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lungodegenza

20 Gen 13

Di FRANCESCO BOLLORINO

Gruppo di operatori di Villa S. Maria GENOVA CAMPOMORONE

(E. Carrosio, G. Contri, A. Parodi, A. Romeo, A. Serventi, L. Valentini)

 

 

Villa S. Maria (VSM) è una struttura residenziale psichiatrica, nata nel settembre 1994. Convenzionata con il sistema sanitario nazionale, fornisce un’assistenza intensiva 24 ore su 24 mediante due moduli ciascuno capace di ospitare sino venti persone.

In questo lavoro proponiamo alcuni spunti di riflessione sul tema della lungodegenza, in una comunità il cui mandato è finalizzato al riequilibrio psichico e alla acquisizione di competenze in un'ottica di reinserimento sociale dell’ospite. Ricordiamo che il regolamento della regione Liguria (n. 4/96) stabilisce per le strutture residenziali psichiatriche un tempo limite di permanenza dell’ospite pari a due anni e mezzo. Ma tale limite temporale, per la nostra comunità come per le altre comunità liguri, è in buona parte disatteso. Qui di seguito presentiamo alcuni dati riguardanti la popolazione dei nostri quaranta ospiti presenti al febbraio 2003.

 

Età media: 43 anni (dev. st. 8)

Età media d’esordio del disturbo: 22 anni (dev. st. 6)

Età media d’ingresso a VSM: 38 anni (dev. st. 8)

Media degli anni di permanenza a VSM: 5 anni (dev. st. 3)

Media degli anni passati dall’esordio del disturbo

sino all’ingresso a VSM: 17 anni (dev. st. 7)

 

 

La distribuzione delle diagnosi è la seguente:

 

Disturbo schizofrenico paranoide 10 ospiti

Disturbo schizofrenico disorganizzato 4 ospiti

Disturbo schizofrenico indifferenziato 4 ospiti

Disturbo schizofrenico residuo 12 ospiti

Disturbo schizoaffettivo 2 ospiti

Disturbo schizofrenico in remissione 3 ospiti

Ritardo mentale, disturbo psicotico NAS 4 ospiti

Dist. delirante, dist. ossessivo compulsivo di personalità 1 ospite

 

 

Dal 1995 al 2002 sono stati dimessi 40 ospiti, mediamente cinque/sei ogni anno, la cui destinazione è risultata così distribuita:

 

Abitazione 16 ospiti

In altra CT 7 ospiti

RSA 5 ospiti

CAUP 1 ospite

SPDC 4 ospiti (di cui 1 in TSO)

OPG 2 ospiti

Riammessi a VSM 5 ospiti

 

Rispetto alla lungodegenza, diciotto degli attuali ospiti si collocano in una fascia temporale di permanenza in comunità che va dai sei ai nove anni. I motivi della loro mancata dimissione sono molteplici. Per alcuni casi, è il persistere di gravi condizioni cliniche e/o gravi disabilità, associate talvolta anche a precarie condizioni socioeconomiche e di sostegno sociale. Per altri casi che hanno raggiunto un buon compenso psichico e una migliorata autonomia — frutto, probabilmente, anche di una buona risposta al trattamento comunitario — la dimissione è ostacolata anche dalla carenza di adeguate soluzioni assistenziali alternative.

Nell’attuale fase storica, le SR come la nostra rispondono a bisogni che in una certa misura vanno al di là di quelli specificamente terapeutici e riabilitativi indicati dal progetto obiettivo per la tutela della salute mentale (Gruppo Nazionale Progres 2001), implicando anche aspetti inquadrabili nell'ampio capitolo della protezione sociale. Il mandato della nostra struttura implicherebbe l’idea che la dimissione sia la conseguenza del perseguimento degli obiettivi riabilitativi, e tale idea sembrerebbe funzionare come criterio di misura della distanza tra realtà e ideale. Da una parte abbiamo un mandato che prevede un progresso e una dimissione alla fine di un percorso; dall’altra una realtà che protrae la permanenza dell'ospite in difetto di livelli di autonomia e sostegno adeguati a fronteggiare le difficoltà di una vita sociale non protetta.

Queste considerazioni danno un'idea del contesto del nostro lavoro, che richiede, tra l’altro, di adattarci ai tempi lunghi del cambiamento di persone che possono apparire stabilizzate.

Il cambiamento ci appare fatto di piccoli passi e di eventi rilevanti, punti di svolta che segnano una differenza rispetto alla normale continuità della vita di comunità; la cronicità, allora, può essere anche vista, in taluni casi, come una situazione di sospensione, una situazione esistenziale che sembra non risolversi, come in attesa del verificarsi di eventi significativi.

Ci chiediamo allora quali siano gli eventi che perpetuano o potrebbero trasformare quelle situazioni di sospensione, che gli operatori di una comunità possono vivere in relazione al problema del lungodegente difficilmente dimissibile? Quale può essere l’aspettativa degli operatori, se non quella che migliorino non solo le condizioni e le risorse degli ospiti, ma anche il livello esterno di protezione sociale? La stabilizzazione e la lungodegenza ci ricordano che dovremmo smetterla di nutrire tali aspettative? Quale il giusto atteggiamento che possa mediare tra la realtà dei tempi lunghi e un’aspettativa di miglioramento e dimissione?

 

 

L’interpretazione della lungodegenza in lavori precedenti su Villa S. Maria

La storia di Villa S. Maria si è anche caratterizzata da tentativi di formulare strategie diagnostiche (e quindi d’intervento) atte a fronteggiare il problema — che i colleghi che ci hanno preceduto iniziavano a intravedere — dei pazienti lungodegenti. Siamo intorno al 1998, termine per molti pazienti dei famosi due anni e mezzo.

La diagnosi categoriale è parsa non essere utile per predire il risultato di un trattamento comunitario. Nei primi anni di vita della comunità, si pensò di usare una diagnosi dimensionale per la valutazione dei sintomi positivi e negativi come fattore predittivo della realizzazione di un progetto riabilitativo a termine. Per quei pazienti che presentavano una persistente sintomatologia negativa, si valutò la necessità di un’ulteriore permanenza in comunità, nell'ottica di "una scelta di vita evidenziante di per sé una progettualità, una capacità di accettazione dei propri limiti […] vissuta dal paziente e vista dagli operatori non come un fallimento, una frustrazione, un insuccesso, una grave contraddizione, ma come una ragionevole ed adeguata risposta ai reali bisogni della persona" (Ciarelli et al. 1998, p. 43).

 

Alcuni pazienti furono chiamati casi impossibili, persone che hanno messo in scacco le velleità dei molti operatori incontrati nella loro lunga storia psichiatrica. Il modello comunitario e le strategie riabilitative finalizzate all'insegnamento delle abilità sociali sembravano non bastare in questi casi, perché si aveva a che fare con persone il cui livello di sviluppo psico-emotivo si era arrestato a fasi molto primitive. Il disagio degli operatori nei confronti di questi pazienti, si esprimeva come difficoltà di relazione e con un continuo chiedersi che cosa si debba fare con loro. Disagio che è stato interpretato come difficoltà a tollerare un livello di rapporto centrato sul paradosso del bisogno di non avere bisogni, per dirla con Zapparoli (cfr. Cogorno et al. 2000 e Tortora et al. 1999).

 

 

Un tema: il sentimento dell’attesa

In quali modi un paziente può acquisire, agli occhi dell’operatore, lo status di sospeso? La differenza tra risorse reali e risorse auspicate può essere alla base della constatazione che taluni pazienti potrebbero avvantaggiarsi di una certa risorsa che al momento è inesistente o non utilizzabile, e che quindi la percezione dell’operatore della situazione del paziente è che esso possa considerarsi in attesa del verificarsi di un evento rilevante.

Altre difficoltà si riferiscono alla relazione e alle dinamiche tra il gruppo di operatori e il gruppo degli ospiti. Prendiamo in considerazione, per esempio, il problema delle aspettative nei confronti degli ospiti, e in particolare delle aspettative positive deluse. L’aspettativa (ciò che mi attendo da te) può implicare, quando la relazione è di aiuto, una valutazione del genere seguente: io conosco qualcosa di te, credo che tu abbia alcune potenzialità e, se l’aspettativa è positiva, mi impegno ad aiutarti perché tali potenzialità si realizzino.

Il caso di ML ci sembra esemplare, nel senso che può funzionare da chiave di lettura di altre possibili dinamiche. Uno scompenso psicotico in una fase avanzata del progetto terapeutico, quando per ML erano pronte le dimissioni per un rientro in famiglia, ha generato una forte delusione nell’équipe curante. Sono passati alcuni anni e ML è ancora ospite della nostra comunità. Uno dei tratti che la caratterizza è la sua imperturbabile passività. Il valore dei tentativi attuali di modificare la situazione sono parsi cosa di poco conto. Perché? Forse, i parametri di valutazione attuali risentono delle alte aspettative (deluse) che ML ha creato in passato. Lo stesso atto può essere percepito in diverse maniere, rispetto al suo valore (rispetto a un paziente può sembrare avere un alto valore; rispetto ad un altro paziente, un basso valore). Quale può essere un fattore che determina tale differenza? Rispetto al caso di ML può essere l’alta aspettativa che ha creato in passato e che poi è andata delusa. Come dire: se una volta sei stato capace di fare un bel salto, cosa vuoi che sia che adesso fai solo piccoli passi.

Con pazienti che appaiono immutabili per lungo tempo, il riconoscimento, da parte di un operatore, di un movimento (in realtà di un piccolo movimento) del paziente che costituisca una novità rispetto alla normalità può trovare difficoltà a divenire coscienza comune, riconoscimento comune, impegno comune. Il paziente cronico è colui che non fa nessun movimento — oppure è qualcuno che fa comunque dei movimenti, ma che non sono riconosciuti? Con pazienti il cui grado di autonomia è molto compromesso, è necessario lavorare su piccole cose, che hanno forse bisogno, per non sembrare banali alla percezione comune, di cornici di significato pregnanti. Quindi non c’è solo da comunicare la novità in sé, ma anche il possibile significato di tale novità. La condivisione di significati pare essere un processo complesso, comunque molto meno immediato della comunicazione riguardante gli accadimenti della comunità, anche se i possibili intoppi nel ritorno delle informazioni sui piccoli movimenti del paziente può determinare la sensazione che nulla cambi.

Cosa può significare, per noi operatori che lavoriamo anche con ospiti lungodegenti e cronici, il senso dell’attesa che si verifichi un evento significativo? L’attesa non è solo una pausa, che può esserci se intendiamo con essa un fermarsi dei pensieri che hanno lo scopo di mutare una situazione, un calo dell’impegno ad aggiornare l’immagine che si ha di un dato paziente. Il sentimento dell’attesa, che può prendere l’équipe in certi casi, può essere visto come il campanello d’allarme che segnala che qualcosa che ci ha deluso in passato non è stato veramente dimenticato. Il tentennare dell’équipe rispetto all’introdurre una novità (un nuovo compito per l’ospite, un rivedere la situazione da un punto di vista diverso, uno stile di lavoro nuovo nell’affrontare lo stesso caso) è forse il segnale — come nel caso di ML — di una delusione non superata.

Non solo questo ovviamente, ma forse anche questo.ù

 

Autori

Eugenia Carrosio (psicologo), Giuseppina Contri (medico psicologo clinico), Alessandra Parodi, Alessia Romeo, Alessandro Serventi (educatori), Lucia Valentini (psicologo). La realizzazione finale del lavoro è stata curata da Alessandro Serventi.

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