione su quell’ambito più ristretto del “noi” rappresentato dalla scuola, dagli psicologi e dai social worker che operano qui ed ora a stretto contatto col loro non possiamo fare a meno di considerare il qui ed ora in termini più generali, riferendoci innanzitutto all’Europa ed all’Italia, ed in seconda istanza a Reggio Emilia.
Per capire quel tanto che in questa sede ci può bastare di ciò che sta accadendo in questo ambito più ampio che ci comprende basta a mio avviso considerare un fatto incontrovertibile: nell’Europa fondata sull’euro tutte le merci possono superare in entrata ed in uscita i confini geografici europei, tranne la merce “forza lavoro” per la quale si ergono impietose barriere in entrata.
 
14. E’ questa riduzione di esseri umani a merce, connaturata con i principi di natura mercantile e finanziaria intorno ai quali si va costruendo de facto l’Europa che impedisce ai nostri governanti e ad una parte crescente della popolazione “coltivata” dai media di comprendere il grido di dolore di Papa Francesco: “Respingere gli immigrati è un atto di guerra”.
Per cui da una parte – come dice il Papa – abbiamo della ‘gente che cerca la vita’, dall’altra delle ‘persone e delle istituzioni che chiudono la porta’ alla loro vita in base ad un calcolo che è portatore di morte e di inaudite sofferenze.
La qual cosa assume un significato ancora più grave in Italia che per lungo tempo è stato un paese di emigrazione e – durante il fascismo – un luogo che spingeva i suoi figli migliori verso la via dell’esilio.
 
15. La coltivazione dei media, ed in particolare la coltivazione televisiva – come ci hanno insegnato i sociologi americani che per primi l’hanno studiata[5]– induce fra l’altro nei grandi consumatori (che poi sono coloro che vedono la TV per oltre 4\5 ore al giorno!) una maggiore propensione al pregiudizio ed al razzismo, una sopravvalutazione del tasso di violenza presente nella società ed una minore attenzione ai deboli ed ai marginali rispetto a coloro che non guardano, o guardano poco la TV[6].
È a partire da queste distorsioni, indotte dai media che è possibile comprendere come mai le gravi parole del Papa rivolte alle persone e alle istituzioni ‘che chiudono la porta’ non solo non sono ascoltate, ma addirittura menano scandalo, soprattutto negli ambienti più razzisti.
Due ultime considerazioni: a. come dicono gli stessi sociologi che hanno studiato questa massiccia coltivazione delle menti, il suo esito complessivo è quello di infondere ansia, insicurezza e propensione alla formazione di uno spirito gregario; b. qui in Italia in un periodo come questo, pur caratterizzato dall’esodo in massa di migliaia di migranti e di profughi che spesso mettono a repentaglio la propria vita, l’operazione fatta dalla TV, ma anche dagli altri media, tranne rare eccezioni, è quella di ‘vendere’ questa grande tragedia come una invasione da parte del terrorismo, confondendo, e a volte quasi conglobando la figura del migrante e dell’esule in quella dell’Isis.
E non inganni il repentino cambiamento di umore provocato dalla foto del bambino siriano morti sulla spiaggia turca: la coltivazione televisiva influisce sul profondo degli animi, ed un evento traumatico può solo scalfire per un momento ciò che in base ad essa si è stratificato dentro di noi nei decenni scorsi.
 
16. Ovviamente le considerazioni fatte nei tre punti precedenti meriterebbero bel altra attenzione. Ma circoscrivendo rapidamente la nostra attenzione al microcosmo reggiano ciò che abbiamo appena detto sul qui ed ora europeo e italiano va tarato su talune specificità reggiane, che in linea generale ovviamente confermano quanto detto prima, ma che pur presentano alcuni elementi di specificità.
Intanto Reggio Emilia è stata per un lungo periodo di tempo una terra d’emigrazione, e durante il fascismo una terra che vide, come molta parte d’Italia, molti dei propri figli migliori partire per la via dell’esilio. Lo era ad esempio il suo primo sindaco dopo la liberazione: Cesare Campioli. Lo furono vari antifascisti di matrice socialista, comunista ed anarchica, molti dei quali combatterono in Spagna contro il franchismo.
Ma il solidarismo laico impregnato di mutualismo, che pure vide come protagonista alla fine dell’800 ed all’inizio del ‘900 la maggior parte dei ceti popolari e le prime amministrazioni socialiste, era di fatto molto circoscritto.
È di Camillo Prampolini la celebre battuta “Gli italiani si dividono in nordici e ‘sudici’ “.  Anche se questo pregiudizio – che pure conviveva con una propensione declamatoria all’internazionalismo – ha origini ben diverse dal pregiudizio oggi disseminato dalla cultivation dei media, poiché nasce in una situazione di arretratezza, in cui i media semplicemente non esistevano. E ciò che semmai esistevano – come corollario dell’arretratezza – erano identità individuali e gruppali deboli, nei fatti propense, al massimo, a risolvere il rapporto con le alterità in termini campanilistici.
Sarà poi di matrice comunista la spinta che nel secondo dopoguerra portò gli emiliani, ed i reggiani in particolare, ad una ideale adesione nei confronti dei popoli che anelavano alla libertà e alla giustizia sociale. Adesione che in talune circostanze si concretizzò in fattivo aiuto, soprattutto nei confronti delle ex-colonie portoghesi.
 
17. Tutto ciò accadeva all’interno di una situazione economica che fino al boom economico rimaneva arretrata.
A partire da quel momento in poi tutto muta rapidissimamente. Per descrivere ciò che è avvenuto in questi ultimi decenni riporto qui l’analisi che grosso modo potete ritrovare in molti documenti di Gancio:
“La società reggiana è una realtà in rapida trasformazione, in cui il passaggio da una società contadina e proto-industriale, dapprima ad una società industriale e poi ad una società sempre più terziarizzata, è avvenuto nell'arco di due sole generazioni.
La situazione è resa ancora più problematica dal recente flusso migratorio che ormai in termini massicci investe il territorio reggiano.
I rischi di anomia[7] e di sofferenza mentale in una situazione simile sono grandi; e in età evolutiva si sono concentrati negli anni scorsi su tre elementi ugualmente problematici: il disagio minorile; l'accoglienza e l'integrazione dei migranti di seconda generazione; e, da ultimo le nuove problematiche inerenti ai rapporti intergenerazionali.”
 
18. Il punto di partenza che innesca il cambiamento – prima ancora dell’arrivo dei migranti – è quindi quello della rapidissima trasformazione del nostro territorio che ha visto concentrarsi nell’arco di due sole generazioni un processo che in Francia ed in Inghilterra è avvenuto rispettivamente nell’arco di sette ed otto generazioni[8].
Quando i cambiamenti sono così rapidi i vecchi valori che caratterizzavano la vecchia cultura (nel nostro caso quella della Reggio dei miei nonni e dei vostri bisnonni) diventano rapidamente obsoleti. Mentre i nuovi valori non sono ancora sufficientemente condivisi. Ciò rende il tessuto sociale molto fragile ed esposto a molteplici tensioni, che rischiano di sfilacciarlo e di frantumarlo in mille rivoli: l’anomia – come ha messo in luce Durkheim, che per primo ha studiato questo fenomeno all’interno dei propri studi sul suicidio – è solo uno degli esiti di questa frantumazione.
 
19. Su questo processo già di per sé problematico a partire dagli anni ’90 un ulteriore elemento di accelerazione del cambiamento è rappresentato dall’arrivo in massa dei migranti, che ben presto hanno superato la soglia di quel 5% al di sotto il quale secondo i sociologi la loro presenza non viene neanche notata dagli autoctoni.
Ciò ha reso ineludibile un incrocio di sguardi ‘fra noi e loro’[9].
Laddove il ‘noi’ non allude più ad una generica realtà metropolitana, ma proprio a noi reggiani autoctoni. E laddove il ‘loro’ si riferisce ad una realtà multiculturale, che solo distrattamente possiamo riassumere nella sola parola ‘migranti’: quando ad uno sguardo appena più attento appare come una miriade di appartenenze culturali, ognuna delle quali ha alle spalle un diverso e specifico percorso migratorio, una diversa e specifica modalità di rapportarsi con noi e con la nostra cultura.
 
20. Ciò impone a noi e a loro di dare senso a questo incontro ed – esattamente come accade all’emigrato di fronte al proprio contesto culturale d’origine – anche in questo caso ben presto ci si viene a trovare di fronte ad una situazione che ingenera da entrambe le parti una profonda ambivalenza, che – come abbiamo già visto – comporta da parte loro una oscillazione fra entusiasmo e delusione nei confronti della nostra cultura egemone: che a volta viene percepita come la terra ospitale che li ha salvati dalla fame e dalle guerre, a volte come una realtà che ha ucciso in fasce il sogno migratorio.
Da parte nostra una necessità di prendere una giusta distanza da loro che oscilla fra il rifiuto più ottuso e ghettizzante, e l’accettazione della contaminazione e dello scambio come elementi reciprocamente arricchenti.
Tutto ciò in una realtà locale che va rapidamente perdendo anche il ricordo di quella propensione al solidarismo che pure aveva caratterizzato una recente stagione della propria storia. Una realtà che ormai da una ventina d’anni delega la risoluzione dei problemi dell’accoglienza – oltre che a noi di Gancio – a gruppi minoritari laici e cattolici, nella disattenzione da parte dei più; che cedono al pregiudizio non più in base a pulsioni localiste e campaniliste, ma a partire dalla coltivazione prodotta dai media, che – più che identità deboli – produce identità raggrinzite.
 
 
d. La scuola come luogo principe dell’affiliazione
 
21. Il nuovo, nel nostro caso il migrante, può essere una minaccia o una promessa – diceva il mio maestro Napolitani[10] – dipende da come io mi dispongo di fronte ad esso: se con le mie parti più pavide o con quelle più coraggiose.
È chiaro che se la mia distanza da esso può essere, e rimanere grande è più probabile che io faccia fatica a metterlo a fuoco; è più probabile ch’io distolga lo sguardo da esso, o che mi disponga a vederlo con la lente deformante dello stereotipo e del pregiudizio che i media – come abbiamo visto – tendono a cucirmi addosso.
Se invece il migrante è vicino a me, se sono ‘costretto’ a rivolgermi a lui o a lei ponendo a fuoco la loro peculiare individualità è più facile che riesca a vederli come soggetti, evitando di racchiuderli nello stereotipo e nel pregiudizio.
E’ più facile, ma non è detto che questa vicinanza garantisca l’instaurarsi di un rapporto da soggetto a soggetto!
 
22. Come dice la Moro, la scuola è il luogo principe dell’affiliazione dei figli dei migranti. Lo è perché l’obbligatorietà della frequenza implica una vicinanza fra docenti e discenti: fra docenti e tutti i discenti!
Ma intanto i docenti sono figli della cultura egemone, che determina nel tempo processi acculturativi contrassegnati dalle singole tradizioni nazionali (pensiamo alle diverse modalità di accoglienza dei singoli paesi ex-coloniali), e locali (pensiamo al passato fatto di solidarismo laico dei reggiani).
 
23. In secondo luogo poi diventa spesso difficile che il docente distingua e metta a sempre a fuoco le differenze di cui sono portatori questi nuovi discenti, agendo di conseguenza.
Un esempio su tutti, che per la centralità dell’argomento può avere valore ‘didascalico’: è chiaro che a scuola s’insegna l’italiano, la lingua della cultura egemone. È chiaro anche però che in base al processo di filiazione, l’azione educativa dei genitori degli studenti migranti spinge ad una valorizzazione – almeno in ambito familiare – della loro lingua d’origine. La mancata valorizzazione a scuola di questa prima lingua (ad esempio attraverso la linguistica contrastiva, che contestualizza e perciò dà dignità  anche al lessico più familiare[11]) comporta un vulnus sul piano della definizione dell’identità del figlio del migrante.
 
24. Infine può accadere che il docente faccia fatica a sottrarsi al facile discorso stereotipico: in Italia e soprattutto a Reggio è meno probabile che altrove, pur tuttavia può accadere!
E ciò diventa molto pericoloso nel caso in cui tutto, o quasi tutto il plesso scolastico agisca sotto il segno dello stereotipo. E questa situazione – da quel che so per ora molto improbabile – potrebbe diventare molto più probabile se qualche dirigente fosse spinto dalla comunità autoctona, o di una sua parte (che come sappiamo nella prospettiva della Buona Scuola può influire anche materialmente sulle singole direzioni didattiche, ad esempio finanziandone solo alcune, a danno di altre) a fare un certo tipo di selezione fra i propri collaboratori.
 
25. In ogni caso – come ho avuto modo di dire molte volte in passato – la prescuola e la scuola sono gli unici luoghi in cui il passaggio da una fascia di età ad un’altra vengono ritualizzate.
È noto che la ritualizzazione del passaggio trova la sua ragione nelle ansie e nelle angosce di fronte al nuovo che prendono tutti i soggetti coinvolti nel passaggio, bambini o adulti ch’essi siano.
Ebbene Marie Rose Moro c’insegna che i problemi maggiori cui vanno incontro tutti i membri della famiglia migrante sono proprio quelli che nascono in vari momenti di passaggio: alla nascita; nel momento dell’ingresso nelle strutture prescolari prima, e poi in scuola elementare; all’epoca della crisi puberale; e – in base alla mia esperienza, aggiungo io – anche nel momento dell’ingresso dei giovani di seconda generazione nel mondo del lavoro.
Vediamo quali sono i principali problemi sottesi a ciascuno di questi momenti di passaggio:
 
26. Se i figli dei migranti nascono ‘qui’ nel periodo della gestazione, e ancor di più in quello nella nascita la loro madre è sola: manca cioè la rete parentale che solitamente – anche nella nostra cultura – accompagna ed aiuta a dare senso a ciò che accade; e ad inserire l’evento-nascita all’interno di una serie di azioni, spesso ritualizzate, che rappresentano l’inizio del processo d’inculturazione.
Tutto ciò accade di fronte ad un processo acculturativo della stessa madre che è ancora agli albori, e con un marito che è troppo occupato fuori casa.
Il rischio sul rapporto primario madre – bambino è l’emergere di un sentimento di alienazione. È come se la madre si chiedesse: in quale cultura devo immettere il mio bambino? in quella originaria o in quella attuale? Tutto questo disorientamento comporta purtroppo -afferma la Moro – la possibilità che qualcosa non vada per il verso giusto per il bambino sul piano dell’acquisizione della fiducia di base, minando (proprio ‘alla base’, direi) le sue future capacità di resilienza.
 
27. Se poi il bambino viene inserito nel nido o più tardi in scuola per l’infanzia dobbiamo essere consapevoli che questo secondo passaggio comporta il suo inserimento all’interno di processi identificatori crociati e multipli che vedono coinvolti: i propri genitori immigrati, quelli degli altri figli di migranti, i genitori autoctoni, le educatrici, gli altri bambini immigrati e quelli autoctoni.
Le rappresentazioni mentali degli adulti (di tutti gli adulti) di ciò che sta accadendo incidono nel determinare il significato di questi luoghi per ciascuno degli attori presenti in essi. Per quanto riguarda le educatrici si può andare da una scotomizzazione dell’arrivo del bambino immigrato e della sua famiglia ad una accoglienza piena e rispettosa dei tratti culturali di tutti. Così come da parte delle famiglie immigrate da una rappresentazione mentale della struttura prescolare solo come un luogo che svolge una funzione assistenziale,  ad una visione di questo luogo come struttura educativa; etc. –
Un’ultima nota sui bambini figli dei migranti nella fascia prescolare: oggi le strutture prescolari del Comune di Reggio Emilia purtroppo paiono avere abbandonano i propositi pedagogici di tipo compensativo che pure erano stati importantissimi nel momento in cui nacquero queste strutture. Questo abbandono, che fra l’altro temporalmente risale ad un’epoca precedente all’arrivo dei figli dei migranti, scarica di fatto la loro educazione sulle private, e soprattutto sulle statali[12].
 
28. Il significato dell’ingresso in scuola elementare può variare in base al significato che hanno sia l’ingresso in latenza, sia la frequenza scolastica presso ognuna delle culture di provenienza. Ad esempio l’atmosfera nuova che si respira in scuola qui da noi oggi (vedi il passaggio dalla vecchia scuola incentrata sul rituale pedagogico alla odierna teatralizzazione dei rapporti[13]) spesso si scontra sia con i vissuti che i genitori immigrati hanno della scuola nei loro luoghi d’origine, sia con le loro attese, con i loro investimenti attuali sui loro figli; che sono spesso investimenti di tipo risarcitorio.
Stessa attenzione meritano i vissuti che i genitori autoctoni e le maestre hanno dell’arrivo in classe della seconda generazione immigrata.
Ed in ogni caso l’apprendimento della lettura e della scrittura dell’italiano da parte dei bambini immigrati implica l’emergere in loro di nuove ambivalenze, poiché da una parte questo apprendimento permette loro di svolgere delle funzioni di mediazione e di ponte nei confronti degli altri familiari (e soprattutto di coloro che – come le madri – rimangono in casa, e perciò non padroneggiano la lingua egemone), dall’altra questa nuova competenza rischia di dare loro l’impressione di tradire la lealtà ai valori (e alle parole!) della cultura d’origine, e ciò può provocare un vulnus sul piano della filiazione.
 
29. Ma, come accade anche per i ragazzi autoctoni, il passaggio più delicato è quello che avviene a cavallo della crisi puberale con la virata di centottanta gradi che porta gli uni e gli altri dalla endogamia alla esogamia.
Sappiamo che questo passaggio è dilacerante per gli autoctoni. Lo è doppiamente per i ragazzi immigrati, poiché è proprio in questo periodo che si accentuano enormemente le ambivalenze fra filiazione e affiliazione.
I problemi più rilevanti sia per i maschi che per le femmine sono: 1. quello di trovare la distanza giusta dai genitori senza rimanere avviluppati negli schemi della cultura d’origine, ma senza tradirla! 2. Quello d’inventare strategie individuali di meticciamento in questo periodo, più o meno creative, più o meno dolorose (Moro) con il rischio – di fronte al fallimento – di sedimentare in fondo all’anima ferite narcisistiche che incidono sull’autostima (opacità, differimento le proprie scelte libidiche e intellettuali, innesco di strategie autodistruttive (tentativi di suicidio, droga) etc. –
Nel caso delle ragazze ci sono delle ulteriori complicazioni poiché esse vengono a trovarsi – come dice la Spivak[14] – di fronte ad una doppia esigenza di emancipazione: dal background patriarcale e dalle sirene consumiste attuali; con il rischio o di restare avviluppate nell’uno o nell’altro versante, perdendo il senso della propria identità[15].
La crisi puberale si riflette poi sia sugli autoctoni che sugli immigrati in scuola esacerbando il clima isterizzante presente in classe fin dalla scuola elementare: ma l’immigrato neopubere – specie quello appena arrivato qui da noi – spesso fa fatica a capire cosa in effetti sta avvenendo sulla scena scolastica[16] all’interno della quale sta entrando.
 
30. E un’attenzione particolare meritano questi arrivi di bambini, ragazzi o giovani migranti che hanno già trascorso una parte delle propria vita “altrove”. Si tratta di figli di migranti che giungono a noi o dopo un ricongiungimento familiare, o un qualche viaggio clandestino della speranza che ha visto coinvolta tutta la famiglia.
Da una parte infatti occorre tenere presente che tutti loro sono esposti a ciò che gli etnologi chiamano “shock culturale iniziale”, derivante dall’improvviso passaggio dalla cultura d’origine a quella metropolitana, con tutte le sensazioni di insicurezza, confusione ed ansietà che contraddistinguono questo fenomeno.
Dall’altra, per coloro che hanno fatto l’esperienza dell’arrivo da clandestini, occorre tenere presente che, prima ed insieme allo shock culturale iniziale, essi sono sottoposti, come tutti i parenti con cui hanno condiviso questa terribile esperienza,  uno shock post-traumatico da stress, con esiti di: – appiattimento affettivo, cioè perdita di interesse verso cose, persone e situazioni; – uno stato di allerta costante caratterizzato tensione, ansia, iper-reattività agli stimoli; difficoltà di concentrazione e insonnia; evitamento degli stimoli che possono ricordare il trauma, spesso associato a una sensazione di disagio invalidante.
Ciò, e inutile dirlo, li rende particolarmente fragili ed esposti: soprattutto se al momento dell’arrivo, in base alla coltivazione televisiva, si trovano di fronte soggetti autoctoni propensi a fare di ogni erba un fascio, e soprattutto – come dicevamo prima – a confonderli con i terroristi.
 
31. Un ultimo momento critico sul piano dei passaggi è quello che, sempre sul piano del difficile rapporto fra filiazione e affiliazione, vive il giovane immigrato alla fine del proprio percorso scolastico, allorché la famiglia d’origine lo richiama – spesso mutamente, ma sempre eloquentemente – a cercare un lavoro qualsiasi che sia d’aiuto immediato alle precarie condizioni attuali in cui versa la famiglia.
Da una parte ciò spesso implica un senso di perdita ed un lutto derivante dal brusco abbandono di quelle vocazioni individuali nel frattempo emerse a scuola.
Dall’altra ciò induce spesso nel neoadulto di seconda generazione una propensione – di tipo riparativo, affermano i Gringerg[17] – ai lavori di cura: è ciò che già avviene nei paesi di meno recente immigrazione, nei quali spesso la cura è letteralmente in mano della seconda generazione immigrata!
 
 
32. Da tutto ciò la necessità che la scuola, o almeno la nostra scuola, insieme ai reparti di neonatologia!, si facciano carico consapevolmente del significato che la ritualizzazione dei passaggi assume per tutti, ma soprattutto per i figli dei migranti, poiché per essi e per le loro famiglie innanzitutto ogni passaggio implica un dover rifare i conti con le modalità secondo le quali avviene il processo acculturativo: se sotto il segno delle violenza sopraffattrice, o sotto il segno della reciprocità e dello scambio.
Ma anche, e di conseguenza, come si va strutturando dentro di loro la nuova identità: se nel disprezzo delle proprie origini, o – peggio – nell’odio per la nuova cultura; o sotto il segno di della comunanza e dello scambio.
 
33. Ancora una volta perciò i docenti diventano dei sacerdoti del passaggio[18], che con la loro presenza officiante (pensiamo alla lingua!) statuiscono il fatto che il neofita e la sua famiglia fanno parte della nuova comunità; che hanno superato quel limen che distingue il dentro dal fuori, il domi dal foris.
Stessa cosa – si badi bene – avviene con i bambini, i ragazzi ed i giovani autoctoni: ma in termini più facili, poiché il loro retroterra culturale, la loro radici familiari e sociali sono più facilmente in sintonia con ciò che avviene a scuola.
Sacerdoti del passaggio però – non dimentichiamo neanche questo – che statuiscono, spesso senza rendersene conto, fino a qual punto ed in che modo sta avvenendo il processo acculturativo; in che direzione sta andando il passaggio: se verso la ghettizzazione; se verso l’autoctonizzazione; se verso il meticciato sociale e culturale, etc. –
 
34. Un’ultima nota sui problemi del passaggio: come abbiamo visto i docenti e la scuola esercitano – ne siano o meno coscienti – una importante funzione su questo piano. Ma dobbiamo essere consapevoli che ciò che avviene poi a livello più generale nella società e nelle istituzioni dello stato contraddice pesantemente ciò che è stato costruito a scuola.
Infatti il mancato riconoscimento formale dell’accesso dei figli dei migranti alla cittadinanza italiana rende profondamente ambigua la loro appartenenza. Ciò rappresenta un atto d’ingiustizia dalle conseguenze imprevedibili (o prevedibilissime, se guardiamo a ciò che sta avvenendo in Francia, ad esempio).
È come se dicessimo loro, che pure si sono sottoposti ed hanno superato tutte le prove rituali che attestano la loro italianità, che tutti i loro sforzi valgono fino ad un certo punto; che l’attestazione del loro essere diventati adulti non corrisponde al loro essere italiani. Con tutti i rischi, per loro e per noi, derivanti da questa incerta appartenenza.
 
35. In ogni caso è ora che si passi da una conoscenza intuitiva e sensibile del problema ad una (auto)consapevolezza piena, razionale e trasformativa dei tanti importanti significati che assume l’operare dei docenti su tutti questi piani.
E dei tanti rischi che corrono i migranti, i loro figli e la nostra società se questo problema non viene affrontato in termini adeguanti e coerenti. Dall’inizio alla fine.
 
 
 
 

 

[1] M. R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, F. Angeli, Milano, 2005
[2] Diego Napolitani, Di palo in frasca, Ipoc, Milano, 2006
[3] Alphonce Dupront, L’acculturazione, Einaudi, 1971
[4] Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Cortina, Milano, 2002
[5] Cfr. i lavori di George Gerbner, cit. in Mauro Wolf, Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano, 1992. Ma anche Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/George_Gerbner
[6] Leonardo Angelini: Alcune note sulla coltivazione televisiva , in Academia.edu
[7] sul concetto di anomia cfr, un classico della sociologia: E. Durkheim, Il suicidio, UTET, Torino, 1970
[8] L. Angelini, Nuovi problemi e nuovi compiti della scuola a Reggio Emilia, oggi, Relazione tenuta l’anno scorso  (2014) all’incontro programmatico d’inizio anno scolastico promosso dall’APS Amici di Gancio Originale con presidi e professori referenti. Ora nel blog di Gancio, cfr: http://www.amicidigancio.com/?p=1161
[9] L. Angelini, Chi viene, chi c’è già: sguardi incrociati nel momento dell’accoglienza, Relazione tenuta nel 1999 all’interno del “Progetto Ligabue – Corso di formazione per youth workers”. Otto lezioni su “Società dei consumi e disagio giovanile, a cura di Reggio Children , ora in “I giovani come risorsa, a cura di Angelini, Bertani Cagossi, Cantini, Psiconline, 2010
[10] cfr: D. Napolitani , “La struttura intermedia nel panorama psichiatrico”, in: “Psicoterapia e scienze umane”, N.4, 1986, pag. 74/86.
[11] Il concetto di linguistica contrastiva è di Ammon e Baratz, cit. in Mioni “Sociolinguistica: apprendimento della madre lingua e lingua standard” (in “La lingua italiana oggi, un problema scolastico e sociale”, AA. VV., il Mulino, Bo, 1977)
[12] Cfr. Angelini L.,  L’eredità di Malaguzzi, su 24Emilia.com
[13] Angelini L., La scuola di ieri e quella di oggi a confronto: dal rituale pedagogico alla teatralizzazione della scena scolastica, in: Quando saremo a Reggio Emilia, con Deliana Bertani, Psiconline, 2014
[14] Spivak Chakravorty  G., Morte di una disciplina, Meltemi, Roma, 2003
[15] Nel caso dei ragazzi rinchiusi nelle istituzioni correttive infine ciò può condurre  a fenomeni di disculturazione: che implicano e presentificano un fallimento sia sul piano della filiazione che della affiliazione (cfr in proposito i lavori di Roberto Beneduce) .
[17] Leon e Rebeca Grinberg, Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, F. Angeli, Milano, 1990
[18] cfr: L. Angelini, Riti individuali di passaggio, in: http://www.psychiatryonline.it/node/4845
 

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