I – Premessa e casi clinici
Un argomento spesso trascurato nei trattati di Psichiatria (e del tutto assente nei manuali diagnostici) è il settore sano della mente del paziente che si affianca, o è sottostante, a quelli malati. Non si trovano, perciò, facilmente (o non si trovano affatto) indicazioni su come individuarlo e raggiungerlo. Eppure questa parte sana, se riconosciuta, è l’unica che ci consente d’instaurare un’alleanza terapeutica e che ci permette di capire, valutandone i cambiamenti nella sua saldezza e funzionalità, se il rapporto instaurato è effettivamente terapeutico ed in che misura esso sta progredendo. La diagnosi di quanto, nel modo d’essere e nel comportamento del paziente, spetta alla sua parte sana, è spesso resa difficoltosa da ostacoli di varia natura che limitano, nel terapeuta, la libertà interiore di pensare e di capire. Vediamone alcuni esempi clinici.
Nicola – Sono talora le nostre stesse teorie che si rivelano fuorvianti. Nella psicopatologia psicoanalitica, ad esempio, il modello della mania come negativo della melanconia, ossia come “difesa dalla perdita oggettuale, tramite la negazione ed il trionfalismo onnipotente” [15, pag. 15] porta a vedere, in tale stato, quanto di più lontano dalla realtà – e quindi dalla “normalità” – possa esserci nel paziente. Ciò che ho riscontrato in un caso clinico mi pare, per molti aspetti, in contrasto con questo modo di concepire lo stato maniacale. Si tratta di Nicola, uomo di 40 anni, celibe, di professione assistente in un collegio per ragazzi tra i 10 e i 15 anni. Per lungo tempo ritenuto affetto da “Depressione Maggiore Ricorrente” e trattato con farmaci antidepressivi, all’improvviso manifestò una sintomatologia maniacale di clamorosità tale da richiedere un lungo ricovero in ambiente psichiatrico. Al classico corteo di sintomi maniacali, si aggiungeva un delirio di grandezza a contenuto mistico che lo portava a credersi – lui, persona ordinariamente timida e di modeste ambizioni – prescelto da Dio per la missione di “salvare il mondo”. Trattato a lungo con farmaci antipsicotici, dimesso dall’ospedale, ritornato la persona umile e schiva di sempre, è a questo punto che inizia la cura con me. Dopo circa un anno di trattamento, Nicola mi rivela un segreto: da sempre la sua fantasia (ed anche qualche timido, ma pur sempre pericoloso, tentativo di tradurla in atto) è dominata dalla pedofilia. Ebbene, l’unico periodo della vita di Nicola in cui l’attrazione per i bambini gli era parsa completamente superata era stato quello maniacale. Le fantasie pedofile, si chiarì, erano per lui il modo di sanare l’antica ferita narcisistica di un’infanzia gravemente carente di cure parentali: l’identificazione con un genitore idealizzato (quale quello che il piccolo Nicola avrebbe voluto possedere) lo faceva sentire autorizzato ad immaginare un rapporto sessuale incestuoso proibito agli altri comuni mortali; rapporto che, grazie all’idealizzazione ed alla negazione di tutti i problemi connessi, secondo lui avrebbe dovuto essere solo fonte di benessere e piacere per il bambino e per lui stesso. Il suo sogno, mi confidò, era quello di “sposare un bambino”. Sapeva che ogni bambino, prima o poi, avrebbe dovuto crescere, ma questa considerazione realistica non riusciva neppure a scalfire l’immagine di una vita completamente appagante e felice per lui e per il suo piccolo “coniuge”. Questa fantasia grandioso-maniacale, circoscritta alla sfera sessuale, era per il paziente un sostegno indispensabile, nelle fasi normotimiche, ad una vita per il resto piatta e “normale”: Nicola sembrava come illuminarsi solo quando poteva dedicarsi ai bambini con grande impegno e passione, aiutandoli negli studi e soccorrendoli per ogni tipo di problema o necessità, nel contempo nutrendo verso di loro segreti desideri. Nelle fasi depressive, in quanto motivo di rimuginazioni, la pedofilia era pur sempre presente. Essa non era tanto oggetto di autorimproveri, quanto di sentimenti d’inutilità e di fallimento dei suoi sforzi di rendere felici i suoi piccoli amanti. Solo nell’episodio maniacale la grandiosità, “assoluta” ed estesa a tutta la sua vita, dell’essere il “prescelto da Dio” (essere il bambino amato in modo esclusivo e grandemente stimato dal genitore arcaico idealizzato) gli era parsa sanare l’antica ferita, rendendo non più necessario il ricorso alla sessualità perversa: essa, per un certo periodo, era completamente scomparsa dalla sua fantasia.
Nell’infanzia, Nicola (a fronte di una madre passiva e pressoché inesistente nella vita familiare) aveva stimato oltre ogni misura il padre, ritenendolo fonte unica di saggezza e di virtù; cercava di accompagnarlo ovunque, d’essere partecipe degli interessi e delle qualità idealizzate del genitore, di veder riconosciuto tutto ciò che egli faceva per emularlo. Ma presto la freddezza, l’instabilità e l’insensibilità dell’uomo gli si rivelarono brutalmente: da un certo momento in poi, i comportamenti del piccolo Nicola verso il padre vennero da questi completamente travisati, colpevolizzati, puniti severamente. Ne risultò in Nicola una grave mortificazione che la sua religiosità, sviluppatasi in quel periodo, riusciva a lenire soltanto in minima misura. Possiamo ravvisare, in questa fase della vita del paziente, la “permanenza di due reazioni antitetiche al conflitto con la realtà, come nucleo di una scissione dell’Io” [6, pag. 557, 558]: da un lato, emerse un settore del mondo interno dominato dal riconoscimento della realtà frustrante del rapporto col padre e dalla conseguente, grave mortificazione narcisistica; dall’altro lato fece la sua prima comparsa un settore in cui regna il disconoscimento della realtà, razionalizzato come fede religiosa, che consente un persistente soddisfacimento; soddisfacimento, nel caso di Nicola, non di una pulsione sessuale, ma del bisogno narcisistico di “mirroring” e di fusione con un oggetto arcaico idealizzato. Il “progetto euforico” di un ritrovato, totale controllo sull’oggetto arcaico [15, pag. 17] trova, nel paziente, una sua compiuta definizione solo nell’episodio maniacale. Con esso, egli ritrova il sostegno a quanto rimane del suo sé grandioso arcaico: un sé reso patologico dalla frustrazione, ossia fissato ad una grandiosità incapace di ridimensionarsi ed evolversi, non più recettivo ad influssi del mondo esterno, in parte disintegrato in pulsioni perverse e cieche di fronte alla realtà; tuttavia pur sempre quanto rimane di ciò che è originario, specifico di quest’individuo. La reciproca permeabilità tra i due settori in cui è scissa la vita interiore di Nicola, è minima; o, meglio, esiste un poco di permeabilità a senso unico tra ciascuno dei due settori ed una terza area intermedia, piuttosto esile e discontinua nella sua funzione, recettiva sia agli influssi della realtà, sia, in parte, alle istanze grandiose. Si tratta del “sé religioso” di Nicola, la parte sana di questo paziente; sana anche perché recettiva agli influssi del mondo esterno e, in particolare, tesa ad un riconoscimento e ad una conferma da parte del terapeuta. Quest’ultimo, nel rapporto transferale, viene vissuto come personaggio autorevole, in grado di confermare il carattere sano della fede religiosa di Nicola e di un suo segreto rapporto privilegiato con Dio, sia pure molto ridimensionato rispetto al contenuto delirante della fase maniacale. Per riconoscere come tale questa parte sana del paziente, fu necessario al sottoscritto sgombrare la mente da ogni pregiudizio pro o contro la religione e contro lo stato maniacale. In un successivo periodo, con un working through ripreso più e più volte, si è cercato di operare un “lavoro di tessitura tra i diversi livelli dell’Io, così da garantirne l’attività sintetica e ripararne la scissione” [15, pag. 18]. Tutto ciò, riuscito solo in parte, è stato purtroppo interrotto bruscamente dopo due anni per cause estranee alla cura.
Giorgio – In questo secondo paziente, a rendere più difficile il riconoscimento di una parte sana (per la verità molto nascosta) furono soprattutto gli obblighi interiorizzati legati al ruolo istituzionale dello psichiatra come “normalizzatore”. Si tratta di Giorgio, ragazzo di 28 anni (laureato, disoccupato, convivente coi genitori), da me seguito per alcune settimane nel corso di un ricovero ospedaliero. Lo avevo già conosciuto in alcune consultazioni ambulatoriali, da lui richieste, in cui non si era riusciti a concordare un trattamento sistematico. Ebbi, tuttavia il tempo di raccogliere alcuni importanti dati anamnestici: figlio unico, Giorgio aveva conosciuto con i genitori quasi esclusivamente esperienze di solitudine ed abbandono. La madre, affetta da una grave sindrome ossessivo-compulsiva, sentiva come unico scopo della sua vita il mantenimento dell’ordine e della pulizia della casa, completamente incurante delle esigenze di chi ci viveva. Non si era mai interessata agli studi, alla vita sociale o alla salute di Giorgio, solo al grado di pulizia dei vestiti e soprattutto delle scarpe del ragazzo: lo costringeva a lavarle, anche sotto le suole, ogni volta che tornava a casa. Il padre aveva saputo offrire a Giorgio solo il modello di una vita squallida, del tutto priva di veri interessi e di piaceri: ad esempio, trascorreva le domeniche pomeriggio a mettere in ordine le merci del negozio di proprietà della famiglia, preparandosi per il lavoro della settimana successiva. Giorgio non lo aveva mai visto andare al cinema, leggere un libro o ascoltare della musica. Sempre taciturno e imbronciato, il padre, tuttavia esplodeva, di tanto in tanto, in manifestazioni di violenza (fatte anche di calci e pugni), non tollerando le opinioni politiche di Giorgio e gli amici che frequentava. Con i genitori, il paziente aveva conosciuto solo gelida lontananza oppure scontri violenti. Fu quest’ultima modalità di rapporto che egli scelse per un certo periodo della sua vita: entrato in un gruppo estremista, fece anche parte di un centro sociale e si distinse per alcune azioni violente (contro oggetti inanimati), per cui andò anche incontro a guai con la giustizia. Imbevuto di spirito rivoluzionario, era da tutti ritenuto un modello di decisione e di forza. Tuttavia, per seguire la metafora manzoniana, anche i vasi di coccio possono apparire “forti” se contenuti in un involucro d’acciaio. Uscito da questo “involucro rivoluzionario”, ossia rimasto solo con se stesso quando il suo gruppo politico si dissolse, Giorgio andò incontro a serie crisi, dovendo anche ricoverarsi, in due occasioni, per episodi psicotici diagnosticati come schizofrenici. Quando lo vidi ambulatorialmente, Giorgio era in stato di compenso, pur non seguendo terapie farmacologiche, e non presentava segni evidenti di deterioramento. Lo persi di vista per alcuni mesi convinto, sbagliandomi, che la sua situazione potesse rimanere stabile per molto tempo. E ora me lo ritrovavo in reparto nel pieno di un episodio schizofrenico acuto caratterizzato da deliri non sistematizzati, allucinazioni uditive frammentarie, imponenti depersonalizzazione e derealizzazione, oltre che da comportamenti impulsivi apparentemente privi di senso. Non mi chiese esplicitamente dei colloqui, ma dava chiari segni di gradire i miei inviti a seguirmi nello studio. Ho usato la parola “colloqui”, ma sarebbe più esatto definirli “incontri” quasi del tutto privi di parole. In uno di questi, Giorgio, dopo aver borbottato qualche frase incomprensibile, mi fissò a lungo in silenzio, poi disse: “Ho bisogno di toccarla… Si lasci toccare!”. E questo mentre si avvicinava con aria spaventata. Sembrava aver paura della mia reazione, ma nello stesso tempo di se stesso, di quello che sembrava un impulso irrefrenabile. Dopo avermi sfiorato il braccio, tornò a sedersi, sempre molto impaurito e non disse più nulla. Il giorno seguente, Giorgio mi seguì in studio con un’aria quasi di sfida. Dopo essersi seduto, per qualche minuto pareva come assorto nei suoi pensieri; poi, fissandomi negli occhi, si alzò e con aria decisa si sfilò i pantaloni e mi mostrò i genitali. Rivestitosi, sempre fissandomi, disse: “Ha visto, vero?” e furono le uniche parole di quella seduta. In situazioni di questo genere, l’esperienza mi ha insegnato che l’unico modo per entrare in rapporto con pazienti così sofferenti è affidarsi alle sensazioni spontanee che si avvertono in loro presenza. Nelle circostanze di cui ho riferito, mi scoprivo molto meno imbarazzato di quanto io stesso avrei previsto: provavo la sensazione che Giorgio, più che provocarmi, mi volesse comunicare un’esigenza importante; e questa sensazione, nella mia mente, lottava contro la preoccupazione riguardo ai farmaci che avrei dovuto prescrivergli ed all’idea di chiamare subito l’infermiere perché glieli somministrasse. Prevalse la prima sensazione: non chiamai l’infermiere, non gli modificai la terapia ed il giorno seguente invitai Giorgio, come al solito, a seguirmi in studio, essendo io animato più dal desiderio di andare incontro alle sue necessità che dal bisogno di frenarlo. Fu il primo di una serie di incontri più tranquilli, in cui Giorgio riprese gradualmente a parlare in modo via via più comprensibile, senza più esprimersi attraverso gesti impulsivi.
Nelle consultazioni ambulatoriali che avevano preceduto il ricovero, il paziente mi aveva dato la chiara impressione d’essere una persona molto fragile, ipersensibile alla lontananza o all’eccessiva vicinanza delle persone cui è affettivamente legato. Mi aveva, ad esempio, parlato a lungo del suo difficile rapporto con un amico con cui aveva condiviso le più importanti esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza e che ora, fidanzato e molto impegnato con il lavoro, poteva solo concedergli brevi incontri di pochi minuti. Ma questi appuntamenti lo turbavano: “Con un amico si può andare al cinema, o a ballare in cerca di ragazze, ma trovarsi così, solo per vedersi, per dirci che siamo ancora affezionati l’uno all’altro, mi da fastidio, mi sembra qualcosa di omosessuale”. Giorgio soffriva per la lontananza dell’amico, ma anche per una vicinanza troppo intima che gli pareva intrusiva, invadente. – Per inciso, il paziente definiva “d’invasione” le sensazioni legate alla depersonalizzazione durante le crisi. – Ciò che Giorgio voleva comunicarmi, in quei due colloqui in ambiente ospedaliero di cui ho riferito, era del tutto simile: da un lato, esprimeva l’esigenza che io fossi “toccato”, coinvolto dai suoi problemi; d’altro lato esibiva il suo genitale maschile adulto, con cui mi faceva presente che si sarebbe opposto ad ogni tentativo di passivizzarlo e d’infantilizzarlo. Il paziente lottava disperatamente (e chiedeva il mio aiuto) per difendere un equilibrio interiore molto fragile: quello fondato su di una sorta di “omeostasi narcisistica” che sarebbe stata facilmente sconvolta da un’eccessiva lontananza e da un’eccessiva vicinanza delle persone per lui importanti; fragilità interiore che spiega la frequente interruzione dei rapporti terapeutici e il continuo passaggio da un curante all’altro che caratterizza la sua vita. Negli episodi di cui ho parlato, la modalità d’esprimersi di Giorgio è sicuramente malata, dominata da una “equazione simbolica”, tipicamente schizofrenica, che confonde il simbolo con la cosa simbolizzata. Tuttavia il contenuto di quanto espresso, ossia la sua consapevolezza (benché confusa) della propria fragilità e dell’esigenza di una “distanza ottimale” dal terapeuta, nonché il bisogno di comunicare questa sua esigenza e di chiedere aiuto, appartengono alla parte sana di questo paziente. Parte sana che il sottoscritto ha potuto comprendere solo mettendo da parte l’imperativo, implicito nel proprio ruolo istituzionale, di por fine con ogni mezzo e immediatamente ai comportamenti anomali e “scandalosi”.
II – Salute mentale manifesta o latente
1. I criteri della “neurologia con sintomi mentali” – “La psichiatria – scrive Romolo Rossi – seguendo esigenze di evidence… ha seguito vie schematiche e descrittive secondo le linee del comportamento rilevabile… lontano dal mondo interno e dal vissuto, non “obbiettivabili” e meno quantificabili. Ciò ha prodotto… un essiccamento della disciplina ed ha messo in ombra i vivaci e complessi coinvolgimenti con la realtà antropica più generale, dalla letteratura all’arte…” [17, pag. V]. Ciò cui stiamo assistendo – l’ultima edizione del DSM dell’American Psychiatric Association [1] ne è una testimonianza – è la progressiva “… fine della Psichiatria e la sua sostituzione con una neurologia con sintomi mentali, in cui lo studio, l’approfondimento, il chiarimento dei fenomeni della mente non avrebbe più importanza, come ha un’importanza relativa ai fini neurologici l’emozione che ha un emiplegico nel non poter più muovere l’emilato” [17, pag. 15]. La “neurologia con sintomi mentali” considera, quindi, la mente come puro epifenomeno privo della capacità di agire su se stesso e di retroagire sul suo substrato. L’attenzione minima prestata alla vita soggettiva fa sì che ci si limiti al riscontro delle dichiarazioni del paziente (o di altri) riguardo alla sua sofferenza ed a quello del suo comportamento oggettivamente rilevabile. Ciò comporta una diagnosi di salute mentale spesso errata perché i criteri su cui essa si basa (assenza di sintomi psichiatrici manifesti o dichiarati, oggettiva capacità d’adattamento, autonomia apparente) possono facilmente essere fuorvianti. Ciascuno di questi criteri, infatti, è frutto di una valutazione che resta alla superficie della vita soggettiva: essa non coglie, dei fatti rilevati nel paziente, il significato che solo un’immersione empatica nel mondo interiore di questa persona permetterebbe di comprendere.
La scomparsa dei sintomi psichiatrici può, effettivamente, essere espressione di un recuperato, valido controllo sul proprio disagio soggettivo; tuttavia essa può anche essere significativa di un cambiamento non appariscente ed a carattere patologico: ad esempio la perdita di contatto con le proprie emozioni (alexitimia quale matrice di future, gravi affezioni psichiatriche); oppure il passaggio ad investimenti emotivi che il paziente sente il bisogno di dissimulare. Nel caso di Nicola, la remissione della sintomatologia maniacale comportò il disinvestimento di un “progetto euforico” che, sia pur nella follia, aveva temporaneamente “sanato” l’antica ferita narcisistica, ed il re-investimento e la riattivazione della pedofilia, ossia di una patologia più pericolosa e meno facilmente trattabile. Oltre a questo, la diagnosi di salute mentale basata sull’assenza di sintomi esclude, nella mente del terapeuta, la possibilità dell’esistenza di un settore sano attivo, sottostante la sintomatologia del paziente, quale quello di Giorgio al di sotto dell’equazione simbolica schizofrenica o quello che, in Nicola, si esprimeva con modalità delirante nella fase maniacale. Una terapia sintomatica somministrata senza che sia stato compreso il significato soggettivo del sintomo lascia spesso, nel paziente, uno stato di “normalità” non disgiunta da un disagio non facilmente definibile. Un’immersione empatica prolungata rivela che la soppressione del sintomo è stata vissuta dal paziente come rinuncia all’espressione di una parte, ancora non esplorata, della sua vita interiore e della sua storia, come impossibilità di disporre più liberamente di una parte di sé [14]. Un disagio di questo genere era stato prodotto dalla terapia sintomatica farmacologica del delirio mistico di Nicola (e, come vedremo, dei suoi stati depressivi) o quella dei comportamenti impulsivi apparentemente immotivati di Giorgio.
La capacità d’adattamento all’ambiente può essere prevalentemente di tipo attivo, alloplastico, e in questo caso è espressione del vigore e dell’integrità interiori di questa persona; ma può essere anche di tipo passivo ed autoplastico, portando al sacrificio di ciò che, nella vita soggettiva di quel particolare individuo, è essenziale. Per distinguere l’una dall’altra queste due eventualità è necessario cogliere empaticamente ed in profondità il particolare nucleo fondamentale della vita interiore che, come spiegherò più sotto, coincide con il settore più sano. L’autonomia può essere il prodotto di circostanze favorevoli nelle quali si trova a vivere la persona in esame e del fatto che, in tale situazione, le sue risorse interiori sono sufficienti. Può, tuttavia, essere anche significativa dell’incapacità di quest’individuo d’instaurare, all’occorrenza, rapporti di dipendenza sana, caratterizzata essenzialmente dalla possibilità di chiedere aiuto, riceverlo e giovarsene; caratterizzata, inoltre, dalla facilità con cui essa può essere superata appena il bisogno d’aiuto sia stato soddisfatto e distinta, anche in questo, dalla dipendenza patologica o addiction. Quest’ultima è spesso mascherata da pseudo-autonomia riguardo ai rapporti umani, mentre la schiavitù si sposta su oggetti inanimati, sostanze o attività; oppure si manifesta come adattamento conformistico compulsivo alle regole di un gruppo sociale. In entrambi i pazienti descritti più sopra, il settore sano della loro mente, appena fu possibile individuarlo e “parlargli”, si esprimeva con una richiesta d’aiuto che era stata estranea ai periodi “normali” ed “adattati” della loro esistenza: in Nicola quella di un sostegno e di una conferma ad un’area del suo mondo interno che si trovava in equilibrio tra il “progetto depressivo” di una completa rinuncia all’oggetto arcaico (ed alla gioia di vivere) e il “progetto euforico” di un “rétablissement narcissique” totale, al di fuori delle possibilità reali [7]; in Giorgio si trattava della richiesta dell’appoggio ad un nucleo centrale della sua vita interiore che poteva conservare un minimo d’integrità solo evitando la lontananza o una vicinanza eccessiva dell’oggetto d’amore.
2. Le “aree” della mente – È un fatto di comune riscontro che anche le persone ordinariamente più sagge ed equilibrate, in particolari circostanze possono momentaneamente assomigliare a pazienti psichiatrici. All’opposto, anche i pazienti più gravi danno talora prova di lucidità ed assennatezza sorprendenti. Ciò si può spiegare supponendo l’esistenza, nella mente di ciascuno, di aree diverse, presenti in proporzioni variabili da individuo a individuo; aree che possono essere selettivamente attivate da fattori esterni negativi oppure favorevoli. La persona sana non è interamente ed assolutamente tale, ma ha una prevalenza della sua parte sana; la persona malata ha una prevalenza dell’area malata, ma anche il paziente più grave ha, a volte nascosta, una parte sana. Ciò rappresenta l’argomento principale di questo scritto.
In un lavoro del 1963, scritto a quattro mani con Seitz [9], Kohut descrive due specifici settori della mente. Usando ancora terminologia e concetti hartmaniani, egli li denomina area di “neutralizzazione progressiva” e, rispettivamente, area di “traslazione”. Nella prima, quale risultato di una graduale neutralizzazione, si stratificano livelli progressivamente “de-istintualizzati” della mente, per cui si passa senza soluzione di continuità dalla più antica e profonda vita pulsionale al più evoluto settore “autonomo” e “libero da conflitti” dell’io. Si tratta di un continuum sia strutturale (i contenuti più profondi possono liberamente accedere alla coscienza), sia storico (l’evoluzione avviene gradualmente, senza fratture). Nella seconda area, quella della traslazione, la continuità è, invece, interrotta dalla barriera della rimozione e delle altre difese. Qui i contenuti inconsci possono trovare un modo di esprimersi nella coscienza tramite, appunto, la traslazione. Per inciso, Kohut usa il termine “traslazione” (o transfert) nella sua accezione originaria freudiana, ossia come denominazione del fenomeno per cui elementi rimossi si “impadroniscono” di contenuti della coscienza e si esprimono tramite essi. Il sogno, ad esempio, è un fenomeno di traslazione. La traslazione che può avvenire (ma non sempre avviene) nel rapporto terapeutico è solo un caso particolare di questo fenomeno; l’impiego della parola “transfert” per denominare senz’altro la relazione con l’analista rappresenta, per Kohut, un uso improprio del termine. Usando concetti elaborati successivamente da questo stesso Autore, possiamo dire che l’area di “neutralizzazione progressiva” è frutto di una serie di “frustrazioni ottimali” sia del soddisfacimento pulsionale, sia delle istanze grandiose che appartengono alle configurazioni narcisistiche originarie; essa è prevalente nelle persone più sane. Viceversa l’area “di traslazione”, caratterizzata da discontinuità al suo interno, è frutto di frustrazioni traumatiche; essa prevale nelle persone nevrotico-normali.
Alle due aree delineate da Kohut è possibile affiancarne una terza, descritta in anni più recenti da Symington [21, pag. 1060 e seg.], la prevalenza della quale si traduce in un quadro clinico di tipo psicotico. Per spiegare di che si tratta, l’Autore fa uso di termini insoliti in un contesto scientifico preferendo, anziché lo “psicanalese”, l’impiego di semplici metafore create dai pazienti stessi. Così, per descrivere il nucleo centrale di quest’area, egli usa la parola “jelly” (gelatina), in quanto si tratta di un raggruppamento di frammenti “sbriciolati”, privi di coesione reciproca o, fuor di metafora, privi della capacità di creare nessi significativi tra loro. Corrisponde all’agglomerato di “elementi beta” di Bion [3] o all’area dominata da un “caos pre-psicologico” di Kohut [10]. La “jelly” mantiene una parvenza di coesione solo in virtù di una “crust” (crosta) che si forma grazie ad influenze esterne e che spinge il caos interiore in uno stampo che lo farà apparire come entità unificata. Mentre la “jelly” è priva di “principio motivazionale”, la “crust” che l’avvolge si conforma, nelle sue direttive, ad un ordine esterno (che può assumere la forma di un’ideologia, di una religione, di una devozione ad una figura carismatica o di una qualsiasi addiction), oppure ad una rigida contrapposizione ad esso. La “crust”, nei suoi rapporti col mondo esterno, è caratterizzata da due coppie antitetiche definite “glue” (colla) in contrasto con “paranoia” e, rispettivamente, “worm” (verme) opposto a “god” (dio). Nella prima, ad un attaccamento “glue-like” – ossia di tipo adesivo – all’oggetto esterno, si contrappone una distorsione paranoide dell’immagine dell’oggetto, visto (l’oggetto stesso e non il rapporto di dipendenza patologica che lega a lui) come fonte di minaccia per l’identità separata del soggetto. Nella seconda coppia antitetica, alla totale svalutazione di sé (il paziente agisce come se si sentisse un “verme”), si contrappone l’onnipotenza di un “god” dotato della capacità di manipolare a proprio piacimento il mondo tramite scissioni, disconoscimenti, identificazioni proiettive ed introiettive. Fattori come invidia, gelosia ed avidità sono definiti “intensifiers” in quanto, oltre a caratterizzare il rapporto col mondo esterno, essi intensificano lo stato di disgregazione “liquida” della “jelly” e la rigidità della “crust”. Le caratteristiche di quest’area fanno sì che la persona in cui essa prevale sia incapace d’instaurare relazioni sane, soprattutto di tipo terapeutico. Esiste, tuttavia, all’interno della “jelly”, un frammento denominato “ovum” (ovocellula). Esso è un potenziale embrione che come tale può accrescersi inglobando le parti sbriciolate della “jelly”, ossia può integrarle in un settore dotato di coesione e di “principio motivazionale autonomo” [21, pag. 1067]. Perché ciò avvenga, è necessario che lo “ovum” venga “fecondato” da un apporto esterno; sulla natura di tale apporto tornerò verso la fine di questo scritto. Lo “ovum” rappresenta, quindi, l’elemento sano (o potenzialmente sano) presente anche nello psicotico; la formulazione di una diagnosi di quanto è riferibile a tale frammento rappresenta, perciò, il compito più difficile e più importante nel trattamento di questo tipo di paziente.
3. Diagnosi riferita ad “aree”: stato di salute – Da quanto detto, consegue che, nella valutazione dell’integrità mentale di una persona, la diagnosi possibile non è di uno stato di salute “assoluta e totale” (che non esiste mai) e neppure di presenza di una parte sana (che esiste quasi sempre, se non altro come potenzialità), ma di estensione, stabilità e funzionalità di questa stessa parte. Si tratta di una diagnosi relativamente agevole quando l’area sana del mondo interno prevale, ma anche in questo caso s’impone una precisazione.
Come si è visto più sopra, assenza di sintomi, oggettiva capacità d’adattamento ed autonomia apparente possono, al più, costituire criteri accessori nella valutazione di uno stato di salute mentale; se considerati come criteri “fondamentali” (come se essi definissero ciò che è essenziale nella salute) essi si rivelano facilmente fuorvianti. Al contrario, il modello teorico di Kohut e quello di Symington ci consentono d’individuare un altro criterio più attendibile, fondato su quanto si può rilevare tramite un’immersione empatica nel mondo soggettivo del paziente e, quindi, sul significato profondo dei fatti oggettivi riscontrati. In Kohut, la qualità principale dell’area più sana, quella di “neutralizzazione progressiva”, è la permeabilità, vale a dire la possibilità di libero contatto fra tutte le sue parti; ciò comporta facilità d’accesso alla coscienza di quel “sé nucleare” che rappresenta l’evoluzione delle configurazioni narcisistiche originarie, che affonda le sue radici in esse ed in cui è inscritto il “progetto nucleare” specifico di quell’individuo [10]. Anche in Symington lo “ovum fecondato”, lo “embrione” del settore sano, è l’unica struttura capace di creare uno stato di coesione interna fondato su di un “principio motivazionale autonomo”, peculiare di quella determinata persona. I due modelli convergono nel definire, come aspetto essenziale della salute mentale, la capacità della persona di “essere se stessa”, ossia d’affermare e preservare quel settore della sua vita soggettiva che la caratterizza come individuo unico e irripetibile: lui o lei e nessun altro.
Un contatto con quanto d’essenziale esiste nel proprio mondo interno ed in quello altrui si manifesta con esperienze soggettive spontanee, sempre nuove, significative di libertà interiore: la “unbidden experience” secondo Stern [19, pag. 228]. Questa realizza, attualizza la nostra specifica natura; da forma emotiva e cognitiva a ciò che si è; consente di trarre, dagli aspetti più profondi ed autentici del proprio mondo interno, le motivazioni e le energie necessarie per una vita vissuta nella sua pienezza. La capacità d’entrare in sintonia con la soggettività di persone significative permette, inoltre, di disporre di un’ulteriore fonte d’arricchimento interiore e di sostegno alla coesione interna [10, pag. 39]. Tutto ciò si traduce nella capacità d’avvertire, almeno a tratti, sentimenti di gioia e di carattere significativo del vivere; fatto, questo, che testimonia uno stato complessivo di salute molto di più rispetto alla possibilità di provare singoli piaceri o all'assenza di sofferenze. [10, pag. 25, 26 e nota pag. 269]. Riguardo alla stabilità dello stato di salute, essa si misura in base alla capacità di salvaguardare la propria esistenza soggettiva individuale, vale a dire “un sé non incline a frammentarsi, indebolirsi o perdere di armonia, salvo gravi traumatizzazioni” [10, pag. 100]. Quest’ultima osservazione di Kohut rimanda alla più difficile diagnosi di quanto spetta ancora al settore sano quando la vita soggettiva è stata travolta da “gravi traumatizzazioni” recenti o antiche.
4. Diagnosi di quanto rimane sano nel malato – In caso di malattia mentale manifesta, un settore sano superstite consente al paziente di continuare ad “essere”, ossia mantenere un contatto con i residui, sia pur difettosi, del sé nucleare [10, pag. 185], lottando contro il pericolo di “non essere più”, vale a dire soccombere all’influenza di tutto ciò che, nel mondo esterno ed interno (ivi compresa la sfera somatica), è ostile alla propria sopravvivenza soggettiva individuale. Nella “scelta” di una malattia o di una delle sue varianti cliniche è possibile ravvisare la “regia” di tale settore sano residuo, oppure la sua scomparsa. Se ancora esiste, l’esigenza di una difesa o di una riconquista di quanto di essenziale esiste nel mondo soggettivo può esprimersi nella stessa patologia. Questa, in tal caso, denota la capacità di manifestare sofferenza (anziché soccombere ad essa in modo silente), il che significa saper comunicare quanto si prova, segnalare a se stessi e ad altri il proprio stato di crisi, chiedere aiuto. Ad esempio, nel carattere clamoroso dell’episodio maniacale di Nicola si può ravvisare un’implicita richiesta d’aiuto a chi lo circondava. Una richiesta certamente ancora confusa, oscura a lui stesso, non rivolta a qualcuno in particolare; eppure capace di suscitare negli altri un atteggiamento riparativo e, per effetto di questo, d’evolversi in coscienza di malattia, accettazione di una cura ed alleanza terapeutica. Tutto ciò era assente in quell’equilibrio instabile e patologico che aveva preceduto la crisi; equilibrio fondato, nelle fasi normotimiche, sugli stimoli emotivi legati alla pedofilia e periodicamente dissolto nell’auto-annientamento degli episodi depressivi. Se ravvisiamo, in “crisi” di questo genere, l’effetto di un settore sano della mente che spinge a superare un’organizzazione patologica degli affetti e dello stile di vita, occorre smentire l’opinione diffusa (e propria della “neurologia con sintomi mentali”) che vede la malattia come sinonimo di sofferenza espressa in modo clamoroso e l’assenza di questa come significativa di “normalità”.
Talora il settore patologico della mente si esprime con una condizione che appare del tutto asintomatica. In questi casi, ci troviamo di fronte al paradosso di manifestazioni di sofferenza che rappresentano l’unica espressione della parte sana del paziente. Un semplice esempio: vengo chiamato per una consulenza in un reparto di cardiologia dove un paziente (Marco, 50enne, ricoverato per infarto del miocardio) soffre di stati ansiosi e d’insonnia. Prima di decidere se prescrivergli farmaci, chiedo a Marco di parlarmi della sua vita. Dopo aver descritto sommariamente famiglia e lavoro, il paziente si sofferma a lungo sulla sua grande passione: la bicicletta. Sembra che questo sport costituisca il centro dell’esistenza di Marco; ad esso egli dedica tutto il suo tempo e le sue energie, riservando al resto solo quanto è inevitabile; insomma, una vera e propria addiction. Ad un certo punto, mi dichiara con fierezza d’essere ancora capace, a 50 anni, di battere in volata i suoi amici ventenni: Marco sembra essersi del tutto dimenticato di dove si trova e per quale motivo ci è arrivato; in quel momento, come gli faccio notare, l’ansia è completamente scomparsa. In questo paziente il sintomo ansia ha un significato ambiguo: paura di non poter più inforcare la sua bicicletta o preoccupazione per il pericolo che la schiavitù per lo sport lo conduca alla morte? In altre parole: espressione del settore malato, addictive, della sua mente, oppure di un settore sano che vede messa in forse la sua stessa sopravvivenza? Sicuramente è espressione di un settore sano il fatto che Marco abbia chiesto di chiamarmi: una semplice prescrizione di ansiolitici ed ipnoinducenti avrebbe potuto essere fatta anche dai medici del reparto e non necessariamente da uno psichiatra; con quest’ultimo, viceversa, Marco prevedeva che sarebbe stato possibile parlare e chiarire i motivi della sua sensazione d’allarme. In questo caso, una patologia apparentemente asintomatica, ossia una sofferenza “agita” in un’addiction e non “avvertita” dal paziente, era contrastata da un “segnale di crisi” (l’ansia e soprattutto il modo con cui Marco aveva deciso di curarla); segnale da intendersi come l’emergere di una primitiva forma di autocoscienza sana.
In casi estremi, l’espressione del settore sano della mente di una persona è la comparsa stessa di una grave forma di follia: in situazioni d’isolamento protratto e totale deprivazione affettivo-empatica (prigionia, lotta contro regimi autoritari condotta in completa solitudine, come nel caso degli oppositori al nazismo descritti da Kohut), una psicosi delirante-allucinatoria consente di creare “oggetti-sé sostitutivi” che sopperiscono all’assenza di sostegni esterni alla vita soggettiva e preservano il Sé dalla completa dissoluzione [10, pag. 107, 108]. Quando, viceversa, manca la risorsa estrema della follia, l’impossibilità d’essere se stessi in una situazione gruppale “impazzita” può portare al suicidio.
A quest’ultimo proposito, si può considerare paradigmatica di certi suicidi adolescenziali la vicenda di Romeo e Giulietta [18]. Le loro famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono impegnate in una faida interminabile che le oppone l’una all’altra: due gruppi in assunto di base di attacco-fuga in cui l’imperativo di odiare e combattere sopprime ogni esigenza sana delle persone che li compongono; non ci sono più individui, ciascuno con le sue peculiarità ed esigenze, ma solo combattenti resi tra loro uguali dalla lotta. Eppure i due giovani, a dispetto delle pressioni cui sono esposti, riescono ad affermare una loro sana individualità. L’amore, che li lega, è infatti il sentimento per il quale, più di ogni altro, è impossibile mentire a se stessi o sottomettersi al volere altrui. È espressione di quello che si è veramente, al di là di ogni maschera o falso modo d’essere che ci s’impone o che altri impongono [11]. Tuttavia l’odio che li circonda finisce per travolgere i due innamorati. Fra’ Lorenzo, il religioso che li ha uniti in matrimonio, dice a Giulietta in lacrime di fronte alla salma di Romeo: “A greater power than we contradict / Hath thwarted our intents. Come, come away” (Un potere più forte di noi, con il quale non possiamo contendere, ha frustrato i nostri disegni. Vieni, vieni via) [18, 5, 3, pag. 248]. Il potere distruttivo dei gruppi in assunto di base ha prevalso e solo il sacrificio dei due ragazzi riuscirà, tardivamente, a riportare alla ragione le famiglie.
III – La libertà interiore del terapeuta
1. Situazione terapeutica come gruppo – La possibilità di conflitti tra il gruppo e le esigenze sane di individui che non vogliono rinunciare a rimanere tali porta a chiedersi se ciò può verificarsi nella situazione terapeutica; essa, per essere tale, dovrebbe semmai cogliere e soccorrere, nel paziente, l’individuo particolare che egli è, vale a dire la sua parte sana. Nell’esperienza dei gruppi di Bion [2] è significativo che veri e propri individui compaiono nella configurazione più evoluta, ossia nel “gruppo di lavoro”, ed in ciò consiste l’essenza del processo terapeutico volto a creare un gruppo di questo genere. Nei più primitivi gruppi “in assunto di base”, infatti, il comportamento ed il modo di pensare e sentire di ognuno tendono ad uniformarsi a quelli di tutti gli altri, obbedendo ad una “parola d’ordine” comune, e le peculiarità di ciascuno scompaiono. Solo nei gruppi di lavoro compaiono individui capaci di collaborare per scopi razionali ed aderenti alla realtà, ed ognuno trova nella collaborazione la possibilità di far emergere e valorizzare le proprie particolari caratteristiche ed attitudini.
La situazione terapeutica costituisce un microgruppo non solo perché a paziente e terapeuta si affiancano altre figure professionali ed amministrative, ma anche perché nella stessa diade curante-malato – come messo in evidenza negli ultimi decenni – esiste una dimensione intersoggettiva e sovrapersonale (e quindi con caratteristiche gruppali) denominata dai vari Autori “intersubjective field” (campo intersoggettivo [19]), “corporate personality” (personalità congiunta o condivisa [20, 21]) “analytic third” (terzo analitico [12, 13]); dimensione della diade capace di condizionare il comportamento ed il modo di pensare e sentire di entrambi i componenti. È, quindi, in gioco nello stesso terapeuta la libertà interiore d’utilizzare la propria parte sana. Nel caso in cui prevale l’assunto di base di dipendenza, il terapeuta finisce per passivizzare ed infantilizzare il paziente; prospettiva cui, come si è visto, Giorgio si opponeva energicamente. Se si costituisce un gruppo “di accoppiamento”, prevale l’attesa di una mitica guarigione sempre distante nel tempo, a meno che il paziente non interrompa questo equilibrio patologico con i segni inequivocabili di una crisi. Se, infine, prende il sopravvento l’assunto di base di attacco-fuga, la coppia terapeuta-paziente si trova coinvolta in una lotta contro una “malattia” cui entrambi si sentono estranei; malattia identificata con una parte della vita soggettiva del paziente che, pertanto, non potrà mai essere integrata nel resto della sua personalità. Oppure il terapeuta si trova impegnato in una lotta contro le resistenze al trattamento ed i comportamenti oppositivi del paziente; comportamenti attribuiti senz’altro alla sua “follia”. In tutte queste situazioni, sia il paziente, sia lo stesso terapeuta, cessano d’essere individui liberi, aderenti alla realtà, in grado di collaborare per un’effettiva cura e capaci d’utilizzare, per questo scopo, le loro risorse personali.
2. Dimensione intersoggettiva: il Superio condiviso – I modelli teorici di una dimensione intersoggettiva nella diade curante-paziente consentono di comprendere più approfonditamente ciò che accade nel mondo interno dell’uno e dell’altro. Nell’incontro di queste due persone, si stabilisce un “campo interpersonale” [19] (altrimenti definito come “personalità congiunta” o “condivisa” [20, 21]) come risultato della fusione di una parte di ciascuna delle due personalità. Esso non costituisce una semplice combinazione o somma d’influenze, ma una nuova Gestalt che si modifica continuamente e conferisce agli avvenimenti clinici la loro particolare natura e la loro mutevole forma [19, pag. 231]. Il contatto dell’Io del terapeuta con l’Io del paziente (ossia delle aree della personalità di ciascuno che sono non condivise, personali ed individuali) può essere ostacolato o favorito da una “istanza superegoica condivisa”, che fa parte della dimensione intersoggettiva, ed i cui divieti, ingiunzioni o sollecitazioni possono impedire o facilitare la comunicazione e la reciproca comprensione. A proposito di quest’istanza, sono necessarie due precisazioni. Innanzi tutto essa non va intesa come istanza morale in senso stretto. Symington, al riguardo, cita la fondamentale osservazione di Talcott Parsons:
“… il ruolo del Superio, quale parte della struttura della personalità, dev’essere inteso come relazione tra la personalità e la cultura dominante nel suo complesso. Tramite esso, diviene possibile uno stabile sistema d’interazione sociale. Freud pose correttamente l’accento sui valori morali di cui il Superio è il depositario, ma la sua concezione fu troppo ristretta: non solo i valori morali, ma tutte le componenti della cultura condivisa sono interiorizzate come parte della struttura della personalità…” [20, pag. 287].
La seconda precisazione è che nel Superio si stratificano diverse componenti con differenti gradi di evoluzione: quelle più primitive tendono a soffocare sentimenti e pensieri spontanei e ad imporre quelli dominanti nel gruppo di appartenenza; viceversa, le componenti più evolute svolgono una funzione di sostegno al sentimento di sé ed all’attività dell’Io, essendo il prodotto dell’interiorizzazione di tutto ciò che, nei genitori e nella cultura di appartenenza, favorì la nascita, la valorizzazione e l’evoluzione di un individuo separato. Il Superio, in quest’ultima funzione, è promotore di una presa di distanza dall’esperienza immediata alla base di una considerazione critica dei luoghi comuni, del senso dell’umorismo [5] e di una visione di sé e degli altri “al di sopra delle parti”. Mentre le componenti più primitive del Superio condiviso dominano nei gruppi in assunto di base, le componenti più evolute costituiscono il fondamento dei gruppi di lavoro. Nel primo caso, alcuni dei valori dominanti, confluiti in quest’istanza, vanno a sostenere e rafforzare affetti a carattere primitivo [20, pag. 287]: aggressività, paura, dipendenza e sentimento d’attesa promettente; mentre nel secondo caso altri valori consentono l’accesso alla coscienza di tutta la gamma degli affetti spontanei che caratterizzano l’individuo.
3. Unipatia, empatia, influenza del diagnosta sulla diagnosi – La dimensione intersoggettiva contiene non solo gli apporti di un Superio condiviso, ma anche sentimenti e pensieri in cui terapeuta e paziente s’identificano sulla base di quella che è stata definita “unipatia”, ossia un sentire e pensare comune da parte non di individui separati (come nell’empatia), ma tra di loro fusi [4]. Ciò che accade nella mente del terapeuta (anche pensieri e sensazioni con l’apparente carattere di “distrazioni” dalla propria attività) è perciò continuamente influenzato da quanto, per il tramite della personalità condivisa e dell’unipatia, proviene dal paziente; come se esistesse un “terzo” invisibile che s’interpone tra loro e funge da intermediario [12, 13]. Tutto questo comporta il rischio di un “contagio psichico”, per cui la mente del terapeuta verrebbe travolta dalla follia trasmessagli dal paziente. Se, nel fronteggiare tale pericolo, prevale l’influenza dei nuclei primitivi del Superio (sia di quello che appartiene al terapeuta, sia di quello condiviso), ogni traccia della follia evocata sarà espulsa dalla coscienza del curante ed egli non potrà più disporne per poter comprendere il paziente. In tal caso, un rapporto terapeutico non è più possibile. Al contrario, la cura può proseguire e svilupparsi solo se la follia evocata nel curante viene fronteggiata dall’attività del suo Io (sostenuta dai nuclei più evoluti del Superio); un Io che rimane distinto da quello del paziente, ma che utilizza quanto trasmessogli dalla personalità condivisa allo scopo di comprendere quello del malato. In altre parole: la cura è possibile ed evolve solo se sulla base dell’unipatia si sviluppa, nel terapeuta, l’empatia quale frutto dell’attività dei settori preconsci del suo Io.
Come in altri ambiti scientifici, anche nella situazione clinica l’osservatore modifica, con la sua presenza e il suo atteggiamento, l’oggetto d’osservazione [10, pag. 62]. Ciò vale anche per la diagnosi del settore sano residuo del paziente psichiatrico. È sano quanto, nel malato, rappresenta e salvaguarda l’essere umano particolare che egli è e quest’individuo, per potersi manifestare, ha bisogno della certezza di poter essere ascoltato, ossia di poter percepire nel terapeuta attenzione e disponibilità a comprendere empaticamente la sua sostanza umana e non solo i sintomi. In caso contrario, verrà completamente bloccata la comunicazione delle esigenze specifiche di quest’individuo, essendo la capacità e la volontà di comunicare (benché in modo distorto e confuso) un’importante manifestazione del settore sano della mente. Se, nel mio colloquio con Giorgio descritto più sopra, avesse prevalso la tentazione di “zittirlo” coi farmaci, solo perché la modalità di comunicazione del paziente era in quel momento anomala, ciò avrebbe soppresso in lui la speranza di potermi “toccare” con i suoi problemi e chiedermi aiuto; ciò significa che non avrei potuto cogliere la manifestazione di quel settore sano che rese possibile un’alleanza terapeutica. Fortunatamente, in quel momento, sulle ingiunzioni e i divieti del mio Superio “normalizzatore”, prevalse una libera attività dell’Io, ossia, di un’istanza razionale in contatto con quanto evocato in me dal paziente. Se, nel mio rapporto con Nicola, avesse prevalso un pregiudizio contro la religiosità (anche perché essa era stata il contenuto del suo delirio) ed avessi respinto ogni richiesta del paziente di accoglierla e valorizzarla, non avrei potuto cogliere un settore sano del paziente; settore che, pur aprendosi agli influssi del mondo esterno, non poteva rinunciare al sostegno emotivo che solo la religione gli offriva. In quel caso i valori di una scienza che fa del realismo ateo un imperativo (ossia un’ingiunzione superegoica) avrebbero impedito alla parte sana del paziente d’esprimersi ed a me di capirla. Se ne può concludere che una diagnosi del settore sano del paziente (e con essa l’inizio di una relazione terapeutica) può essere possibile solo se, tra terapeuta e paziente, si crea un’autentica “libertà relazionale” [19], ossia un rapporto tra due Io distinti ed affrancati dalle ingiunzioni e dai divieti dei nuclei più primitivi del Superio, sia di quelli che appartengono a ciascuno dei due, sia di quelli condivisi.
4. Ostacoli al processo terapeutico: il trattamento del lutto – Il libero contatto tra l’Io del terapeuta e quello del paziente, vale a dire l’essenza del rapporto terapeutico, è continuamente ostacolato da un processo nel quale entrambi i membri della coppia sono coinvolti. Esso è il prodotto dei nuclei più primitivi dell’istanza superegoica condivisa nel cui contenuto confluiscono miti culturali fuorvianti che interferiscono sulla natura della relazione [20, pag 290]. Tra questi, le convinzioni oggi prevalenti riguardo al rapporto curante-paziente occupano un posto di primo piano. La mentalità odierna è sempre più intollerante riguardo ai rischi che una cura può comportare, e ciò si traduce in un rigido sistema di controlli. Si tende a soffocare la libertà di paziente e curante e ad imporre a quest’ultimo di sopprimere sul nascere ogni condizione rischiosa. Un esempio è il lutto, di cui si tende ad ignorare la sua funzione di “meccanismo fisiologico alla base dello sviluppo… che rappresenta, pur nella sua essenza di evento doloroso, la condizione ineludibile dell’evoluzione” [17, pag. 56]. Si tratta di una di quelle condizioni che, in quanto “espressione di una ‘vis sanatrix naturae’ che può lenire sofferenze non patologiche” [17, pag. 38] debbono essere rispettate, richiedono prudenza e, in assenza di precisi segni di complicazioni, astinenza terapeutica. In contrasto con questa concezione, il DSM-5 non esclude più il lutto dalla diagnosi di Depressione Maggiore “per diverse ragioni, tra cui il riconoscimento che il lutto è un grave stressor psicosociale che può provocare un episodio depressivo maggiore in un individuo vulnerabile; episodio che inizia generalmente subito dopo la perdita e può comportare un ulteriore rischio di sofferenza, sentimenti di perdita di valore, ideazione suicidaria, compromissione della salute fisica e peggioramento delle relazioni interpersonali e del rendimento lavorativo” [1, pag. 811]. Come si può facilmente vedere dalle parole che ho sottolineato, una considerazione esclusiva dei “rischi” è sufficiente, per il DSM-5, a far rientrare il lutto in una “malattia”, ossia in una condizione che impone, senz’altro, un intervento medico. La funzione di “vis sanatrix naturae” di quest’esperienza umana (e la parte sana del paziente che in essa si esprime) è qui del tutto trascurata. Un pregiudizio di questo genere è stato alla base dei trattamenti (esclusivamente psicofarmacologici) degli episodi depressivi che, in Nicola, avevano preceduto quello maniacale e di cui i farmaci avevano soppresso ogni manifestazione. In essi, non è stato riconosciuto quanto ascrivibile al lutto (sebbene, in Nicola, si trattasse di un lutto antico), ossia del possibile emergere, benché doloroso, di una parte sana che avrebbe portato il paziente a confrontarsi con la realtà della perdita. Questi trattamenti lasciavano nel paziente un disagio che, come si potè ricostruire in epoca successiva, era da attribuirsi all’impossibilità d’esprimere la propria disperazione; disagio che Nicola alleviava ripiegando, ogni volta, di nuovo sulla pedofilia.
5. Libertà interiore del terapeuta: come riconoscerla – La libertà del terapeuta di usare la propria mente o, meglio, la capacità di permettere alla mente di funzionare liberamente (capacità di “unbidden experience”) è la condizione che occorre per cogliere quanto nel malato è sano e riconducibile alla sua individualità specifica. Infatti solo un Io libero da condizionamenti può, elaborando pensieri e sentimenti spontanei, comprendere quelli che appartengono al settore più libero della mente del paziente [19, pag. 228, 229]. Come riconoscere questa condizione? Il compito del terapeuta è in questo del tutto sovrapponibile a quello descritto da Hemingway riguardo alla scrittore: “…rendersi veramente conto di ciò che realmente si prova e non di ciò che si suppone si debba provare e si è imparato a provare…” [8, pag. 8]. Rendersi conto di “ciò che realmente si prova”, ossia dei propri sentimenti e pensieri spontanei ed autentici, presuppone che si è sgombrata la mente dall’idea di ciò che si “deve” provare e pensare, cioè da quanto è imposto alla vita soggettiva dal proprio ruolo istituzionalizzato, dalla cultura di appartenenza e da quanto, di tutto ciò, confluisce nelle ingiunzioni superegoiche. Presuppone, inoltre che ci si è emancipati da “ciò che si è imparato a provare” sia esso frutto d’insegnamenti altrui, sia del ricordo di precedenti esperienze. Il cogliere nel paziente l’essere umano particolare che egli è costituisce, infatti, compito esclusivo della sensibilità e non della memoria. Mentre la diagnosi di malattia, cioè l’inclusione del caso in una categoria nosografica, implica un collegamento tra ciò che si percepisce nel paziente ed un concetto già noto, al contrario la diagnosi di quanto spetta alla sua parte sana implica il riconoscimento di una realtà del tutto nuova che solo la sensibilità del terapeuta può cogliere. Si tratta, infatti, di ciò che, nel paziente, lo caratterizza come individuo unico e irripetibile. Anche il ricordo delle teorie che si sono apprese (e delle prescrizioni tecniche che ne conseguono) non sempre è di aiuto. Se esse non si limitano a precisare (tradurre in parole e in concetti) ciò che la sensibilità spontanea suggerisce, ma, al contrario, la contrastano e la sostituiscono, si traducono in un’ingiunzione superegoica.
Spesso sentiamo dire dal paziente: “Chi mi sta parlando? Il “dottore” o lei personalmente?”. Dobbiamo intendere questa domanda come un messaggio ed un avvertimento che provengono dalla parte sana del malato: egli sta cercando di emancipare se stesso e il terapeuta da una “stretta mortale” (“stranglehold”), paralizzante che tiene in ostaggio entrambi [20, pag. 288], ossia dall’ingiunzione superegoica condivisa di “dover sottostare a quanto stabilito dalla scienza”. La domanda del paziente così si può tradurre: “Sta parlando un essere umano in rapporto a quell’altro essere umano che sono io, oppure, per voce sua, sta parlando un’istituzione o una scienza impersonali a quel soggetto che mi si obbliga ad essere e che non sono?”. Una domanda, complementare a quella del paziente, che il terapeuta può porsi e che lo aiuta a capire se sta usando la propria spontanea sensibilità è: “A chi sto rendendo conto di quel che faccio ed a chi sto parlando, in questo momento? Al rappresentante dell’istituzione o della scuola scientifica cui appartengo, oppure a quel paziente che mi sta davanti?”. Se il terapeuta non s’accorge di porsi come portavoce e “sacerdote” della normalità (così come essa è intesa dalla cultura dominante e dalle istituzioni) egli finisce per essere del tutto simile al padre di Don Giovanni quando, eretto e rigido come un monumento di fronte al figlio, si dimostra solo capace di pronunciare parole di condanna (d’ingiunzioni e divieti superegoici) anziché di comprensione [16]. Come Don Giovanni col suo comportamento trasgressivo, anche il paziente non farà che accentuare il suo comportamento patologico perché, di fronte a principi e pretese per lui incomprensibili, sente che tale comportamento è l’unico che gli appartiene. In alternativa, il paziente potrà piegarsi all’ingiunzione superegoica condivisa, simulando (coscientemente o inconsapevolmente) una “guarigione” e rinunciando ad una vera cura. Se il terapeuta s’accorge di star adottando, verso il paziente, un atteggiamento moralistico, questo è un segnale del fatto che l’istanza superegoica condivisa ha preso il sopravvento sulla sua sensibilità. Se è vero che quando di un fatto patologico non si riesce a trovare e fornire una spiegazione, esso diviene oggetto di divieto moralistico [20, pag. 1063], è altrettanto vero che quando un comportamento patologico del paziente diviene oggetto di divieti e ingiunzioni, ciò impedisce di trovarne una spiegazione: la sensibilità del terapeuta è paralizzata per l’influenza di un Superio condiviso, portavoce di una “scienza” che impone al paziente come “deve” essere ed al curante come lo “deve” vedere. Un altro segnale, nel terapeuta, della perdita di contatto con la propria sensibilità è una sensazione di “intoppi e frizioni”, insomma di qualcosa di stonato nella relazione con il paziente e con se stesso, che si manifesta con disagio o impressioni spiacevoli [19, pag. 235, 236]. Ciò è dovuto all’attrito, che si avverte in quel momento, con quei nuclei più evoluti del Superio che, nel terapeuta, sosterrebbero le motivazioni professionali, l’attività dell’Io e l’uso della sensibilità e, nella personalità condivisa, favorirebbero un’autentica “libertà relazionale”. È ciò che avvertii quando, nell’incontro con Giorgio che ho descritto, ero sul punto di fermare con i farmaci il suo comportamento “scandaloso” e quando, nel rapporto con Nicola, ero tentato d’accogliere con freddezza le affermazioni sulla sua fede religiosa.
6. Libertà relazionale ed emancipazione – Il campo relazionale, nella diade terapeuta-paziente, è soggetto ad un continuo “flusso di cambiamento” che modifica continuamente (in modo praticamente imprevedibile) la qualità e la varietà delle esperienze soggettive che esso rende possibile [19, pag. 233]. L’unica condizione che consente al terapeuta di cogliere, in queste variazioni, una possibilità di crescita della relazione (ossia l’acquisizione di una maggiore “libertà relazionale”) è la sua “apertura all’inatteso”, vale a dire l’uso della sua “capacità d’andare incontro alla sorpresa” (“courting surprise”). Si procede a tentoni verso una svolta liberatoria, che consente nuove esperienze spontanee significative e nuove possibilità nella relazione, inclusa quella dell’espressione verbale di ciò che si è capito [19, pag. 237]. In altre parole: il curante può favorire un’evoluzione della relazione terapeutica se è attento a cogliere, nei cambiamenti della personalità congiunta, i momenti in cui prevalgono nuclei più evoluti del Superio condiviso, quelli che consentono ai membri della coppia d’essere individui, d’esprimersi e, comunicando, entrare in rapporto. Il terapeuta, più del paziente, è nelle condizioni d’approfittare di questi momenti favorevoli per bandire dalla sua mente le illusioni e le false idee condivise che sinora imprigionavano lui stesso ed il paziente in un rapporto sterile. Come conseguenza di questa accresciuta libertà interiore del terapeuta e dei suoi influssi sul paziente, il nuovo assetto favorevole della personalità congiunta può divenire più stabile. Ciò significa che il paziente percepisce nel curante un Io disponibile ad un rapporto, anziché la voce di un Superio che vuole solo imporsi su di lui. A questo punto, l’Io del paziente può, rapportandosi con quello del curante, esprimersi, definirsi e rafforzarsi. È questa la condizione che consente le diagnosi più difficili di quanto spetta alla parte sana nel paziente psichiatrico ed è in questo che consiste quella “fecondazione dell’ovum”, di cui si parlava più sopra, che evidenzia ed attualizza le potenzialità sane del malato.
Non è necessario che tutto ciò avvenga all’interno di un setting psicoanalitico, né che quanto il terapeuta ha compreso (come frutto della sua accresciuta libertà interiore) venga comunicato tramite vere e proprie interpretazioni. Queste ultime, infatti, non sono che il compimento definitivo, a livello conscio e manifesto, di un processo liberatorio già iniziato e in gran parte compiuto ad un livello inconscio e preverbale [20, pag. 288]; processo di cui il terapeuta, in virtù della sua “apertura all’inatteso” ha saputo scorgere i segnali potendo, così, catalizzarlo. È il mutato comportamento del terapeuta che rappresenta già una forma efficace di comunicazione. In particolare, il terapeuta si comporta e si esprime in modo più naturale, ed il paziente avverte la certezza che ciò che egli dice è espressione di ciò che pensa e sente e non si tratta di concetti appresi nella propria preparazione professionale [20, pag. 290]. Ciò rappresenta il riflesso di una ritrovata armonia interiore da parte del curante: egli si sente in pieno accordo con le proprie motivazioni terapeutiche (parte del “progetto nucleare” inscritto nel settore più autentico del suo mondo interno); condizione, questa, in netto contrasto con le sensazioni di “attrito” e di “intoppo” che egli avverte quando si sta comportando in modo inautentico e non terapeutico. Quanto al setting psicoanalitico, esso certamente (se se ne fa buon uso) favorisce e catalizza lo sviluppo di un processo liberatorio, ma non lo crea e non è la condizione esclusiva in cui esso può prodursi: si tratta di un processo che avviene spontaneamente in tutti i rapporti umani che hanno lo scopo d’aiutare ed in cui almeno una delle due persone coinvolte è sufficientemente sana e disponibile ad un’immersione empatica nel mondo soggettivo dell’altro.
La “corporate personality”, nella sua configurazione più primitiva, costituisce un mondo illusorio condiviso da terapeuta e paziente che impedisce ad entrambi d’essere veramente se stessi, comunicare e collaborare per la cura [20, pag. 287]. Essa, nel microcosmo della coppia terapeutica, costituisce lo stesso collante che troviamo in certi gruppi più ampi e certe comunità, ossia un modo di stare insieme differente dal contatto tra Io distinti (tra individui liberi d’essere se stessi); contatto il passaggio al quale rappresenta una rivoluzione [20, pag. 290]. Se il lavoro terapeutico è da intendersi come progressivo disimpegno da questo mondo che annienta le individualità, il suo scopo è opposto a quello di certe ideologie o concezioni religiose che tendono ad unire i singoli in entità condivise [20, pag. 287], tacciando di “individualismo” (inteso come egoismo ed asocialità) chiunque voglia innanzi tutto essere e rimanere se stesso, un individuo diverso da tutti gli altri. Al contrario, la nascita di veri individui è condizione ed effetto di un vero rapporto di collaborazione valorizzante (quello del gruppo di lavoro), ossia un rapporto diverso e più evoluto di quello di reciproca sopraffazione. L’egoismo è semmai più diffuso proprio in quei gruppi totalitari che fanno dell’anti-individualismo la loro bandiera, che non concedono ai singoli alcuna occasione di valorizzarsi e che non offrono loro altra possibilità d’esprimere la propria individualità se non nelle condotte antisociali.
Nei fregi del Partenone, costruito in Atene per celebrare la vittoria dei Greci sui Persiani, è rappresentata la lotta dei Lapiti contro i Centauri. È facile capire che cosa è simbolizzato in queste immagini: i Persiani sono rappresentati dai Centauri, esseri umani solo a metà, non ancora usciti dalla loro matrice animale, simili a belve capaci solo di vivere in un branco dove le differenze individuali scompaiono e tutti sanno solo seguire il loro capo. I Lapiti (in realtà i Greci), al contrario, sono esseri umani compiuti, dotati (grazie al “Logos”) d’autocoscienza e capaci, pertanto d’affermare la propria individualità nell’ambito di una comunità più evoluta e più propriamente umana. La vittoria dei Greci sui Persiani fu, nella storia dell’umanità, una prima affermazione di una comunità d’individui pensanti sul branco, della ragione sul cieco istinto, di un rapporto di libera collaborazione responsabile contro uno di obbedienza acritica. Si tratta di una guerra ancora in corso e i nostri sforzi di diagnosticare nel paziente una parte sana (ossia di liberare l’individuo che egli è dalla prigione di un mondo illusorio condiviso) ne rappresenta uno dei tanti episodi.
Un argomento spesso trascurato nei trattati di Psichiatria (e del tutto assente nei manuali diagnostici) è il settore sano della mente del paziente che si affianca, o è sottostante, a quelli malati. Non si trovano, perciò, facilmente (o non si trovano affatto) indicazioni su come individuarlo e raggiungerlo. Eppure questa parte sana, se riconosciuta, è l’unica che ci consente d’instaurare un’alleanza terapeutica e che ci permette di capire, valutandone i cambiamenti nella sua saldezza e funzionalità, se il rapporto instaurato è effettivamente terapeutico ed in che misura esso sta progredendo. La diagnosi di quanto, nel modo d’essere e nel comportamento del paziente, spetta alla sua parte sana, è spesso resa difficoltosa da ostacoli di varia natura che limitano, nel terapeuta, la libertà interiore di pensare e di capire. Vediamone alcuni esempi clinici.
Nicola – Sono talora le nostre stesse teorie che si rivelano fuorvianti. Nella psicopatologia psicoanalitica, ad esempio, il modello della mania come negativo della melanconia, ossia come “difesa dalla perdita oggettuale, tramite la negazione ed il trionfalismo onnipotente” [15, pag. 15] porta a vedere, in tale stato, quanto di più lontano dalla realtà – e quindi dalla “normalità” – possa esserci nel paziente. Ciò che ho riscontrato in un caso clinico mi pare, per molti aspetti, in contrasto con questo modo di concepire lo stato maniacale. Si tratta di Nicola, uomo di 40 anni, celibe, di professione assistente in un collegio per ragazzi tra i 10 e i 15 anni. Per lungo tempo ritenuto affetto da “Depressione Maggiore Ricorrente” e trattato con farmaci antidepressivi, all’improvviso manifestò una sintomatologia maniacale di clamorosità tale da richiedere un lungo ricovero in ambiente psichiatrico. Al classico corteo di sintomi maniacali, si aggiungeva un delirio di grandezza a contenuto mistico che lo portava a credersi – lui, persona ordinariamente timida e di modeste ambizioni – prescelto da Dio per la missione di “salvare il mondo”. Trattato a lungo con farmaci antipsicotici, dimesso dall’ospedale, ritornato la persona umile e schiva di sempre, è a questo punto che inizia la cura con me. Dopo circa un anno di trattamento, Nicola mi rivela un segreto: da sempre la sua fantasia (ed anche qualche timido, ma pur sempre pericoloso, tentativo di tradurla in atto) è dominata dalla pedofilia. Ebbene, l’unico periodo della vita di Nicola in cui l’attrazione per i bambini gli era parsa completamente superata era stato quello maniacale. Le fantasie pedofile, si chiarì, erano per lui il modo di sanare l’antica ferita narcisistica di un’infanzia gravemente carente di cure parentali: l’identificazione con un genitore idealizzato (quale quello che il piccolo Nicola avrebbe voluto possedere) lo faceva sentire autorizzato ad immaginare un rapporto sessuale incestuoso proibito agli altri comuni mortali; rapporto che, grazie all’idealizzazione ed alla negazione di tutti i problemi connessi, secondo lui avrebbe dovuto essere solo fonte di benessere e piacere per il bambino e per lui stesso. Il suo sogno, mi confidò, era quello di “sposare un bambino”. Sapeva che ogni bambino, prima o poi, avrebbe dovuto crescere, ma questa considerazione realistica non riusciva neppure a scalfire l’immagine di una vita completamente appagante e felice per lui e per il suo piccolo “coniuge”. Questa fantasia grandioso-maniacale, circoscritta alla sfera sessuale, era per il paziente un sostegno indispensabile, nelle fasi normotimiche, ad una vita per il resto piatta e “normale”: Nicola sembrava come illuminarsi solo quando poteva dedicarsi ai bambini con grande impegno e passione, aiutandoli negli studi e soccorrendoli per ogni tipo di problema o necessità, nel contempo nutrendo verso di loro segreti desideri. Nelle fasi depressive, in quanto motivo di rimuginazioni, la pedofilia era pur sempre presente. Essa non era tanto oggetto di autorimproveri, quanto di sentimenti d’inutilità e di fallimento dei suoi sforzi di rendere felici i suoi piccoli amanti. Solo nell’episodio maniacale la grandiosità, “assoluta” ed estesa a tutta la sua vita, dell’essere il “prescelto da Dio” (essere il bambino amato in modo esclusivo e grandemente stimato dal genitore arcaico idealizzato) gli era parsa sanare l’antica ferita, rendendo non più necessario il ricorso alla sessualità perversa: essa, per un certo periodo, era completamente scomparsa dalla sua fantasia.
Nell’infanzia, Nicola (a fronte di una madre passiva e pressoché inesistente nella vita familiare) aveva stimato oltre ogni misura il padre, ritenendolo fonte unica di saggezza e di virtù; cercava di accompagnarlo ovunque, d’essere partecipe degli interessi e delle qualità idealizzate del genitore, di veder riconosciuto tutto ciò che egli faceva per emularlo. Ma presto la freddezza, l’instabilità e l’insensibilità dell’uomo gli si rivelarono brutalmente: da un certo momento in poi, i comportamenti del piccolo Nicola verso il padre vennero da questi completamente travisati, colpevolizzati, puniti severamente. Ne risultò in Nicola una grave mortificazione che la sua religiosità, sviluppatasi in quel periodo, riusciva a lenire soltanto in minima misura. Possiamo ravvisare, in questa fase della vita del paziente, la “permanenza di due reazioni antitetiche al conflitto con la realtà, come nucleo di una scissione dell’Io” [6, pag. 557, 558]: da un lato, emerse un settore del mondo interno dominato dal riconoscimento della realtà frustrante del rapporto col padre e dalla conseguente, grave mortificazione narcisistica; dall’altro lato fece la sua prima comparsa un settore in cui regna il disconoscimento della realtà, razionalizzato come fede religiosa, che consente un persistente soddisfacimento; soddisfacimento, nel caso di Nicola, non di una pulsione sessuale, ma del bisogno narcisistico di “mirroring” e di fusione con un oggetto arcaico idealizzato. Il “progetto euforico” di un ritrovato, totale controllo sull’oggetto arcaico [15, pag. 17] trova, nel paziente, una sua compiuta definizione solo nell’episodio maniacale. Con esso, egli ritrova il sostegno a quanto rimane del suo sé grandioso arcaico: un sé reso patologico dalla frustrazione, ossia fissato ad una grandiosità incapace di ridimensionarsi ed evolversi, non più recettivo ad influssi del mondo esterno, in parte disintegrato in pulsioni perverse e cieche di fronte alla realtà; tuttavia pur sempre quanto rimane di ciò che è originario, specifico di quest’individuo. La reciproca permeabilità tra i due settori in cui è scissa la vita interiore di Nicola, è minima; o, meglio, esiste un poco di permeabilità a senso unico tra ciascuno dei due settori ed una terza area intermedia, piuttosto esile e discontinua nella sua funzione, recettiva sia agli influssi della realtà, sia, in parte, alle istanze grandiose. Si tratta del “sé religioso” di Nicola, la parte sana di questo paziente; sana anche perché recettiva agli influssi del mondo esterno e, in particolare, tesa ad un riconoscimento e ad una conferma da parte del terapeuta. Quest’ultimo, nel rapporto transferale, viene vissuto come personaggio autorevole, in grado di confermare il carattere sano della fede religiosa di Nicola e di un suo segreto rapporto privilegiato con Dio, sia pure molto ridimensionato rispetto al contenuto delirante della fase maniacale. Per riconoscere come tale questa parte sana del paziente, fu necessario al sottoscritto sgombrare la mente da ogni pregiudizio pro o contro la religione e contro lo stato maniacale. In un successivo periodo, con un working through ripreso più e più volte, si è cercato di operare un “lavoro di tessitura tra i diversi livelli dell’Io, così da garantirne l’attività sintetica e ripararne la scissione” [15, pag. 18]. Tutto ciò, riuscito solo in parte, è stato purtroppo interrotto bruscamente dopo due anni per cause estranee alla cura.
Giorgio – In questo secondo paziente, a rendere più difficile il riconoscimento di una parte sana (per la verità molto nascosta) furono soprattutto gli obblighi interiorizzati legati al ruolo istituzionale dello psichiatra come “normalizzatore”. Si tratta di Giorgio, ragazzo di 28 anni (laureato, disoccupato, convivente coi genitori), da me seguito per alcune settimane nel corso di un ricovero ospedaliero. Lo avevo già conosciuto in alcune consultazioni ambulatoriali, da lui richieste, in cui non si era riusciti a concordare un trattamento sistematico. Ebbi, tuttavia il tempo di raccogliere alcuni importanti dati anamnestici: figlio unico, Giorgio aveva conosciuto con i genitori quasi esclusivamente esperienze di solitudine ed abbandono. La madre, affetta da una grave sindrome ossessivo-compulsiva, sentiva come unico scopo della sua vita il mantenimento dell’ordine e della pulizia della casa, completamente incurante delle esigenze di chi ci viveva. Non si era mai interessata agli studi, alla vita sociale o alla salute di Giorgio, solo al grado di pulizia dei vestiti e soprattutto delle scarpe del ragazzo: lo costringeva a lavarle, anche sotto le suole, ogni volta che tornava a casa. Il padre aveva saputo offrire a Giorgio solo il modello di una vita squallida, del tutto priva di veri interessi e di piaceri: ad esempio, trascorreva le domeniche pomeriggio a mettere in ordine le merci del negozio di proprietà della famiglia, preparandosi per il lavoro della settimana successiva. Giorgio non lo aveva mai visto andare al cinema, leggere un libro o ascoltare della musica. Sempre taciturno e imbronciato, il padre, tuttavia esplodeva, di tanto in tanto, in manifestazioni di violenza (fatte anche di calci e pugni), non tollerando le opinioni politiche di Giorgio e gli amici che frequentava. Con i genitori, il paziente aveva conosciuto solo gelida lontananza oppure scontri violenti. Fu quest’ultima modalità di rapporto che egli scelse per un certo periodo della sua vita: entrato in un gruppo estremista, fece anche parte di un centro sociale e si distinse per alcune azioni violente (contro oggetti inanimati), per cui andò anche incontro a guai con la giustizia. Imbevuto di spirito rivoluzionario, era da tutti ritenuto un modello di decisione e di forza. Tuttavia, per seguire la metafora manzoniana, anche i vasi di coccio possono apparire “forti” se contenuti in un involucro d’acciaio. Uscito da questo “involucro rivoluzionario”, ossia rimasto solo con se stesso quando il suo gruppo politico si dissolse, Giorgio andò incontro a serie crisi, dovendo anche ricoverarsi, in due occasioni, per episodi psicotici diagnosticati come schizofrenici. Quando lo vidi ambulatorialmente, Giorgio era in stato di compenso, pur non seguendo terapie farmacologiche, e non presentava segni evidenti di deterioramento. Lo persi di vista per alcuni mesi convinto, sbagliandomi, che la sua situazione potesse rimanere stabile per molto tempo. E ora me lo ritrovavo in reparto nel pieno di un episodio schizofrenico acuto caratterizzato da deliri non sistematizzati, allucinazioni uditive frammentarie, imponenti depersonalizzazione e derealizzazione, oltre che da comportamenti impulsivi apparentemente privi di senso. Non mi chiese esplicitamente dei colloqui, ma dava chiari segni di gradire i miei inviti a seguirmi nello studio. Ho usato la parola “colloqui”, ma sarebbe più esatto definirli “incontri” quasi del tutto privi di parole. In uno di questi, Giorgio, dopo aver borbottato qualche frase incomprensibile, mi fissò a lungo in silenzio, poi disse: “Ho bisogno di toccarla… Si lasci toccare!”. E questo mentre si avvicinava con aria spaventata. Sembrava aver paura della mia reazione, ma nello stesso tempo di se stesso, di quello che sembrava un impulso irrefrenabile. Dopo avermi sfiorato il braccio, tornò a sedersi, sempre molto impaurito e non disse più nulla. Il giorno seguente, Giorgio mi seguì in studio con un’aria quasi di sfida. Dopo essersi seduto, per qualche minuto pareva come assorto nei suoi pensieri; poi, fissandomi negli occhi, si alzò e con aria decisa si sfilò i pantaloni e mi mostrò i genitali. Rivestitosi, sempre fissandomi, disse: “Ha visto, vero?” e furono le uniche parole di quella seduta. In situazioni di questo genere, l’esperienza mi ha insegnato che l’unico modo per entrare in rapporto con pazienti così sofferenti è affidarsi alle sensazioni spontanee che si avvertono in loro presenza. Nelle circostanze di cui ho riferito, mi scoprivo molto meno imbarazzato di quanto io stesso avrei previsto: provavo la sensazione che Giorgio, più che provocarmi, mi volesse comunicare un’esigenza importante; e questa sensazione, nella mia mente, lottava contro la preoccupazione riguardo ai farmaci che avrei dovuto prescrivergli ed all’idea di chiamare subito l’infermiere perché glieli somministrasse. Prevalse la prima sensazione: non chiamai l’infermiere, non gli modificai la terapia ed il giorno seguente invitai Giorgio, come al solito, a seguirmi in studio, essendo io animato più dal desiderio di andare incontro alle sue necessità che dal bisogno di frenarlo. Fu il primo di una serie di incontri più tranquilli, in cui Giorgio riprese gradualmente a parlare in modo via via più comprensibile, senza più esprimersi attraverso gesti impulsivi.
Nelle consultazioni ambulatoriali che avevano preceduto il ricovero, il paziente mi aveva dato la chiara impressione d’essere una persona molto fragile, ipersensibile alla lontananza o all’eccessiva vicinanza delle persone cui è affettivamente legato. Mi aveva, ad esempio, parlato a lungo del suo difficile rapporto con un amico con cui aveva condiviso le più importanti esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza e che ora, fidanzato e molto impegnato con il lavoro, poteva solo concedergli brevi incontri di pochi minuti. Ma questi appuntamenti lo turbavano: “Con un amico si può andare al cinema, o a ballare in cerca di ragazze, ma trovarsi così, solo per vedersi, per dirci che siamo ancora affezionati l’uno all’altro, mi da fastidio, mi sembra qualcosa di omosessuale”. Giorgio soffriva per la lontananza dell’amico, ma anche per una vicinanza troppo intima che gli pareva intrusiva, invadente. – Per inciso, il paziente definiva “d’invasione” le sensazioni legate alla depersonalizzazione durante le crisi. – Ciò che Giorgio voleva comunicarmi, in quei due colloqui in ambiente ospedaliero di cui ho riferito, era del tutto simile: da un lato, esprimeva l’esigenza che io fossi “toccato”, coinvolto dai suoi problemi; d’altro lato esibiva il suo genitale maschile adulto, con cui mi faceva presente che si sarebbe opposto ad ogni tentativo di passivizzarlo e d’infantilizzarlo. Il paziente lottava disperatamente (e chiedeva il mio aiuto) per difendere un equilibrio interiore molto fragile: quello fondato su di una sorta di “omeostasi narcisistica” che sarebbe stata facilmente sconvolta da un’eccessiva lontananza e da un’eccessiva vicinanza delle persone per lui importanti; fragilità interiore che spiega la frequente interruzione dei rapporti terapeutici e il continuo passaggio da un curante all’altro che caratterizza la sua vita. Negli episodi di cui ho parlato, la modalità d’esprimersi di Giorgio è sicuramente malata, dominata da una “equazione simbolica”, tipicamente schizofrenica, che confonde il simbolo con la cosa simbolizzata. Tuttavia il contenuto di quanto espresso, ossia la sua consapevolezza (benché confusa) della propria fragilità e dell’esigenza di una “distanza ottimale” dal terapeuta, nonché il bisogno di comunicare questa sua esigenza e di chiedere aiuto, appartengono alla parte sana di questo paziente. Parte sana che il sottoscritto ha potuto comprendere solo mettendo da parte l’imperativo, implicito nel proprio ruolo istituzionale, di por fine con ogni mezzo e immediatamente ai comportamenti anomali e “scandalosi”.
II – Salute mentale manifesta o latente
1. I criteri della “neurologia con sintomi mentali” – “La psichiatria – scrive Romolo Rossi – seguendo esigenze di evidence… ha seguito vie schematiche e descrittive secondo le linee del comportamento rilevabile… lontano dal mondo interno e dal vissuto, non “obbiettivabili” e meno quantificabili. Ciò ha prodotto… un essiccamento della disciplina ed ha messo in ombra i vivaci e complessi coinvolgimenti con la realtà antropica più generale, dalla letteratura all’arte…” [17, pag. V]. Ciò cui stiamo assistendo – l’ultima edizione del DSM dell’American Psychiatric Association [1] ne è una testimonianza – è la progressiva “… fine della Psichiatria e la sua sostituzione con una neurologia con sintomi mentali, in cui lo studio, l’approfondimento, il chiarimento dei fenomeni della mente non avrebbe più importanza, come ha un’importanza relativa ai fini neurologici l’emozione che ha un emiplegico nel non poter più muovere l’emilato” [17, pag. 15]. La “neurologia con sintomi mentali” considera, quindi, la mente come puro epifenomeno privo della capacità di agire su se stesso e di retroagire sul suo substrato. L’attenzione minima prestata alla vita soggettiva fa sì che ci si limiti al riscontro delle dichiarazioni del paziente (o di altri) riguardo alla sua sofferenza ed a quello del suo comportamento oggettivamente rilevabile. Ciò comporta una diagnosi di salute mentale spesso errata perché i criteri su cui essa si basa (assenza di sintomi psichiatrici manifesti o dichiarati, oggettiva capacità d’adattamento, autonomia apparente) possono facilmente essere fuorvianti. Ciascuno di questi criteri, infatti, è frutto di una valutazione che resta alla superficie della vita soggettiva: essa non coglie, dei fatti rilevati nel paziente, il significato che solo un’immersione empatica nel mondo interiore di questa persona permetterebbe di comprendere.
La scomparsa dei sintomi psichiatrici può, effettivamente, essere espressione di un recuperato, valido controllo sul proprio disagio soggettivo; tuttavia essa può anche essere significativa di un cambiamento non appariscente ed a carattere patologico: ad esempio la perdita di contatto con le proprie emozioni (alexitimia quale matrice di future, gravi affezioni psichiatriche); oppure il passaggio ad investimenti emotivi che il paziente sente il bisogno di dissimulare. Nel caso di Nicola, la remissione della sintomatologia maniacale comportò il disinvestimento di un “progetto euforico” che, sia pur nella follia, aveva temporaneamente “sanato” l’antica ferita narcisistica, ed il re-investimento e la riattivazione della pedofilia, ossia di una patologia più pericolosa e meno facilmente trattabile. Oltre a questo, la diagnosi di salute mentale basata sull’assenza di sintomi esclude, nella mente del terapeuta, la possibilità dell’esistenza di un settore sano attivo, sottostante la sintomatologia del paziente, quale quello di Giorgio al di sotto dell’equazione simbolica schizofrenica o quello che, in Nicola, si esprimeva con modalità delirante nella fase maniacale. Una terapia sintomatica somministrata senza che sia stato compreso il significato soggettivo del sintomo lascia spesso, nel paziente, uno stato di “normalità” non disgiunta da un disagio non facilmente definibile. Un’immersione empatica prolungata rivela che la soppressione del sintomo è stata vissuta dal paziente come rinuncia all’espressione di una parte, ancora non esplorata, della sua vita interiore e della sua storia, come impossibilità di disporre più liberamente di una parte di sé [14]. Un disagio di questo genere era stato prodotto dalla terapia sintomatica farmacologica del delirio mistico di Nicola (e, come vedremo, dei suoi stati depressivi) o quella dei comportamenti impulsivi apparentemente immotivati di Giorgio.
La capacità d’adattamento all’ambiente può essere prevalentemente di tipo attivo, alloplastico, e in questo caso è espressione del vigore e dell’integrità interiori di questa persona; ma può essere anche di tipo passivo ed autoplastico, portando al sacrificio di ciò che, nella vita soggettiva di quel particolare individuo, è essenziale. Per distinguere l’una dall’altra queste due eventualità è necessario cogliere empaticamente ed in profondità il particolare nucleo fondamentale della vita interiore che, come spiegherò più sotto, coincide con il settore più sano. L’autonomia può essere il prodotto di circostanze favorevoli nelle quali si trova a vivere la persona in esame e del fatto che, in tale situazione, le sue risorse interiori sono sufficienti. Può, tuttavia, essere anche significativa dell’incapacità di quest’individuo d’instaurare, all’occorrenza, rapporti di dipendenza sana, caratterizzata essenzialmente dalla possibilità di chiedere aiuto, riceverlo e giovarsene; caratterizzata, inoltre, dalla facilità con cui essa può essere superata appena il bisogno d’aiuto sia stato soddisfatto e distinta, anche in questo, dalla dipendenza patologica o addiction. Quest’ultima è spesso mascherata da pseudo-autonomia riguardo ai rapporti umani, mentre la schiavitù si sposta su oggetti inanimati, sostanze o attività; oppure si manifesta come adattamento conformistico compulsivo alle regole di un gruppo sociale. In entrambi i pazienti descritti più sopra, il settore sano della loro mente, appena fu possibile individuarlo e “parlargli”, si esprimeva con una richiesta d’aiuto che era stata estranea ai periodi “normali” ed “adattati” della loro esistenza: in Nicola quella di un sostegno e di una conferma ad un’area del suo mondo interno che si trovava in equilibrio tra il “progetto depressivo” di una completa rinuncia all’oggetto arcaico (ed alla gioia di vivere) e il “progetto euforico” di un “rétablissement narcissique” totale, al di fuori delle possibilità reali [7]; in Giorgio si trattava della richiesta dell’appoggio ad un nucleo centrale della sua vita interiore che poteva conservare un minimo d’integrità solo evitando la lontananza o una vicinanza eccessiva dell’oggetto d’amore.
2. Le “aree” della mente – È un fatto di comune riscontro che anche le persone ordinariamente più sagge ed equilibrate, in particolari circostanze possono momentaneamente assomigliare a pazienti psichiatrici. All’opposto, anche i pazienti più gravi danno talora prova di lucidità ed assennatezza sorprendenti. Ciò si può spiegare supponendo l’esistenza, nella mente di ciascuno, di aree diverse, presenti in proporzioni variabili da individuo a individuo; aree che possono essere selettivamente attivate da fattori esterni negativi oppure favorevoli. La persona sana non è interamente ed assolutamente tale, ma ha una prevalenza della sua parte sana; la persona malata ha una prevalenza dell’area malata, ma anche il paziente più grave ha, a volte nascosta, una parte sana. Ciò rappresenta l’argomento principale di questo scritto.
In un lavoro del 1963, scritto a quattro mani con Seitz [9], Kohut descrive due specifici settori della mente. Usando ancora terminologia e concetti hartmaniani, egli li denomina area di “neutralizzazione progressiva” e, rispettivamente, area di “traslazione”. Nella prima, quale risultato di una graduale neutralizzazione, si stratificano livelli progressivamente “de-istintualizzati” della mente, per cui si passa senza soluzione di continuità dalla più antica e profonda vita pulsionale al più evoluto settore “autonomo” e “libero da conflitti” dell’io. Si tratta di un continuum sia strutturale (i contenuti più profondi possono liberamente accedere alla coscienza), sia storico (l’evoluzione avviene gradualmente, senza fratture). Nella seconda area, quella della traslazione, la continuità è, invece, interrotta dalla barriera della rimozione e delle altre difese. Qui i contenuti inconsci possono trovare un modo di esprimersi nella coscienza tramite, appunto, la traslazione. Per inciso, Kohut usa il termine “traslazione” (o transfert) nella sua accezione originaria freudiana, ossia come denominazione del fenomeno per cui elementi rimossi si “impadroniscono” di contenuti della coscienza e si esprimono tramite essi. Il sogno, ad esempio, è un fenomeno di traslazione. La traslazione che può avvenire (ma non sempre avviene) nel rapporto terapeutico è solo un caso particolare di questo fenomeno; l’impiego della parola “transfert” per denominare senz’altro la relazione con l’analista rappresenta, per Kohut, un uso improprio del termine. Usando concetti elaborati successivamente da questo stesso Autore, possiamo dire che l’area di “neutralizzazione progressiva” è frutto di una serie di “frustrazioni ottimali” sia del soddisfacimento pulsionale, sia delle istanze grandiose che appartengono alle configurazioni narcisistiche originarie; essa è prevalente nelle persone più sane. Viceversa l’area “di traslazione”, caratterizzata da discontinuità al suo interno, è frutto di frustrazioni traumatiche; essa prevale nelle persone nevrotico-normali.
Alle due aree delineate da Kohut è possibile affiancarne una terza, descritta in anni più recenti da Symington [21, pag. 1060 e seg.], la prevalenza della quale si traduce in un quadro clinico di tipo psicotico. Per spiegare di che si tratta, l’Autore fa uso di termini insoliti in un contesto scientifico preferendo, anziché lo “psicanalese”, l’impiego di semplici metafore create dai pazienti stessi. Così, per descrivere il nucleo centrale di quest’area, egli usa la parola “jelly” (gelatina), in quanto si tratta di un raggruppamento di frammenti “sbriciolati”, privi di coesione reciproca o, fuor di metafora, privi della capacità di creare nessi significativi tra loro. Corrisponde all’agglomerato di “elementi beta” di Bion [3] o all’area dominata da un “caos pre-psicologico” di Kohut [10]. La “jelly” mantiene una parvenza di coesione solo in virtù di una “crust” (crosta) che si forma grazie ad influenze esterne e che spinge il caos interiore in uno stampo che lo farà apparire come entità unificata. Mentre la “jelly” è priva di “principio motivazionale”, la “crust” che l’avvolge si conforma, nelle sue direttive, ad un ordine esterno (che può assumere la forma di un’ideologia, di una religione, di una devozione ad una figura carismatica o di una qualsiasi addiction), oppure ad una rigida contrapposizione ad esso. La “crust”, nei suoi rapporti col mondo esterno, è caratterizzata da due coppie antitetiche definite “glue” (colla) in contrasto con “paranoia” e, rispettivamente, “worm” (verme) opposto a “god” (dio). Nella prima, ad un attaccamento “glue-like” – ossia di tipo adesivo – all’oggetto esterno, si contrappone una distorsione paranoide dell’immagine dell’oggetto, visto (l’oggetto stesso e non il rapporto di dipendenza patologica che lega a lui) come fonte di minaccia per l’identità separata del soggetto. Nella seconda coppia antitetica, alla totale svalutazione di sé (il paziente agisce come se si sentisse un “verme”), si contrappone l’onnipotenza di un “god” dotato della capacità di manipolare a proprio piacimento il mondo tramite scissioni, disconoscimenti, identificazioni proiettive ed introiettive. Fattori come invidia, gelosia ed avidità sono definiti “intensifiers” in quanto, oltre a caratterizzare il rapporto col mondo esterno, essi intensificano lo stato di disgregazione “liquida” della “jelly” e la rigidità della “crust”. Le caratteristiche di quest’area fanno sì che la persona in cui essa prevale sia incapace d’instaurare relazioni sane, soprattutto di tipo terapeutico. Esiste, tuttavia, all’interno della “jelly”, un frammento denominato “ovum” (ovocellula). Esso è un potenziale embrione che come tale può accrescersi inglobando le parti sbriciolate della “jelly”, ossia può integrarle in un settore dotato di coesione e di “principio motivazionale autonomo” [21, pag. 1067]. Perché ciò avvenga, è necessario che lo “ovum” venga “fecondato” da un apporto esterno; sulla natura di tale apporto tornerò verso la fine di questo scritto. Lo “ovum” rappresenta, quindi, l’elemento sano (o potenzialmente sano) presente anche nello psicotico; la formulazione di una diagnosi di quanto è riferibile a tale frammento rappresenta, perciò, il compito più difficile e più importante nel trattamento di questo tipo di paziente.
3. Diagnosi riferita ad “aree”: stato di salute – Da quanto detto, consegue che, nella valutazione dell’integrità mentale di una persona, la diagnosi possibile non è di uno stato di salute “assoluta e totale” (che non esiste mai) e neppure di presenza di una parte sana (che esiste quasi sempre, se non altro come potenzialità), ma di estensione, stabilità e funzionalità di questa stessa parte. Si tratta di una diagnosi relativamente agevole quando l’area sana del mondo interno prevale, ma anche in questo caso s’impone una precisazione.
Come si è visto più sopra, assenza di sintomi, oggettiva capacità d’adattamento ed autonomia apparente possono, al più, costituire criteri accessori nella valutazione di uno stato di salute mentale; se considerati come criteri “fondamentali” (come se essi definissero ciò che è essenziale nella salute) essi si rivelano facilmente fuorvianti. Al contrario, il modello teorico di Kohut e quello di Symington ci consentono d’individuare un altro criterio più attendibile, fondato su quanto si può rilevare tramite un’immersione empatica nel mondo soggettivo del paziente e, quindi, sul significato profondo dei fatti oggettivi riscontrati. In Kohut, la qualità principale dell’area più sana, quella di “neutralizzazione progressiva”, è la permeabilità, vale a dire la possibilità di libero contatto fra tutte le sue parti; ciò comporta facilità d’accesso alla coscienza di quel “sé nucleare” che rappresenta l’evoluzione delle configurazioni narcisistiche originarie, che affonda le sue radici in esse ed in cui è inscritto il “progetto nucleare” specifico di quell’individuo [10]. Anche in Symington lo “ovum fecondato”, lo “embrione” del settore sano, è l’unica struttura capace di creare uno stato di coesione interna fondato su di un “principio motivazionale autonomo”, peculiare di quella determinata persona. I due modelli convergono nel definire, come aspetto essenziale della salute mentale, la capacità della persona di “essere se stessa”, ossia d’affermare e preservare quel settore della sua vita soggettiva che la caratterizza come individuo unico e irripetibile: lui o lei e nessun altro.
Un contatto con quanto d’essenziale esiste nel proprio mondo interno ed in quello altrui si manifesta con esperienze soggettive spontanee, sempre nuove, significative di libertà interiore: la “unbidden experience” secondo Stern [19, pag. 228]. Questa realizza, attualizza la nostra specifica natura; da forma emotiva e cognitiva a ciò che si è; consente di trarre, dagli aspetti più profondi ed autentici del proprio mondo interno, le motivazioni e le energie necessarie per una vita vissuta nella sua pienezza. La capacità d’entrare in sintonia con la soggettività di persone significative permette, inoltre, di disporre di un’ulteriore fonte d’arricchimento interiore e di sostegno alla coesione interna [10, pag. 39]. Tutto ciò si traduce nella capacità d’avvertire, almeno a tratti, sentimenti di gioia e di carattere significativo del vivere; fatto, questo, che testimonia uno stato complessivo di salute molto di più rispetto alla possibilità di provare singoli piaceri o all'assenza di sofferenze. [10, pag. 25, 26 e nota pag. 269]. Riguardo alla stabilità dello stato di salute, essa si misura in base alla capacità di salvaguardare la propria esistenza soggettiva individuale, vale a dire “un sé non incline a frammentarsi, indebolirsi o perdere di armonia, salvo gravi traumatizzazioni” [10, pag. 100]. Quest’ultima osservazione di Kohut rimanda alla più difficile diagnosi di quanto spetta ancora al settore sano quando la vita soggettiva è stata travolta da “gravi traumatizzazioni” recenti o antiche.
4. Diagnosi di quanto rimane sano nel malato – In caso di malattia mentale manifesta, un settore sano superstite consente al paziente di continuare ad “essere”, ossia mantenere un contatto con i residui, sia pur difettosi, del sé nucleare [10, pag. 185], lottando contro il pericolo di “non essere più”, vale a dire soccombere all’influenza di tutto ciò che, nel mondo esterno ed interno (ivi compresa la sfera somatica), è ostile alla propria sopravvivenza soggettiva individuale. Nella “scelta” di una malattia o di una delle sue varianti cliniche è possibile ravvisare la “regia” di tale settore sano residuo, oppure la sua scomparsa. Se ancora esiste, l’esigenza di una difesa o di una riconquista di quanto di essenziale esiste nel mondo soggettivo può esprimersi nella stessa patologia. Questa, in tal caso, denota la capacità di manifestare sofferenza (anziché soccombere ad essa in modo silente), il che significa saper comunicare quanto si prova, segnalare a se stessi e ad altri il proprio stato di crisi, chiedere aiuto. Ad esempio, nel carattere clamoroso dell’episodio maniacale di Nicola si può ravvisare un’implicita richiesta d’aiuto a chi lo circondava. Una richiesta certamente ancora confusa, oscura a lui stesso, non rivolta a qualcuno in particolare; eppure capace di suscitare negli altri un atteggiamento riparativo e, per effetto di questo, d’evolversi in coscienza di malattia, accettazione di una cura ed alleanza terapeutica. Tutto ciò era assente in quell’equilibrio instabile e patologico che aveva preceduto la crisi; equilibrio fondato, nelle fasi normotimiche, sugli stimoli emotivi legati alla pedofilia e periodicamente dissolto nell’auto-annientamento degli episodi depressivi. Se ravvisiamo, in “crisi” di questo genere, l’effetto di un settore sano della mente che spinge a superare un’organizzazione patologica degli affetti e dello stile di vita, occorre smentire l’opinione diffusa (e propria della “neurologia con sintomi mentali”) che vede la malattia come sinonimo di sofferenza espressa in modo clamoroso e l’assenza di questa come significativa di “normalità”.
Talora il settore patologico della mente si esprime con una condizione che appare del tutto asintomatica. In questi casi, ci troviamo di fronte al paradosso di manifestazioni di sofferenza che rappresentano l’unica espressione della parte sana del paziente. Un semplice esempio: vengo chiamato per una consulenza in un reparto di cardiologia dove un paziente (Marco, 50enne, ricoverato per infarto del miocardio) soffre di stati ansiosi e d’insonnia. Prima di decidere se prescrivergli farmaci, chiedo a Marco di parlarmi della sua vita. Dopo aver descritto sommariamente famiglia e lavoro, il paziente si sofferma a lungo sulla sua grande passione: la bicicletta. Sembra che questo sport costituisca il centro dell’esistenza di Marco; ad esso egli dedica tutto il suo tempo e le sue energie, riservando al resto solo quanto è inevitabile; insomma, una vera e propria addiction. Ad un certo punto, mi dichiara con fierezza d’essere ancora capace, a 50 anni, di battere in volata i suoi amici ventenni: Marco sembra essersi del tutto dimenticato di dove si trova e per quale motivo ci è arrivato; in quel momento, come gli faccio notare, l’ansia è completamente scomparsa. In questo paziente il sintomo ansia ha un significato ambiguo: paura di non poter più inforcare la sua bicicletta o preoccupazione per il pericolo che la schiavitù per lo sport lo conduca alla morte? In altre parole: espressione del settore malato, addictive, della sua mente, oppure di un settore sano che vede messa in forse la sua stessa sopravvivenza? Sicuramente è espressione di un settore sano il fatto che Marco abbia chiesto di chiamarmi: una semplice prescrizione di ansiolitici ed ipnoinducenti avrebbe potuto essere fatta anche dai medici del reparto e non necessariamente da uno psichiatra; con quest’ultimo, viceversa, Marco prevedeva che sarebbe stato possibile parlare e chiarire i motivi della sua sensazione d’allarme. In questo caso, una patologia apparentemente asintomatica, ossia una sofferenza “agita” in un’addiction e non “avvertita” dal paziente, era contrastata da un “segnale di crisi” (l’ansia e soprattutto il modo con cui Marco aveva deciso di curarla); segnale da intendersi come l’emergere di una primitiva forma di autocoscienza sana.
In casi estremi, l’espressione del settore sano della mente di una persona è la comparsa stessa di una grave forma di follia: in situazioni d’isolamento protratto e totale deprivazione affettivo-empatica (prigionia, lotta contro regimi autoritari condotta in completa solitudine, come nel caso degli oppositori al nazismo descritti da Kohut), una psicosi delirante-allucinatoria consente di creare “oggetti-sé sostitutivi” che sopperiscono all’assenza di sostegni esterni alla vita soggettiva e preservano il Sé dalla completa dissoluzione [10, pag. 107, 108]. Quando, viceversa, manca la risorsa estrema della follia, l’impossibilità d’essere se stessi in una situazione gruppale “impazzita” può portare al suicidio.
A quest’ultimo proposito, si può considerare paradigmatica di certi suicidi adolescenziali la vicenda di Romeo e Giulietta [18]. Le loro famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono impegnate in una faida interminabile che le oppone l’una all’altra: due gruppi in assunto di base di attacco-fuga in cui l’imperativo di odiare e combattere sopprime ogni esigenza sana delle persone che li compongono; non ci sono più individui, ciascuno con le sue peculiarità ed esigenze, ma solo combattenti resi tra loro uguali dalla lotta. Eppure i due giovani, a dispetto delle pressioni cui sono esposti, riescono ad affermare una loro sana individualità. L’amore, che li lega, è infatti il sentimento per il quale, più di ogni altro, è impossibile mentire a se stessi o sottomettersi al volere altrui. È espressione di quello che si è veramente, al di là di ogni maschera o falso modo d’essere che ci s’impone o che altri impongono [11]. Tuttavia l’odio che li circonda finisce per travolgere i due innamorati. Fra’ Lorenzo, il religioso che li ha uniti in matrimonio, dice a Giulietta in lacrime di fronte alla salma di Romeo: “A greater power than we contradict / Hath thwarted our intents. Come, come away” (Un potere più forte di noi, con il quale non possiamo contendere, ha frustrato i nostri disegni. Vieni, vieni via) [18, 5, 3, pag. 248]. Il potere distruttivo dei gruppi in assunto di base ha prevalso e solo il sacrificio dei due ragazzi riuscirà, tardivamente, a riportare alla ragione le famiglie.
III – La libertà interiore del terapeuta
1. Situazione terapeutica come gruppo – La possibilità di conflitti tra il gruppo e le esigenze sane di individui che non vogliono rinunciare a rimanere tali porta a chiedersi se ciò può verificarsi nella situazione terapeutica; essa, per essere tale, dovrebbe semmai cogliere e soccorrere, nel paziente, l’individuo particolare che egli è, vale a dire la sua parte sana. Nell’esperienza dei gruppi di Bion [2] è significativo che veri e propri individui compaiono nella configurazione più evoluta, ossia nel “gruppo di lavoro”, ed in ciò consiste l’essenza del processo terapeutico volto a creare un gruppo di questo genere. Nei più primitivi gruppi “in assunto di base”, infatti, il comportamento ed il modo di pensare e sentire di ognuno tendono ad uniformarsi a quelli di tutti gli altri, obbedendo ad una “parola d’ordine” comune, e le peculiarità di ciascuno scompaiono. Solo nei gruppi di lavoro compaiono individui capaci di collaborare per scopi razionali ed aderenti alla realtà, ed ognuno trova nella collaborazione la possibilità di far emergere e valorizzare le proprie particolari caratteristiche ed attitudini.
La situazione terapeutica costituisce un microgruppo non solo perché a paziente e terapeuta si affiancano altre figure professionali ed amministrative, ma anche perché nella stessa diade curante-malato – come messo in evidenza negli ultimi decenni – esiste una dimensione intersoggettiva e sovrapersonale (e quindi con caratteristiche gruppali) denominata dai vari Autori “intersubjective field” (campo intersoggettivo [19]), “corporate personality” (personalità congiunta o condivisa [20, 21]) “analytic third” (terzo analitico [12, 13]); dimensione della diade capace di condizionare il comportamento ed il modo di pensare e sentire di entrambi i componenti. È, quindi, in gioco nello stesso terapeuta la libertà interiore d’utilizzare la propria parte sana. Nel caso in cui prevale l’assunto di base di dipendenza, il terapeuta finisce per passivizzare ed infantilizzare il paziente; prospettiva cui, come si è visto, Giorgio si opponeva energicamente. Se si costituisce un gruppo “di accoppiamento”, prevale l’attesa di una mitica guarigione sempre distante nel tempo, a meno che il paziente non interrompa questo equilibrio patologico con i segni inequivocabili di una crisi. Se, infine, prende il sopravvento l’assunto di base di attacco-fuga, la coppia terapeuta-paziente si trova coinvolta in una lotta contro una “malattia” cui entrambi si sentono estranei; malattia identificata con una parte della vita soggettiva del paziente che, pertanto, non potrà mai essere integrata nel resto della sua personalità. Oppure il terapeuta si trova impegnato in una lotta contro le resistenze al trattamento ed i comportamenti oppositivi del paziente; comportamenti attribuiti senz’altro alla sua “follia”. In tutte queste situazioni, sia il paziente, sia lo stesso terapeuta, cessano d’essere individui liberi, aderenti alla realtà, in grado di collaborare per un’effettiva cura e capaci d’utilizzare, per questo scopo, le loro risorse personali.
2. Dimensione intersoggettiva: il Superio condiviso – I modelli teorici di una dimensione intersoggettiva nella diade curante-paziente consentono di comprendere più approfonditamente ciò che accade nel mondo interno dell’uno e dell’altro. Nell’incontro di queste due persone, si stabilisce un “campo interpersonale” [19] (altrimenti definito come “personalità congiunta” o “condivisa” [20, 21]) come risultato della fusione di una parte di ciascuna delle due personalità. Esso non costituisce una semplice combinazione o somma d’influenze, ma una nuova Gestalt che si modifica continuamente e conferisce agli avvenimenti clinici la loro particolare natura e la loro mutevole forma [19, pag. 231]. Il contatto dell’Io del terapeuta con l’Io del paziente (ossia delle aree della personalità di ciascuno che sono non condivise, personali ed individuali) può essere ostacolato o favorito da una “istanza superegoica condivisa”, che fa parte della dimensione intersoggettiva, ed i cui divieti, ingiunzioni o sollecitazioni possono impedire o facilitare la comunicazione e la reciproca comprensione. A proposito di quest’istanza, sono necessarie due precisazioni. Innanzi tutto essa non va intesa come istanza morale in senso stretto. Symington, al riguardo, cita la fondamentale osservazione di Talcott Parsons:
“… il ruolo del Superio, quale parte della struttura della personalità, dev’essere inteso come relazione tra la personalità e la cultura dominante nel suo complesso. Tramite esso, diviene possibile uno stabile sistema d’interazione sociale. Freud pose correttamente l’accento sui valori morali di cui il Superio è il depositario, ma la sua concezione fu troppo ristretta: non solo i valori morali, ma tutte le componenti della cultura condivisa sono interiorizzate come parte della struttura della personalità…” [20, pag. 287].
La seconda precisazione è che nel Superio si stratificano diverse componenti con differenti gradi di evoluzione: quelle più primitive tendono a soffocare sentimenti e pensieri spontanei e ad imporre quelli dominanti nel gruppo di appartenenza; viceversa, le componenti più evolute svolgono una funzione di sostegno al sentimento di sé ed all’attività dell’Io, essendo il prodotto dell’interiorizzazione di tutto ciò che, nei genitori e nella cultura di appartenenza, favorì la nascita, la valorizzazione e l’evoluzione di un individuo separato. Il Superio, in quest’ultima funzione, è promotore di una presa di distanza dall’esperienza immediata alla base di una considerazione critica dei luoghi comuni, del senso dell’umorismo [5] e di una visione di sé e degli altri “al di sopra delle parti”. Mentre le componenti più primitive del Superio condiviso dominano nei gruppi in assunto di base, le componenti più evolute costituiscono il fondamento dei gruppi di lavoro. Nel primo caso, alcuni dei valori dominanti, confluiti in quest’istanza, vanno a sostenere e rafforzare affetti a carattere primitivo [20, pag. 287]: aggressività, paura, dipendenza e sentimento d’attesa promettente; mentre nel secondo caso altri valori consentono l’accesso alla coscienza di tutta la gamma degli affetti spontanei che caratterizzano l’individuo.
3. Unipatia, empatia, influenza del diagnosta sulla diagnosi – La dimensione intersoggettiva contiene non solo gli apporti di un Superio condiviso, ma anche sentimenti e pensieri in cui terapeuta e paziente s’identificano sulla base di quella che è stata definita “unipatia”, ossia un sentire e pensare comune da parte non di individui separati (come nell’empatia), ma tra di loro fusi [4]. Ciò che accade nella mente del terapeuta (anche pensieri e sensazioni con l’apparente carattere di “distrazioni” dalla propria attività) è perciò continuamente influenzato da quanto, per il tramite della personalità condivisa e dell’unipatia, proviene dal paziente; come se esistesse un “terzo” invisibile che s’interpone tra loro e funge da intermediario [12, 13]. Tutto questo comporta il rischio di un “contagio psichico”, per cui la mente del terapeuta verrebbe travolta dalla follia trasmessagli dal paziente. Se, nel fronteggiare tale pericolo, prevale l’influenza dei nuclei primitivi del Superio (sia di quello che appartiene al terapeuta, sia di quello condiviso), ogni traccia della follia evocata sarà espulsa dalla coscienza del curante ed egli non potrà più disporne per poter comprendere il paziente. In tal caso, un rapporto terapeutico non è più possibile. Al contrario, la cura può proseguire e svilupparsi solo se la follia evocata nel curante viene fronteggiata dall’attività del suo Io (sostenuta dai nuclei più evoluti del Superio); un Io che rimane distinto da quello del paziente, ma che utilizza quanto trasmessogli dalla personalità condivisa allo scopo di comprendere quello del malato. In altre parole: la cura è possibile ed evolve solo se sulla base dell’unipatia si sviluppa, nel terapeuta, l’empatia quale frutto dell’attività dei settori preconsci del suo Io.
Come in altri ambiti scientifici, anche nella situazione clinica l’osservatore modifica, con la sua presenza e il suo atteggiamento, l’oggetto d’osservazione [10, pag. 62]. Ciò vale anche per la diagnosi del settore sano residuo del paziente psichiatrico. È sano quanto, nel malato, rappresenta e salvaguarda l’essere umano particolare che egli è e quest’individuo, per potersi manifestare, ha bisogno della certezza di poter essere ascoltato, ossia di poter percepire nel terapeuta attenzione e disponibilità a comprendere empaticamente la sua sostanza umana e non solo i sintomi. In caso contrario, verrà completamente bloccata la comunicazione delle esigenze specifiche di quest’individuo, essendo la capacità e la volontà di comunicare (benché in modo distorto e confuso) un’importante manifestazione del settore sano della mente. Se, nel mio colloquio con Giorgio descritto più sopra, avesse prevalso la tentazione di “zittirlo” coi farmaci, solo perché la modalità di comunicazione del paziente era in quel momento anomala, ciò avrebbe soppresso in lui la speranza di potermi “toccare” con i suoi problemi e chiedermi aiuto; ciò significa che non avrei potuto cogliere la manifestazione di quel settore sano che rese possibile un’alleanza terapeutica. Fortunatamente, in quel momento, sulle ingiunzioni e i divieti del mio Superio “normalizzatore”, prevalse una libera attività dell’Io, ossia, di un’istanza razionale in contatto con quanto evocato in me dal paziente. Se, nel mio rapporto con Nicola, avesse prevalso un pregiudizio contro la religiosità (anche perché essa era stata il contenuto del suo delirio) ed avessi respinto ogni richiesta del paziente di accoglierla e valorizzarla, non avrei potuto cogliere un settore sano del paziente; settore che, pur aprendosi agli influssi del mondo esterno, non poteva rinunciare al sostegno emotivo che solo la religione gli offriva. In quel caso i valori di una scienza che fa del realismo ateo un imperativo (ossia un’ingiunzione superegoica) avrebbero impedito alla parte sana del paziente d’esprimersi ed a me di capirla. Se ne può concludere che una diagnosi del settore sano del paziente (e con essa l’inizio di una relazione terapeutica) può essere possibile solo se, tra terapeuta e paziente, si crea un’autentica “libertà relazionale” [19], ossia un rapporto tra due Io distinti ed affrancati dalle ingiunzioni e dai divieti dei nuclei più primitivi del Superio, sia di quelli che appartengono a ciascuno dei due, sia di quelli condivisi.
4. Ostacoli al processo terapeutico: il trattamento del lutto – Il libero contatto tra l’Io del terapeuta e quello del paziente, vale a dire l’essenza del rapporto terapeutico, è continuamente ostacolato da un processo nel quale entrambi i membri della coppia sono coinvolti. Esso è il prodotto dei nuclei più primitivi dell’istanza superegoica condivisa nel cui contenuto confluiscono miti culturali fuorvianti che interferiscono sulla natura della relazione [20, pag 290]. Tra questi, le convinzioni oggi prevalenti riguardo al rapporto curante-paziente occupano un posto di primo piano. La mentalità odierna è sempre più intollerante riguardo ai rischi che una cura può comportare, e ciò si traduce in un rigido sistema di controlli. Si tende a soffocare la libertà di paziente e curante e ad imporre a quest’ultimo di sopprimere sul nascere ogni condizione rischiosa. Un esempio è il lutto, di cui si tende ad ignorare la sua funzione di “meccanismo fisiologico alla base dello sviluppo… che rappresenta, pur nella sua essenza di evento doloroso, la condizione ineludibile dell’evoluzione” [17, pag. 56]. Si tratta di una di quelle condizioni che, in quanto “espressione di una ‘vis sanatrix naturae’ che può lenire sofferenze non patologiche” [17, pag. 38] debbono essere rispettate, richiedono prudenza e, in assenza di precisi segni di complicazioni, astinenza terapeutica. In contrasto con questa concezione, il DSM-5 non esclude più il lutto dalla diagnosi di Depressione Maggiore “per diverse ragioni, tra cui il riconoscimento che il lutto è un grave stressor psicosociale che può provocare un episodio depressivo maggiore in un individuo vulnerabile; episodio che inizia generalmente subito dopo la perdita e può comportare un ulteriore rischio di sofferenza, sentimenti di perdita di valore, ideazione suicidaria, compromissione della salute fisica e peggioramento delle relazioni interpersonali e del rendimento lavorativo” [1, pag. 811]. Come si può facilmente vedere dalle parole che ho sottolineato, una considerazione esclusiva dei “rischi” è sufficiente, per il DSM-5, a far rientrare il lutto in una “malattia”, ossia in una condizione che impone, senz’altro, un intervento medico. La funzione di “vis sanatrix naturae” di quest’esperienza umana (e la parte sana del paziente che in essa si esprime) è qui del tutto trascurata. Un pregiudizio di questo genere è stato alla base dei trattamenti (esclusivamente psicofarmacologici) degli episodi depressivi che, in Nicola, avevano preceduto quello maniacale e di cui i farmaci avevano soppresso ogni manifestazione. In essi, non è stato riconosciuto quanto ascrivibile al lutto (sebbene, in Nicola, si trattasse di un lutto antico), ossia del possibile emergere, benché doloroso, di una parte sana che avrebbe portato il paziente a confrontarsi con la realtà della perdita. Questi trattamenti lasciavano nel paziente un disagio che, come si potè ricostruire in epoca successiva, era da attribuirsi all’impossibilità d’esprimere la propria disperazione; disagio che Nicola alleviava ripiegando, ogni volta, di nuovo sulla pedofilia.
5. Libertà interiore del terapeuta: come riconoscerla – La libertà del terapeuta di usare la propria mente o, meglio, la capacità di permettere alla mente di funzionare liberamente (capacità di “unbidden experience”) è la condizione che occorre per cogliere quanto nel malato è sano e riconducibile alla sua individualità specifica. Infatti solo un Io libero da condizionamenti può, elaborando pensieri e sentimenti spontanei, comprendere quelli che appartengono al settore più libero della mente del paziente [19, pag. 228, 229]. Come riconoscere questa condizione? Il compito del terapeuta è in questo del tutto sovrapponibile a quello descritto da Hemingway riguardo alla scrittore: “…rendersi veramente conto di ciò che realmente si prova e non di ciò che si suppone si debba provare e si è imparato a provare…” [8, pag. 8]. Rendersi conto di “ciò che realmente si prova”, ossia dei propri sentimenti e pensieri spontanei ed autentici, presuppone che si è sgombrata la mente dall’idea di ciò che si “deve” provare e pensare, cioè da quanto è imposto alla vita soggettiva dal proprio ruolo istituzionalizzato, dalla cultura di appartenenza e da quanto, di tutto ciò, confluisce nelle ingiunzioni superegoiche. Presuppone, inoltre che ci si è emancipati da “ciò che si è imparato a provare” sia esso frutto d’insegnamenti altrui, sia del ricordo di precedenti esperienze. Il cogliere nel paziente l’essere umano particolare che egli è costituisce, infatti, compito esclusivo della sensibilità e non della memoria. Mentre la diagnosi di malattia, cioè l’inclusione del caso in una categoria nosografica, implica un collegamento tra ciò che si percepisce nel paziente ed un concetto già noto, al contrario la diagnosi di quanto spetta alla sua parte sana implica il riconoscimento di una realtà del tutto nuova che solo la sensibilità del terapeuta può cogliere. Si tratta, infatti, di ciò che, nel paziente, lo caratterizza come individuo unico e irripetibile. Anche il ricordo delle teorie che si sono apprese (e delle prescrizioni tecniche che ne conseguono) non sempre è di aiuto. Se esse non si limitano a precisare (tradurre in parole e in concetti) ciò che la sensibilità spontanea suggerisce, ma, al contrario, la contrastano e la sostituiscono, si traducono in un’ingiunzione superegoica.
Spesso sentiamo dire dal paziente: “Chi mi sta parlando? Il “dottore” o lei personalmente?”. Dobbiamo intendere questa domanda come un messaggio ed un avvertimento che provengono dalla parte sana del malato: egli sta cercando di emancipare se stesso e il terapeuta da una “stretta mortale” (“stranglehold”), paralizzante che tiene in ostaggio entrambi [20, pag. 288], ossia dall’ingiunzione superegoica condivisa di “dover sottostare a quanto stabilito dalla scienza”. La domanda del paziente così si può tradurre: “Sta parlando un essere umano in rapporto a quell’altro essere umano che sono io, oppure, per voce sua, sta parlando un’istituzione o una scienza impersonali a quel soggetto che mi si obbliga ad essere e che non sono?”. Una domanda, complementare a quella del paziente, che il terapeuta può porsi e che lo aiuta a capire se sta usando la propria spontanea sensibilità è: “A chi sto rendendo conto di quel che faccio ed a chi sto parlando, in questo momento? Al rappresentante dell’istituzione o della scuola scientifica cui appartengo, oppure a quel paziente che mi sta davanti?”. Se il terapeuta non s’accorge di porsi come portavoce e “sacerdote” della normalità (così come essa è intesa dalla cultura dominante e dalle istituzioni) egli finisce per essere del tutto simile al padre di Don Giovanni quando, eretto e rigido come un monumento di fronte al figlio, si dimostra solo capace di pronunciare parole di condanna (d’ingiunzioni e divieti superegoici) anziché di comprensione [16]. Come Don Giovanni col suo comportamento trasgressivo, anche il paziente non farà che accentuare il suo comportamento patologico perché, di fronte a principi e pretese per lui incomprensibili, sente che tale comportamento è l’unico che gli appartiene. In alternativa, il paziente potrà piegarsi all’ingiunzione superegoica condivisa, simulando (coscientemente o inconsapevolmente) una “guarigione” e rinunciando ad una vera cura. Se il terapeuta s’accorge di star adottando, verso il paziente, un atteggiamento moralistico, questo è un segnale del fatto che l’istanza superegoica condivisa ha preso il sopravvento sulla sua sensibilità. Se è vero che quando di un fatto patologico non si riesce a trovare e fornire una spiegazione, esso diviene oggetto di divieto moralistico [20, pag. 1063], è altrettanto vero che quando un comportamento patologico del paziente diviene oggetto di divieti e ingiunzioni, ciò impedisce di trovarne una spiegazione: la sensibilità del terapeuta è paralizzata per l’influenza di un Superio condiviso, portavoce di una “scienza” che impone al paziente come “deve” essere ed al curante come lo “deve” vedere. Un altro segnale, nel terapeuta, della perdita di contatto con la propria sensibilità è una sensazione di “intoppi e frizioni”, insomma di qualcosa di stonato nella relazione con il paziente e con se stesso, che si manifesta con disagio o impressioni spiacevoli [19, pag. 235, 236]. Ciò è dovuto all’attrito, che si avverte in quel momento, con quei nuclei più evoluti del Superio che, nel terapeuta, sosterrebbero le motivazioni professionali, l’attività dell’Io e l’uso della sensibilità e, nella personalità condivisa, favorirebbero un’autentica “libertà relazionale”. È ciò che avvertii quando, nell’incontro con Giorgio che ho descritto, ero sul punto di fermare con i farmaci il suo comportamento “scandaloso” e quando, nel rapporto con Nicola, ero tentato d’accogliere con freddezza le affermazioni sulla sua fede religiosa.
6. Libertà relazionale ed emancipazione – Il campo relazionale, nella diade terapeuta-paziente, è soggetto ad un continuo “flusso di cambiamento” che modifica continuamente (in modo praticamente imprevedibile) la qualità e la varietà delle esperienze soggettive che esso rende possibile [19, pag. 233]. L’unica condizione che consente al terapeuta di cogliere, in queste variazioni, una possibilità di crescita della relazione (ossia l’acquisizione di una maggiore “libertà relazionale”) è la sua “apertura all’inatteso”, vale a dire l’uso della sua “capacità d’andare incontro alla sorpresa” (“courting surprise”). Si procede a tentoni verso una svolta liberatoria, che consente nuove esperienze spontanee significative e nuove possibilità nella relazione, inclusa quella dell’espressione verbale di ciò che si è capito [19, pag. 237]. In altre parole: il curante può favorire un’evoluzione della relazione terapeutica se è attento a cogliere, nei cambiamenti della personalità congiunta, i momenti in cui prevalgono nuclei più evoluti del Superio condiviso, quelli che consentono ai membri della coppia d’essere individui, d’esprimersi e, comunicando, entrare in rapporto. Il terapeuta, più del paziente, è nelle condizioni d’approfittare di questi momenti favorevoli per bandire dalla sua mente le illusioni e le false idee condivise che sinora imprigionavano lui stesso ed il paziente in un rapporto sterile. Come conseguenza di questa accresciuta libertà interiore del terapeuta e dei suoi influssi sul paziente, il nuovo assetto favorevole della personalità congiunta può divenire più stabile. Ciò significa che il paziente percepisce nel curante un Io disponibile ad un rapporto, anziché la voce di un Superio che vuole solo imporsi su di lui. A questo punto, l’Io del paziente può, rapportandosi con quello del curante, esprimersi, definirsi e rafforzarsi. È questa la condizione che consente le diagnosi più difficili di quanto spetta alla parte sana nel paziente psichiatrico ed è in questo che consiste quella “fecondazione dell’ovum”, di cui si parlava più sopra, che evidenzia ed attualizza le potenzialità sane del malato.
Non è necessario che tutto ciò avvenga all’interno di un setting psicoanalitico, né che quanto il terapeuta ha compreso (come frutto della sua accresciuta libertà interiore) venga comunicato tramite vere e proprie interpretazioni. Queste ultime, infatti, non sono che il compimento definitivo, a livello conscio e manifesto, di un processo liberatorio già iniziato e in gran parte compiuto ad un livello inconscio e preverbale [20, pag. 288]; processo di cui il terapeuta, in virtù della sua “apertura all’inatteso” ha saputo scorgere i segnali potendo, così, catalizzarlo. È il mutato comportamento del terapeuta che rappresenta già una forma efficace di comunicazione. In particolare, il terapeuta si comporta e si esprime in modo più naturale, ed il paziente avverte la certezza che ciò che egli dice è espressione di ciò che pensa e sente e non si tratta di concetti appresi nella propria preparazione professionale [20, pag. 290]. Ciò rappresenta il riflesso di una ritrovata armonia interiore da parte del curante: egli si sente in pieno accordo con le proprie motivazioni terapeutiche (parte del “progetto nucleare” inscritto nel settore più autentico del suo mondo interno); condizione, questa, in netto contrasto con le sensazioni di “attrito” e di “intoppo” che egli avverte quando si sta comportando in modo inautentico e non terapeutico. Quanto al setting psicoanalitico, esso certamente (se se ne fa buon uso) favorisce e catalizza lo sviluppo di un processo liberatorio, ma non lo crea e non è la condizione esclusiva in cui esso può prodursi: si tratta di un processo che avviene spontaneamente in tutti i rapporti umani che hanno lo scopo d’aiutare ed in cui almeno una delle due persone coinvolte è sufficientemente sana e disponibile ad un’immersione empatica nel mondo soggettivo dell’altro.
La “corporate personality”, nella sua configurazione più primitiva, costituisce un mondo illusorio condiviso da terapeuta e paziente che impedisce ad entrambi d’essere veramente se stessi, comunicare e collaborare per la cura [20, pag. 287]. Essa, nel microcosmo della coppia terapeutica, costituisce lo stesso collante che troviamo in certi gruppi più ampi e certe comunità, ossia un modo di stare insieme differente dal contatto tra Io distinti (tra individui liberi d’essere se stessi); contatto il passaggio al quale rappresenta una rivoluzione [20, pag. 290]. Se il lavoro terapeutico è da intendersi come progressivo disimpegno da questo mondo che annienta le individualità, il suo scopo è opposto a quello di certe ideologie o concezioni religiose che tendono ad unire i singoli in entità condivise [20, pag. 287], tacciando di “individualismo” (inteso come egoismo ed asocialità) chiunque voglia innanzi tutto essere e rimanere se stesso, un individuo diverso da tutti gli altri. Al contrario, la nascita di veri individui è condizione ed effetto di un vero rapporto di collaborazione valorizzante (quello del gruppo di lavoro), ossia un rapporto diverso e più evoluto di quello di reciproca sopraffazione. L’egoismo è semmai più diffuso proprio in quei gruppi totalitari che fanno dell’anti-individualismo la loro bandiera, che non concedono ai singoli alcuna occasione di valorizzarsi e che non offrono loro altra possibilità d’esprimere la propria individualità se non nelle condotte antisociali.
Nei fregi del Partenone, costruito in Atene per celebrare la vittoria dei Greci sui Persiani, è rappresentata la lotta dei Lapiti contro i Centauri. È facile capire che cosa è simbolizzato in queste immagini: i Persiani sono rappresentati dai Centauri, esseri umani solo a metà, non ancora usciti dalla loro matrice animale, simili a belve capaci solo di vivere in un branco dove le differenze individuali scompaiono e tutti sanno solo seguire il loro capo. I Lapiti (in realtà i Greci), al contrario, sono esseri umani compiuti, dotati (grazie al “Logos”) d’autocoscienza e capaci, pertanto d’affermare la propria individualità nell’ambito di una comunità più evoluta e più propriamente umana. La vittoria dei Greci sui Persiani fu, nella storia dell’umanità, una prima affermazione di una comunità d’individui pensanti sul branco, della ragione sul cieco istinto, di un rapporto di libera collaborazione responsabile contro uno di obbedienza acritica. Si tratta di una guerra ancora in corso e i nostri sforzi di diagnosticare nel paziente una parte sana (ossia di liberare l’individuo che egli è dalla prigione di un mondo illusorio condiviso) ne rappresenta uno dei tanti episodi.
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