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Comunità Terapeutiche per adolescenti: funzioni e obiettivi

6 Feb 13

Di FRANCESCO BOLLORINO

G. Ferrigno, M. Marcenaro, S. Penati, M. Senini, G. Giacomini, P. Rossi, N. Fogato, C. Fizzotti, W. Natta, M. Fenocchio, S. Giulianelli, V. Vinciguerra, L. Camposano.

Dipartimento di Neuroscienze Oftalmologia e Genetica – Sezione Psichiatria – Direttore Prof. F. Gabrielli

Le comunità terapeutiche residenziali per adolescenti costituiscono senza dubbio una risorsa importante per garantire la continuità di assistenza e cure nei casi di grave patologia con contesti familiari ed ambientali sfavorevoli.
All'interno del gruppo di lavoro e formazione dedicato specificatamente alla cura degli adolescenti(vedi l'articolo su Pol-it: "Un'esperienza psicoterapica con adolescenti e genitori"), i due membri più giovani di età, uno specializzando in psichiatria e una tirocinante psicologa, si sono proposti di "far visita" ad una comunità terapeutica per adolescenti, per poter vivere direttamente le emozioni suscitate dall'incontro con questi giovani pazienti e l'ambiente di cura.
Si è scelto come punto di riferimento la Comunità Terapeutica "Tuga" di Borzonasca (Ge), non solo perchè una delle poche realtà istituzionali e terapeutiche a tempo pieno per adolescenti presenti nella nostra regione, ma soprattutto in quanto di recente apertura e, quindi, in "fermento evolutivo".

Funzioni e obiettivi delle comunità terapeutiche

Il ricovero in comunità terapeutica ha una sua specificità laddove siano falliti precedenti interventi educativi e riabilitativi, terapeutici individuali, familiari e di gruppo, ricoveri ospedalieri, sostegno al contesto ambientale, affidi familiari ecc. e vi sia impossibilità di gestire il disagio psichico in aspecifiche strutture di accoglienza non sanitarie per minori.
L’obiettivo della comunità terapeutica ha come finalità la costruzione di una "cornice", di uno spazio protetto dove gli operatori (medici, psicologi, infermieri, educatori) sono impegnati in vari modi ad aiutare i ragazzi a riprendere un contatto con la realtà, ripristinando, per quanto possibile, i compiti evolutivi e svolgendo una funzione di collegamento e mediazione con il mondo esterno.
All'interno della struttura, risulta di fondamentale importanza l’integrazione tra competenze mediche, psicologiche, interventi sociali e di tempo libero: resta valido l’assioma che "l’adolescenza si cura con l’adolescenza", ovvero permettendo e stimolando esperienze formative adeguate all’età (Carratelli, 1998). L'equipe curante dovrebbe mantenere una certa flessibilità rispetto alla cura dei pazienti, ma nel contempo mantenere una certa coerenza, sia nel rispondere ai bisogni fisici ed emotivi del giovane paziente, sia nello svolgimento delle funzioni educative.
Durante il soggiorno dell’adolescente in una struttura psichiatrica residenziale a tempo pieno si ha inoltre l’occasione di poter lavorare sulle interazioni reali tra i ragazzi e i familiari, in un campo di osservazione più allargato, che può consentire di valutare direttamente eventuali relazioni disfunzionali, allo scopo di renderle, attraverso atteggiamenti di mediazione, più flessibili ed efficaci. E’ utile, innanzitutto, poter stabilire anche una valida alleanza terapeutica con i genitori, in modo da poterne contenere le ansietà, offrendo così un aiuto non solo all’adolescente, ma anche alla famiglia: entrambi sono infatti chiamati ad affrontare un passaggio specifico e significativo del ciclo vitale, nonostante l’imprevista ed angosciante irruzione della psicopatologia del ragazzo.
In ogni caso, indipendentemente dalle modalità organizzative di ogni singola comunità terapeutica, l'obiettivo principale è quello di inserire l'adolescente in un ambiente più disciplinato e meno caotico di quello familiare (Carratelli, 1998). Attraverso la creazione di nuovi rapporti significativi e la realizzazione di interventi contenitivi, è anche possibile, infatti, sottrarre i genitori all'aggressività dei figli, interrompendo il circolo vizioso di rabbia che si ripercuote anche su quest’ultimi.

L'intervento terapeutico in una struttura residenziale per adolescenti

La Comunità Terapeutica per adolescenti avrebbe quindi l'obiettivo di promuovere lo sviluppo del giovane paziente, di renderne possibili il recupero e la ripresa del cammino evolutivo, con un'apertura verso l'esterno.
L'intervento psicoterapeutico si avvale di diversi orientamenti metodologici:
L’approccio psicoanalitico ha l’obiettivo terapeutico di favorire lo sviluppo delle funzioni dell’Io e delle istanze superegoiche dell’adolescente, favorendo una maggiore consapevolezza e padronanza del proprio mondo interno, considerando le relazioni fra conflitti inconsci, ideali, meccanismi di adattamento e di difesa.
L’approccio comportamentale prevede invece un metodo più direttivo, al fine di ottenere una diminuzione dei sintomi psichici ed un migliore adattamento all’ambiente sociale, con l’ausilio anche di un trattamento psicoeducazionale.
Attualmente si cerca l'integrazione tra l'approccio psicoanalitico e quello comportamentale, in quanto obiettivo ideale sarebbe la combinazione della ricostruzione psicodinamica dei vissuti dell'adolescente con la modificazione del comportamento sociale disfunzionale (Miskimins, 1990).

Ogni operatore che svolge la propria attività psicoterapeutica e assistenziale all'interno di una comunità terapeutica per adolescenti dovrà quindi disporre di specifiche categorie interpretative per una seria comprensione delle loro problematiche: il dialogo con l'adolescente dovrà presupporre la coscienza che i sorprendenti sviluppi intellettivi, le nuove capacità di astrazione, concettualizzazione e di espressività linguistica, tipiche di quest'età, restano spesso indipendenti, se non addirittura dissociati, dalla realtà emotiva e comportamentale, concentrata narcisisticamente sul proprio conflitto interiore (A. Freud, 1961). Esso non permette, quindi, l’utilizzo delle potenzialità del giovane, ma causa il blocco delle competenze e spesso, di conseguenza, una significativa compromissione dell’autostima. Tutto ciò deve essere "riattivato".
Da qui l'opportunità, all'interno di una comunità terapeutica, di evitare modelli ideologici e tecnici troppo rigidi, prediligendo setting a volte inconsueti ed informali, ma non anarchici, in cui l'adolescente si senta libero, di volta in volta, di scegliere il suo oggetto di identificazione, di modulare le sue contemporanee esigenze di dipendenza e di autonomia, di mostrare, a seconda delle situazioni, le parti di sè in cui sente di rispecchiarsi in quel momento, avendo però la sicurezza di essere contenuto negli aspetti distruttivi.

 
 
 
 
Il significato della dimensione di gruppo e le problematiche controtransferali all'interno delle comunità terapeutiche per adolescenti

L'approccio terapeutico nelle comunità residenziali riflette l'esigenza di appartenere ad una dimensione collettiva, che contraddistingue in modo particolare la vita dell'adolescente; egli appare sempre alla faticosa ricerca di un proprio spazio di contenimento delle angosce paranoidi e depressive evocate dalla difficile fase di transizione che sta affrontando e l'affidamento al gruppo terapeutico della comunità (che coinvolge gli operatori e anche i ragazzi ospiti) può costituire quindi un'insostituibile occasione di sperimentare nuove alternative relazionali al di fuori della propria famiglia.
Proprio all'interno delle comunità terapeutiche, infatti, sembrano evidenziarsi in modo emblematico i processi di risonanza e dirispecchiamento affettivo descritti da Foulkes (1976) all'interno dei gruppi terapeutici: attraverso tali meccanismi, ogni soggetto tende a riconoscere nell'altro parti di sè, avvertendo come sentimenti ed istanze emotive del gruppo risuonino armonicamente nel proprio mondo interno. E' come se ogni singolo individuo partecipasse ad una "matrice" comune che lo trascende (Ancona, 2006).
In certi casi, è solo all'interno di queste dinamiche gruppali che l'adolescente può sentirsi in grado di intraprendere un percorso interiore, pur carico di insidie, per riparare le aree traumatiche del proprio Sè, in una sorta di "luogo transizionale" (Ferrigno, Marcenaro, 2005), protetto dalle laceranti angosce di smarrimento e frammentazione interiore. L'atmosfera della vita di una comunità di adolescenti sembra perciò essere particolarmente ricca di quei "pensieri selvaggi", individuati da Foulkes all'interno di una dimensione di gruppo, che sembrano vagare in un inconscio comune, in attesa di un soggetto che li "pensi", cioè li elabori e li comunichi verbalmente agli altri. Questi frammenti di pensieri non si riferirebbero solo alla dimensione del presente, ma sarebbero una sorta di "eredità del passato" di ciascun membro del gruppo. Proprio dalla loro ricostruzione può iniziare il processo di recupero di quella continuità storica del singolo, bruscamente interrotta nel corso della vita del soggetto.
Per concludere, l’obiettivo di una comunità terapeutica per adolescenti è quello di costituire un'area intermedia tra malattia e realtà esterna, che storicizzi e dia un nuovo significato ai vissuti interiori dell'adolescente, anche attraverso l'esercizio di attività concrete. A questo proposito, la capacità degli operatori di organizzare la vita del ragazzo in opere utili alla sua formazione e di scandire il tempo della giornata in ritmi stabili può essere fondamentale per facilitare l'interiorizzazione di un flusso temporale armonico, che si contrappone alla caotica rappresentazione circolare del tempo della mente psicotica (Conti, Ferruta, 1998).
Nell'ambito di un gruppo terapeutico, inoltre, il giovane paziente ha la possibilità di esteriorizzare le rappresentazioni del Sé e dell'oggetto sincronicamente, anziché diacronicamente su un solo terapeuta. In questo modo anche i meccanismi di difesa primitivi (in particolare la scissione e la proiezione di contenuti psichici dolorosi sull'ambiente esterno), che spesso l'adolescente problematico tende a mettere in atto in situazioni conflittuali, risultano diluiti e più distribuiti nella matrice gruppale (Cahn, 1991; Gabbard, 1994).
Una comunità per adolescenti deve compiere, inoltre, un'opera di continuo "aggiustamento" rispetto alle violente emozioni controtransferali suscitati negli operatori dai frequenti agiti di tipo aggressivo e sessuale dei giovani pazienti, che hanno spesso caratteristiche trasgressive, provocatorie e distruttive. Il gruppo dei curanti può sopravvivere agli attacchi dei pazienti solo se risponde con un atteggiamento ed una lettura del comportamento del ragazzo univoci e coerenti da parte dell’equipe curante, che permettano all'adolescente di esprimere le proprie esigenze di autonomia, ma entro i limiti del rispetto per l'altro.

Il trattamento residenziale deve inoltre tenere presente, insieme al vantaggio del luogo di cura e di passaggio, anche possibili esiti negativi e disgreganti, derivati dal distacco dagli ambienti familiari e dalle consuetudini precedenti. Se, infatti, le nuove esperienze in comunità possono in parte colmare pregressi vuoti affettivi ed educativi, è anche vero che, se non sono condotte adeguatamente, potrebbero determinare effetti destabilizzanti nella personalità del giovane, con pericolose scissioni nella stessa sfera dell'identità: in luogo di un'integrazione riparatoria, potrebbero emergere infatti vissuti frammentati e tra loro contrastanti. In tal senso, anche il momento del nuovo distacco e del rientro alla vita precedente andrà preceduto da un attento lavoro di rielaborazione dell'esperienza vissuta, tenendo sempre presente che, a fronte dell'instabilità interiore del giovane, si rende oltre modo necessario stabilire ottimali condizioni di gradualità nella preparazione a nuovi eventi.
Gli operatori dovranno acquistare così la funzione di Io ausiliario per l'adolescente (per contribuire a costituire quello spazio mentale di attesa tra impulso ed azione) e di contenitori delle sue angosce distruttive. Gli atteggiamenti di protesta e ribellione contro le figure rappresentanti l'autorità sono inevitabili nell'arduo percorso di separazione-individuazione dell'adolescente; in tale contesto, tuttavia, l'operatore non rappresenta solo il bersaglio dell'aggressività, ma mantiene al tempo l'irrinunciabile funzione di modello identificativo: il giovane ha bisogno di figure contro le quali lottare, mettersi alla prova, per individuare le proprie potenzialità e stabilire i suoi limiti. Il terapeuta deve perciò avere un atteggiamento duttile, ma non arrendevole, per non correre il rischio di trasformarsi confusivamente in un amico fuori luogo: "Un operatore psichiatrico dovrebbe proporre un'immagine di adulto determinato ma flessibile, che accetta e promuove il confronto con gli altri adulti e i colleghi coinvolti nel problema dell'adolescente […]. Un terapeuta in carne ed ossa, che aiuti l'adolescente a rinunciare progressivamente, per quanto possibile, alle illusioni dell'onnipotenza infantile e ad accettare i propri limiti, e che nello stesso tempo riconosca la vulnerabilità narcisistica del giovane, evitando comunicazioni che lo umilino troppo, e ne valorizza attivamente le reali capacità" (Ferrigno, Marcenaro, 2005).
Nel corso della relazione terapeutica, gli oggetti esterni, compresi i curanti, saranno ora investiti positivamente e vissuti come figure salvifiche ed integrative del proprio Sè da definire, ora come personaggi intrusivi, alienanti e persecutori da cui difendersi. Il curante dovrà quindi considerare e monitorare costantemente i movimenti controtransferali, particolarmente intensi e significativi nel corso della presa in carico di adolescenti problematici.
Da un lato, infatti, vi è il rischio che il giovane paziente idealizzi eccessivamente l'operatore di riferimento: quest'ultimo, talora anch'egli alla ricerca di gratificazioni e di conferme sul proprio valore, potrebbe trascurare di considerare l'idealizzazione come un meccanismo di difesa dell'adolescente, messo in atto per evitare di prendere coscienza di dinamiche conflittuali più profonde: potrebbe quindi verificarsi una sottile collusione con la tendenza del paziente ad agire, anziché verbalizzare le proprie inquietudini, con l’impossibilità di dare un significato a "quanto accade", favorendo la scissione invece dell’integrazione.
All'opposto, alcuni comportamenti provocatori e distruttivi tipici dei pazienti adolescenti possono evocare nel terapeuta sentimenti di astio, risentimento e rabbia, spesso difficili da gestire e da elaborare senza un gruppo terapeutico che assolva alla funzione di supporto e di contenimento (sia delle proiezioni del giovane, sia delle angosce del singolo curante e dell'equipe). In tale contesto, il terapeuta deve quindi essere messo nelle condizioni di non restare in balìa del caotico mondo interno dell'adolescente, ma di sfruttare in senso terapeutico il controtransfert, come insostituibile modalità di cogliere in modo speculare, attraverso il proprio vissuto, i sentimenti avvertiti dal paziente, sapendo però sempre di non essere solo, ma di essere inserito all’interno del gruppo terapeutico.
Per svolgere adeguatamente tale delicata funzione pedagogica e terapeutica, risulta quindi essenziale che gli operatori possano usufruire di uno spazio comune, all'interno del quale condividere le proprie esperienze ed elaborare gli intensi sentimenti controtransferali che l'adolescente tende ad evocare. Le riunioni tra gli operatori costituiscono quindi una significativa "area transizionale" (Ferrara, Ferruta, 1998) in cui contenere gli agiti, ristrutturare e preservare la coerenza della struttura organizzativa.
Usando una metafora di Bion, infatti, così come l'apparato psichico può andare in pezzi, anche l'apparato terapeutico rischia di andare incontro ad una disgregazione, sotto la spinta delle angosce e delle contraddizioni proiettate dall'adolescente, che spesso è molto abile nel creare divisioni e sentimenti di competizione all'interno dell'equipe dei curanti. Inoltre, anche nello stesso operatore si possono evidenziare meccanismi di scissione interiore, tra fantasie salvifiche ed impulsi di restituire le proiezioni aggressive ricevute, che potranno essere esteriorizzate e neutralizzate attraverso il confronto ed il contenimento dei colleghi (Gabbard, 2002; Gabrielli et. al., 2005).
L'analisi dei vissuti e del flusso di sensazioni quotidiane percepite durante il lavoro non sono solo esperienze di vita che arricchiscono il patrimonio umano del curante, ma anche veri e propri strumenti terapeutici, attraverso i quali l'operatore ha l'occasione di poter decifrare e cogliere le corrispondenze, spesso enigmatiche ed inesprimibili a parole, tra la propria esperienza interiore e quella dell'adolescente.
 

Esperienza dei primi mesi di lavoro della Comunità terapeutico riabilitativa "TUGA" per adolescenti

M. Senini, C. Gabriele,M. Mosto, L. Apicella, O.Esu, S.Finocchietti, S. De Katt, K. Del Dottore, R. Rossini, A. Paoloni, Fadda E.,A. Denevi, F. Vaccarezza.

Descrizione della Comunità:

La Comunità TUGA è aperta dal 16/10/2006. Si tratta di una struttura residenziale, terapeutico riabilitativa per adolescenti, con disponibilità di 15 posti letto.
Attualmente sono presenti 15 pz dai 12 ai 19 anni. L'equipe è composta da una Direttrice sanitaria, psichiatra, una Direttrice amministrativa, un infermiere e un'infermiera professionali, un Oss, tre psicologi e quattro psicologhe con funzione educativa. Si tratta di un gruppo giovane, i cui componenti sono stati scelti non solo in base alle precedenti esperienze lavorative, ma prevalentemente in base alle caratteristiche individuali, alla motivazione ed alla loro formazione.
La struttura è costituita da un nucleo centrale di due piani: al pian terreno sono collocati l'infermeria, la direzione, la cucina e gli spazi comuni; al piano superiore le camere degli ospiti.
Esternamente vi è un giardino a terrazze, uno sterrato rettangolare pavimentato che può essere utilizzato per gli sport e una piccola unità di due piani, separata dal nucleo centrale, in cui sono collocati rispettivamente al piano superiore un laboratorio e, al piano inferiore, l'amministrazione.
Particolare è l'utilizzo che i pazienti fanno di una particolare stanza, che rappresenta una sorta di "zona franca", uno spazio, nel senso più ampio del termine, percepito dai ragazzi come luogo e momento di "decompressione", in cui si attua una detensione dei conflitti, spesso agiti precedentemente con alcuni operatori. Zona dove vengono accolti da un'operatrice specifica, vengono aiutati a verbalizzare i conflitti e, per quanto possibile, vengono promosse istanze riparative.
Si tratta di un luogo di mediazione tra esterno e interno della struttura, apparentemente neutro e scevro di minacce persecutorie, in cui i ragazzi si percepiscono forse più "sani", avendo imparato a utilizzarne la funzione.
Essenziale risulta, inoltre, il riconoscimento della privatezza degli spazi e della necessità del giovane paziente di sentirsi in un luogo che riconosca le sue esigenze di autonomia e di libera espressione di sè, pur nella condizione di dipendenza in cui al momento si trova.
Sono disponibili anche attrezzature diverse per attività come gioco, esercizio fisico, ascolto della musica, luoghi idonei per fare i compiti (considerando l'importanza dell'attività scolastica, spesso parte integrante della terapia). 
La Comunità nel suo insieme è cintata da una rete protettiva, volutamente bassa e facilmente scavalcabile, confini che i ragazzi riconoscono e scelgono di mantenere di volta in volta.

Il progetto terapeutico-riabilitativo:

Il nostro progetto condiviso è quello di favorire, attraverso l'utilizzo di diverse figure di riferimento, con professionalità diverse, il raggiungimento nei ragazzi di una maggiore autonomia possibile, con un progressivo reinserimento sociale, mettendo in moto le competenze che nei ragazzi sono al momento bloccate.
La Comunità Tuga si propone di offrire al giovane paziente un approccio integrato, centrato da una parte su di un intervento terapeutico-educativo sul paziente e, contemporaneamente, sul lavoro indirizzato al gruppo degli operatori. Viene a quest'ultimo dedicata la riunione settimanale d'equipe, nell'ambito della quale vengono affrontate le difficoltà sia generali, sia individuali riscontrate durante la settimana rispetto alle conflittualità tra operatori e del singolo o il gruppo dei pazienti. Si tratta di un momento di chiarimento, confronto e negoziazione in cui ogni decisione viene discussa, sfruttando le caratteristiche professionali e individuali di ognuno, e di valutazione delle diverse prospettive del problema in presenza del responsabile.
Successivamente si svolge una riunione ad orari definiti con i giovani ospiti, dove vi è uno scambio reciproco di comunicazioni e opinioni rispetto all'andamento generale della struttura.
Durante la settimana vengono svolte attività espressivo-riabilitative interne alla struttura, gestite da un educatore.
Una volta a settimana vengono svolti colloqui individuali psicoterapici con controlli della terapia farmacologica, dove necessario. Ogni paziente ha un progetto individualizzato ed è seguito da una mini-equipe, composta da tre operatori.
Una volta al mese si propone per i familiari un gruppo di sostegno. Inoltre si cerca di mantenere costanti i rapporti con i servizi invianti. 
Il progetto per ogni paziente si svolge sostanzialmente in due fasi: la prima, finalizzata al raggiungimento di un discreto "compenso" psicopatologico, la seconda prevede la definizione di un programma terapeutico-riabilitativo che tenga conto delle inclinazioni e risorse del paziente utilizzando tutte le risorse possibili presenti sul territorio, quali scuole, corsi professionali, tirocini e borse lavoro.
Tale lavoro comporta grande fatica e dispendio di energia da parte degli operatori e dei giovani pazienti, spesso conflitti, contraddizioni e qualche rinuncia. 
Concludendo, ci immaginiamo la nostra Comunità come un luogo dove le regole e i tempi debbano essere chiari e ben definiti, ma soggetti a una certa flessibilità e i cui criteri vengano discussi tra operatori e con i pazienti, in cui l'obiettivo terapeutico sia quello di aiutare i pazienti a sostituire l' "azione" con il pensiero.

 

L'esperienza alla Comunità Terapeutica di Borzonasca: una giornata da adolescenti

di Gabriele Giacomini

 

Iniziamo il viaggio verso Borzonasca in una mattina piuttosto grigia e cupa, verso una meta poco conosciuta, che evoca in me sentimenti alquanto ambivalenti: da un lato, infatti, provo una certa inquietudine e mi chiedo se saprò pormi con giuste modalità di approccio con i ragazzi. Dall'altro, tuttavia, sono molto coinvolto ed incuriosito da questa nuova esperienza: dopo tutto non è così lontano il periodo della mia adolescenza, con tutte le emozioni e le inquietudini che lo ha caratterizzato, quindi non mi dispiace rivivere questa dimensione, anche per mettermi alla prova e cercare di comprendere in che misura posso ancora riconoscermi nelle esigenze e nei conflitti di questi ragazzi.
La struttura della comunità terapeutica sembra evocare due impressioni distinte, se non contrastanti: quella di un generale "ordine", rappresentato anche dal progetto edilizio (villetta a due piani attorniata da giardino, con sale comuni, cucina, soggiorno, studio medico, sala riunioni al primo piano e stanze da letto al secondo) e quella derivata dalla compresenza del senso di vitalità e di animazione che caratterizza in particolare la vita di gruppo tra adolescenti.
Il primo vero colloquio avviene al piano superiore con una ragazza, Alessia, già conosciuta per un precedente ricovero nel nostro reparto. L'operatrice ci fa entrare in modo forse troppo intrusivo nella sua camera: Alessia sembra un po' sorpresa ed intimorita per l'evento inaspettato e per il mio riconoscimento; subito concitatamente si scusa per il disordine, dicendo di non avere ancora avuto modo di riordinare la sua stanza. 
E' evidente il suo timore di esporsi senza preavviso ad un giudizio, probabilmente temuto, sulla sua interiorità. Riconosco il viso paffuto ancora con tratti infantili, che ritrovo nei pupazzetti che adornano la sua camera, dove campeggia un grosso poster di un giocatore del Genoa, sua (e mia) squadra del cuore. Questo diventa già un punto di comunanza che sdrammatizza la tensione del primo incontro. 
L'operatrice, esercitando, forse con eccesso di zelo, il suo ruolo, insiste sull'opportunità del "mettere a posto", frase ed imperativo che da questo momento in poi ascolterò spesso ripetere, in tutte le contraddittorie implicazioni emotive che suscita nei giovani. Comprendo come questo principio di tenere pulito ed ordinato il proprio spazio abbia non solo un valore immediatamente pratico, ma soprattutto educativo, in funzione di un più adeguato e maturo adattamento alla vita sociale. Come verificherò anche negli altri ragazzi, però, questa regola non sembra essere ancora stata interiorizzata, ma resta identificata con le figure degli educatori, anzi, spesso è avvertita come norma restrittiva ed estranea. E' difficile comunque armonizzare il bisogno di trovare la propria identità ed il proprio spazio, esterno ed interno, osservando regole ancora avvertite fondamentalmente come eteronome.
Intanto, successivamente, Marco, un ragazzino di 15 anni (ne dimostra non più di dieci), si avvicina e mi parla in forte accento calabrese. "Hai visto che bell'albero di Natale abbiamo messo in soggiorno?- mi dice con orgoglio- L'abbiamo fatto noi ragazzi". Mi mostra quindi il suo cellulare, un modello dei più recenti, e mi informa che è stato un regalo di sua madre, di cui ha con sè anche la foto. Il mio interesse dimostrato per il suo telefonino, su cui ci soffermiamo molto, sembra gratificarlo. Il ragazzo è considerato agitato, impulsivo, a tratti violento, ma al momento a me sembra dolce e remissivo. Il cellulare, come gli oggetti personali della camera, crea quel ponte di continuità storica di cui i ragazzi sembrano avere qui forte esigenza. Il problema è sempre quello di riuscire a coniugare la ricerca di identità con nuove aperture sociali.
Rifletto sul problema che il clima di provvisorietà, determinato dal fatto che si tratta di una residenza a termine, può avere effetti contraddittori sui ragazzi: da un lato si inquadra nel flusso delle loro esperienze come una pausa di riflessione e di crescita, consentendo di diminuire l'esigenza di agire impulsi, riflettendo sui sentimenti che li sottendono e sugli effetti interpersonali dei loro atteggiamenti; tuttavia non posso evitare di pensare che l'idea della transitorietà inevitabile di quest'esperienza possa in certi casi acuire problematiche represse di distacco ed abbandono, nella misura in cui si stabiliscono rapporti transferali ed identificativi con le figure degli educatori e dei compagni di quest'esperienza. Anche le proposte di attività ludiche e culturali, alternate agli incontri di gruppo, mi sembra rispondano alla fondamentale esigenza di diversificare l'attenzione su esterno e interno, azione e riflessione, essenziali per una nuova prospettiva di crescita.
Incontro quindi Armando, un ragazzo di 18 anni su cui pesa una diagnosi di disturbo psicotico. Anche qui l'approccio si rivela insperatamente semplice e naturale: poichè sono abituato a relazionarmi con pazienti psicotici ricoverati in Clinica Psichiatrica, spesso in fase di scompenso, che appaiono travolti da sentimenti pervasivi di angoscia e di frammentazione interiore, resto piacevolmente colpito nel notare come nei periodi di relativo benessere questi pazienti siano in grado di mantenere comportamenti adeguati e trasmettere sinceri sentimenti di affetto ed empatia. 
Durante la riunione mattutina, Armando cerca insistentemente di prendere la parola, ma viene redarguito per la sua impulsività da un operatore, che lo rimprovera anche per il disordine della sua stanza. Risentito, il ragazzo abbandona la riunione, ma gli educatori non appaiono preoccupati, poichè egli solitamente tende ad assentarsi, in modo dimostrativo, per poi puntualmente tornare. Al suo rientro, infatti, sembra avere rimosso le motivazioni della sua protesta, ma solo razionalmente. Dopo qualche minuto, infatti, apparentemente per altri motivi, non esita a definire "carceretto" quel luogo di cura e si mostra fortemente critico verso il significato ideale di tutte quelle regole esterne, con cui non sembra ancora essersi integrato. Nelle argomentazioni che adduce, è facile riconoscere il meccanismo dell'intellettualizzazione come difesa dalle frustrazioni emotive, molto frequente in età adolescenziale.
Arriva quindi il momento del pranzo, durante il quale vengo positivamente sorpreso dalla buona preparazione del cibo e dal clima disteso e sereno che riescono ad instaurare gli operatori; è evidente l'equivalenza cibo-affetto che viene avvertita da questi ragazzi, con alle spalle tristi storie personali di deprivazioni, traumi e abbandoni. Questa condivisione mi sembra un momento fondamentale e quasi riparatorio di frustrazioni affettive, di natura spesso orale, che si possono riconoscere nel passato problematico di questi pazienti.
Dopo mangiato, ci fermiamo a parlare con Alessia e la sua compagna di camera, Elisa. Quest'ultima si presenta molto truccata, con abiti scuri ed un'espressione del viso piuttosto enigmatica; gli operatori mi spiegheranno successivamente che ella ha presentato sintomi di instabilità dell'umore, impulsività, con ripetuti tentativi di suicidio. Al colloquio resto significativamente colpito dai suoi sentimenti di vuoto interiore e di noia, che mi riferisce e sembra evocare anche in me, attraverso un'intensa identificazione proiettiva. I suoi vissuti interiori non sembrano comunque tanto dissimili da quelli di moltissimi adolescenti: appaiono in questa ragazza, in forma esacerbata, gli universali sentimenti depressivi della perdita del proprio ruolo infantile, e tali angosce risultano inevitabilmente proiettate sul corpo, che diventa da un lato mezzo di espressività, seduzione ed investimento narcisistico, dall'altro oggetto di attacco e di scarico pulsionale.
Il caso di Elisa mi fa pensare come in alcuni pazienti sia essenziale il riconoscimento precoce e tempestivo dei conflitti vissuti ed il ruolo fondamentale che può rivestire un trattamento integrato, psicoterapeutico e farmacologico, per prevenire il più possibile una grave psicopatologia nella vita adulta, al di là di ogni rigidità metodologica e di posizioni unilaterali (che sembrano spesso porre in secondo piano le esigenze del paziente e le sue intime sofferenze).
Nel primo pomeriggio, Armando mi propone di giocare a ping-pong: il ragazzo si assicura inizialmente che non lo lasci vincere e che abbia luogo uno scontro vero e leale. Apprezzo molto questa dignitosa richiesta di attenzione e considerazione su un piano di normalità, che evidentemente sembra avvertire come carente e attualmente in discussione.
Durante la lunga partita provo a parlargli e a conoscerlo meglio; ad un certo punto mi chiede: "Ma io ti sono simpatico? Davvero? No, perchè sono uno che non risulta simpatico a tutti…". Quando poi apprende che sono un medico sembra perplesso e reagisce con un'esclamazione scherzosa, ma significativa: "Ahi, ahi, ahi!"
Mi sembra di dedurre, per quanto gli elementi di osservazione siano pochissimi, che egli vive molto conflittualmente il problema della sua malattia, anche alla luce del giudizio degli altri, in cui sembra proiettare la visione di sè e la propria incerta autostima.
Egli, terminata la partita, mi invita a vedere con lui un film. Armando sembra un appassionato di film di guerra e sceglie il dvd di "Black hawk down": dice di essere rimasto colpito dal titolo, che significa "Falco nero che precipita" e rimane assorto nel contemplare le violente immagini del film, dal forte impatto emotivo, che si riferiscono alla guerra in Somalia. Dietro il suo atteggiamento alquanto distaccato, non è difficile immaginare come Armando sia realmente coinvolto da queste immagini primitive e distruttive: forse esse rispecchiano il suo mondo interiore caotico e carico di angoscia, che può accettare proprio in quanto esteriorizzato, quasi con effetto catartico.
Talvolta, durante la visione del film, veniamo disturbati da Guido, un adolescente sempre silenzioso e chiuso in sè, che ricorrentemente sente il bisogno di attaccarsi ad Armando e fargli i dispetti come un bambino piccolo. La mancanza di un'autentica comunicazione verbale mi rende difficile creare le basi per stringere un rapporto autentico con lui; tuttavia, nel suo modo di giocare con Armando sembrano evidenti le sue esigenze di stabilire una relazione affettiva con un amico, attraverso modalità insolite e contraddittorie, ma che gli permettono di comunicare vissuti altrimenti inesprimibili (quali un'urgente richiesta di attenzione).
Sono già le quattro del pomeriggio, e, dopo un breve colloquio con gli operatori, i ragazzi si preparano per una breve uscita. Ci salutano affettuosamente e si augurano di rivederci presto. Al momento dei saluti mi sembra di cogliere, negli sguardi e dietro le parole convenzionali, un senso di aspettativa, come se le nostre conversazioni, pur brevi e frammentarie, avessero aperto un varco in una routine, provando a spezzare lo schema di quegli automatismi che rappresentano i principali ostacoli ad un vero recupero del dialogo interiore.

 

Tuga, 7/12/06

di Laura Camposano

 

Il viaggio

Durante il tragitto per arrivare alla comunità pensavo a come sarebbero stati i ragazzi con un po’ di timore per come si sarebbero relazionati e a come avrei potuto comunicare con loro. Forse mi preoccupavo se sarei riuscita davvero a mettermi nei loro panni e passare una giornata almeno un po’ come se fossi una ragazza che vive in comunità. Non avevo idea di cosa mi aspettasse.
Tuga è situata in un posto fuori dal mondo, dopo Chiavari ci vuole una buona mezz’ora per raggiungerla. Intorno ci sono solo monti e nebbia e la natura si ripete. 
Anche solo passando per la strada si nota l’edificio della comunità; nella parte destra, ha una vetrata che a prima vista mi ricorda un albergo di montagna. Ci si chiede cosa ci faccia una casetta così gentile proprio lì, forse perchè si stacca molto dal resto del paesaggio che è povero di case, di persone e il paesaggio è un po’ tutto uguale.
Il giorno in cui arriviamo in comunità è giovedì, giorno in cui c’è la riunione degli operatori e poi quella degli adolescenti.
Sappiamo che le giornate sono regolate da orari per la sveglia, per le attività, sia al mattino che al pomeriggio. Nel pomeriggio con un pulmino i ragazzi a gruppi e a giorni alterni possono scendere nella cittadina e abbastanza liberamente e mettendosi d’accordo, decidere dove andare. Hanno del tempo libero e a orari stabiliti possono guardare la tv e giocare ai videogiochi. 

Tuga

 

Arrivati davanti al cancello c’è un operatore che pronto ad accoglierci, è Francesco. Un po’ confusa salgo le scale, arriviamo a un terrazzino all’aperto. Da una porta finestra esce un ragazzino tutto scompigliato, Armando, che si approccia naturalmente, il ghiaccio è rotto, ora sono tranquilla. Francesco poi richiama l’attenzione di un ragazzino dagli occhi sgranati che si sta dondolando sulla ringhiera, chissà da quanto è lì…io non ci ho fatto minimamente caso, forse ci aspettava…ma ha continuato a dondolarsi finchè l’operatore non ha richiamato la sua attenzione per presentarsi. Marco è travolgente, sembra felice di vedere facce nuove, ha l’accento del sud e un faccino simpatico e sembra che in cinque secondi ci voglia far sapere tutto sulla comunità e anche su se stesso. Mi giro a guardare gli operatori in riunione e mi sembra quasi che oltre il vetro sia un altro mondo. 
Francesco con Armando e Marco ci fanno strada all’interno dell’edificio, sembra proprio una baita di quelle in cui facevo i campi estivi da ragazzina, però più bella. La prima stanza è un salottino che dà sul terrazzino all’aperto: semplice, essenziale: c’è una tv, un videoregistratore, un divanetto e due poltrone e in fondo alla stanza una libreria abbastanza fornita di libri più o meno scolastici e dei fumetti. C’è un albero di Natale e un presepe che Marco tiene a sottolineare che è stato fatto da loro, ne è fiero e vuole sapere cosa ne pensiamo. Noi gli diciamo che è bello, ed è bello per davvero! Forse dà calore al salotto che senza il tocco natalizio è un po’ troppo asettico. Marco ci vuole fare da cicerone ma freniamo il suo entusiasmo perché Francesco ci dice dove posare la roba e mi vengono consegnate le chiavi.
Saliamo delle scale che portano alle camere dei ragazzi e in cima c’è Elisa, non sono sicura che sia un’adolescente. Forse a causa dell’abbigliamento, per il fatto che sia vicino a due secchi per pulire per terra e la sua diffidenza nel guardarmi, quasi come o io o lei non centrassimo nulla lì, mi porta a salutarla con un ciao e un sorriso ma senza presentazioni. Poi Elisa sparisce in camera.
Da una stanza arriva della musica a palla, qualcuno ci dice che quella è la stanza di Alessia, una ragazzina che già conosco. La porta della camera di Alessia è aperta, entriamo. Lei è stupita, ci saluta, mi sembra contenta e anch’io lo sono. Forse cerco qualcosa di familiare. La camera è luminosa, pulita, semplice, dà una bella sensazione: ci sono due letti, un armadio a cassettoni. Lo stereo di Alessia ha delle scritte e sopra il suo letto ci sono dei disegni colorati molto belli, uno mi colpisce in particolar modo, lei mi dice che l’aveva iniziato in clinica e finito in comunità.
Marco ci vuole far conoscere assolutamente Guido che viene richiamato da Michela, l’operatrice, perché è ancora a letto, in effetti sono le 10.30 passate da un po’. Guido è steso sul letto, anche se sarei curiosa di vedere come personalizza il suo unico spazio, accenno un saluto ed esco.
Davanti alle porte per rendere riconoscibili le stanze ci sono dei nomi scritti su un foglio che ogni ragazzo ha personalizzato: Luna di primavera, Squalo…
Aiutiamo Michela e Marco a riportare in magazzino i secchi e altra roba che è servita a riordinare le stanze.
Abbiamo un po’ di tempo per stare con i ragazzi. Marco ci monopolizza per farci vedere il suo cellulare multifunzione che aspettava da tanto da quanto ci racconta.
Dal salottino esce la musica dei Queen, musica preferita del momento di Armando. Elisa mi spiegherà che è stata lei a farglieli conoscere, per Armando pare che ora come ora esista solo quel gruppo e una canzone in particolare direi.
Dopo poco inizia la riunione degli adolescenti con gli operatori. Mancano due ragazzi: Giulio che è a scuola e Caterina, ricoverata in ospedale. 
La sensazione è che ci sia una comunicazione aperta e che si cerchi un giusto equilibrio tra l’obbiettivo degli operatori e i bisogni e desideri dei ragazzi. Equilibrio è la parola che più mi colpisce durante la riunione insieme a una frase che dice Francesco per spiegare che le cose che vengono richieste hanno un senso, è una di quelle frasi talmente semplici che non si pensano. " Tutte le cose da fare si rendono più pesanti se non se ne capisce il senso" e penso che abbia proprio ragione e che il difficile con i ragazzi stia nel fatto di comunicargli il senso e far sì che si appropino di esso. 
Quasi ho la sensazione che Marcella e Francesco siano un po’ la madre e il padre e che gli altri operatori che girano attorno siano i fratelli maggiori. Il gruppo degli adulti a mio parere crea un clima affettivo e unito dove tutti viaggiano tutti sullo stesso binario verso lo stesso obbiettivo. Armando mi colpisce per la sua difficoltà ad affrontare anche un piccolo conflitto che si crea in riunione, da solo si crea degli ostacoli per non essere ascoltato e dà la sensazione che la discussione sia stata totalmente vana. Un’altra cosa che noto di Armando è che riesce sicuramente a rapportarsi meglio con Gabriele, io non credo di stargli antipatica ma con me rimane più sulle sue. Quello con cui ho più difficoltà è Marco, al quale non riesco ad avvicinarmi più di tanto.
Appena finita la riunione ci prepariamo per il pranzo. Armando mi dice di riempire le brocche dell’acqua. Il momento del pranzo è sicuramente per me il momento più triste. Siamo seduti in un lungo tavolo con qualche operatore, entro in cucina ma vengo ripresa: i ragazzi non stanno in cucina! A tavola non mi riesce molto di parlare, anche gli altri ragazzi non parlano, sembra quasi che mangino da soli, gli operatori in questo sono bravi a creare un po’ di comunicazione che verte soprattutto su cosa ci sarà per secondo, chi vuole dell’acqua… E’ Katiuscia, un’operatrice, ad accorgersi che forse sono troppo silenziosa, mi chiede se va tutto bene. Le rispondo che è tutto a posto cercando di mascherare un po’ il mio silenzio anche perché va bene davvero.
Dopo pranzo mi siedo con Alessia ed Elisa, che fumano nel terrazzino con la vetrata. Parliamo di cosa pensano della comunità, di come stanno, di quello che fanno e dei loro progetti futuri. Elisa dà l’impressione di non voler parlare, che non le vada di raccontarsi e che a stento riuscirai a strapparle un sorriso. In realtà mi parla volentieri, mi racconta che è la prima ad essere arrivata in comunità, lei ne proviene da un’altra nella quale pare non si trovasse bene, ora dice che si trova bene anche se ha 25 anni e per lei gli altri son un po’ piccoli. In effetti l’età è una delle prime cose che Elisa mi chiede, forse sapere che ha davanti una sua coetanea l’ha ammorbidita un po’. Elisa è del sud anche lei e mi sembra che tra tutti Marco gli stia particolarmente simpatico perché provengono dalla stessa regione. Elisa mi racconta anche di quando poco tempo fa ha rivisto i suoi genitori ed è andata a far compere con loro, le chiedo cosa ha comprato e se è stata contenta di vederli, mi risponde di sì.
Con Alessia gioco a ping pong, riprendo con lei qualche discorso sulle sue preoccupazioni il giorno prima di lasciare la Clinica Psichiatrica, qualcuna si è affievolita qualcuna meno. Noto che è vestita colorata, che non ha niente di nero addosso come era sempre in reparto, glielo faccio notare, lei sorride e penso che vada almeno un po’ meglio. A ping pong sono veramente uno strazio e per fortuna arrivano Gabriele con Armando.
Armando gioca con il suo nuovo amico. Approfitto di questo spazio per parlarci un po’, mi siedo sul tavolino davanti al tavolo del ping pong. Armando ci chiede in continuazione dove abitiamo. "Genova", gli rispondiamo. "Tutti di Genova siete!?" si lamenta lui, così gli chiedo di dove sia, ma Armando sta in silenzio probabilmente sta pensando a qualche posto da inventarsi. "Ci stai pensando troppo" gli dico, lui sorride ed è un po’ imbarazzato perché l’ho scoperto e per non farlo sentire in imbarazzo gli dico che sono del Canada e a giro ognuno di noi si inventa un posto un po’ impossibile in cui vivere.
Ogni tanto compare Marco che pensa a una telefonata che dovrà fare.
Nell’ora del gruppo di lavoro riesco a comunicare con Guido: è un ragazzo alto con i capelli ricci non tanto curato nell’aspetto, il suo maglione nei polsi è tutto sfilato, pare che se lo mangiucchi. Guido mi guarda molto ma non mi parla. Katiuscia con un po’ di fatica cerca di fargli fare un lavoretto: disegna un coniglio. Guido mi chiede se mi piace, gli rispondo di sì e insieme all’operatrice decidiamo un colore, poi disegna anche un paesaggio che mi fa vedere, è bello, disegna bene. Guido diventa poi a sua insaputa il complice di Marco, che gli fa dei versi, sta ridendo un po’ nervosamente perché la telefonata che doveva fare non è andata come si aspettava. Guido a tratti continua il lavoro e un po’ gli sorride.
Sono le 16.00, alcuni ragazzi vanno via in pulmino e così andiamo via anche noi, quello del saluto è l’unico momento in cui vedo Elisa che mi sorride per salutarmi. Armando che è rimasto anche lui in comunità mi saluta dicendo il mio nome e Alessia saluta in modo affettuoso.

Il ritorno

 

Quando andiamo via un po’ mi dispiace. Mi sento bene e penso che dipenda dal clima della comunità. Ma mi sento anche libera e capisco Armando che durante la riunione ad un certo punto dice che la comunità per lui è un "carceretto" e adesso lo capisco, così ora ho questa sensazione di libertà o chissà se quando i ragazzi usciranno dalla comunità sentiranno la stessa sensazione che ho avvertito io. 
Penso che forse sarei stata un adolescente un po’ solitaria.
I ragazzi spesso ci hanno chiesto quanto saremmo andati in comunità e sul momento sentivo di dover andare per dovere e gli abbiamo comunicato che sicuramente un altro giorno saremmo andati, lasciando poi il dubbio se ci sarebbero state altre volte.
Nei giorni subito dopo mi è capitato di pensare a cosa stessero facendo e a come stavano e che magari qualche volta li sarei andata a trovare volentieri.

 
 

Tuga — Il dottore e la psicologa in visita ad una comunità terapeutica

di Paola Rossi

 
Gabriele e Laura, sulla tuga. Come quella di una nave, teatro di lavoro, emozione e dolore, nella miglior tradizione marinara. 
La nostra tuga é in verita’ immersa in un mare di verde, poco importa, fa capolino dopo curve silenziose. L’equipaggio é pensieroso, teso, prima dell’imbarco.
Cosa significa, mi chiedo scorrendo le sensazioni trasposte sulla carta dai miei colleghi, provare a vestire i panni di un giovane adolescente la cui rotta incrocia quella di una comunitá terapeutica, in un bosco, sulle alture della nostra Riviera.
Medici, o pazienti. Adulti, o adolescenti.
Conosciamo alcuni ragazzi in ospedale, in ambulatorio. Dentro l’ospedale, dentro i nostri camici bianchi. Parliamo con loro, seduti sui letti tutti uguali della clinica, o nei viali dell’ospedale. Anche se difficilmente vestono pigiami, "divisa" ufficiale dei malati, ci chiamano dottori. Perché é questo che siamo, per loro, lí.
Quando li affidiamo ad una comunitá, si conclude il percorso, il ricovero ha trovato un suo compimento. Siamo soddisfatti, o perlomeno tranquilli. Mission accomplished.
Noi restiamo in porto, loro sulla tuga della nave prendono il largo.
Ma ora Laura e Gabriele hanno preso il largo con loro, anche se per un giorno solo, anche se la scialuppa che li riporta indietro e’ pronta.
Incontro, nei loro racconti, immagini di questa insolita "casa", incontro i ragazzi della comunitá, gli operatori. Ragazzi sconosciuti che si animano via via negli incontri abbozzati, ragazzi inquadrati da diagnosi, terapie, prognosi. 
Un ragazzo determinato ed una ragazza un pó spaventata che entrano in un mondo nuovo, di altri ragazzi. Ognuno porta pezzetti della sua storia, anche Laura e Gabriele hanno i loro. 
Mentre assisto nella mia immaginazione alla partita a ping pong che improvvisano lí per lí, immagino la difficoltá di condividere con gli ospiti della comunitá questi pezzetti delle proprie storie, cosí diverse, per nostra fortuna, ma cosí vicine, nella grinta divertita con cui brandiamo la racchettina del tennistavolo.
La mensa di una comunitá puó ricordare quella di una colonia estiva, ma c’é qualcosa di greve, non ci sono a tavola tanti Charlie Brown, che seduto sul pontiletto del lago, apre il suo cuore di ragazzino all’amico di sempre, Linus.
Qui Armando, Marco e Alessia hanno prove ben difficili da superare, Gabriele ce lo ricorda, nelle sue parole sembra ben viva la coscienza del significato di un’esperienza comunitaria.
Scorro le righe dei racconti sulla giornata a Tuga, forse sto cercando un finale a sopresa, un accadimento curioso, un lieto fine un po’ inaspettato, magari.
Ma questo non é un romanzo, la giornata scorre senza clamori hollywoodiani, con tanti piú o meno silenziosi tasselli messi progressivamente uno accanto all’altro: i ragazzi affrontano un lungo percorso di riabilitazione, durerá forse anni. 
Laura e Gabriele questa sera saranno a casa, domani sono di nuovo il dottore e la psicologa. 
Ci hanno aiutato peró, io credo, ad arricchirci di nuovi spunti, nel comprendere e immaginare insieme ai nostri pazienti il senso e il valore di un progetto terapeutico in una comunitá.

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