Secondo l’art.32 della Costituzione vige il principio per il quale nessuno può essere sottoposto a trattamenti medici contro la sua volontà.
A livello internazionale si fa riferimento alla Convenzione di Oviedo del 1997 che è stata ratificata dall’Italia con la Legge n. 145 del 28 marzo 2001, segnatamente all’art. 6, che così recita: “un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa”.
In situazioni di urgenza, il medico è tenuto ad intervenire al fine di salvaguardare il preminente interesse della salute del paziente e la sua attività è da qualificarsi in quest’ipotesi pienamente legittima, come previsto dalle disposizioni del codice civile e dal codice penale. Norme che consentono al professionista sanitario di eseguire il trattamento in assenza di consenso espresso quando vi sia un “rischio grave ed imminente” per la vita del paziente.
Nel lavoro con le cure palliative domiciliari si verificano spesso casi nei quali i familiari del paziente hanno sollecitato il medico a non informare l’assistito. La peculiarità di queste fattispecie risiede nel fatto che non sussiste un’urgenza effettiva di provvedere con interventi chirurgici o terapie ad hoc, ma si è in presenza di prognosi infausta circa il decorso naturale della malattia.
Come procedere? E’ il caso di esaminare ogni singolo caso? È il caso di valutare le singole condizioni di ogni singolo paziente?
L’avvento di una malattia nel corso della vita di una persona pone l’individuo di fronte a una nuova condizione esistenziale che spesso lo rende dipendente da terzi sotto molti aspetti: fisico, economico, sociale, psicologico, relazionale, spirituale ecc. Ed è la somma di tutti questi fattori che fanno precipitare la persona in uno stato di fragilità temporanea, quando la malattia ha una prognosi benigna, oppure permanente, quando la malattia ha un decorso cronico e una prognosi infausta a lungo termine. L’eventuale assenza del nucleo familiare o di una rete di supporto amicale, infine, cui la persona possa fare riferimento e da cui possa essere sostenuta complicano ulteriormente il quadro e pongono una domanda alla società che tuttavia sembra essere impreparata, in molti casi, e incapace di dare risposte efficaci. Un approccio che tenga conto di tutti i fattori che rendono una persona malata ancora più fragile dovrebbe permettere di acquisire una maggiore sensibilità rispetto all’ampio ventaglio di situazioni che possono rendere più difficile al malato stesso, per motivi specifici ed ulteriori rispetto alla patologia di cui soffre, avere un dialogo con gli operatori sanitari, comprendere le informazioni che gli sono date ed esprimere la sua reale volontà.
La malattia si pone come percorso condiviso, gli affetti rivestono un ruolo centrale nell’assunzione delle determinazioni terapeutiche da parte del titolare del diritto alla salute. Tuttavia, nonostante l’indubbia importanza del consulto dei familiari e delle persone più vicine per il paziente, soltanto a questi spetta la decisione finale circa l’intervento sanitario cui sottoporsi, compreso il rifiuto della prosecuzione delle cure quando comportino, con ogni probabilità, la fine della vita.
Occorre osservare, al contempo, come l’ampiezza e il contenuto delle informazioni fornite dal medico all’assistito sia espressione di specifici valori sui quali si impernia la cultura medica di un preciso contesto territoriale. In Italia e in Europa in generale, a differenza delle prassi cliniche seguite nella zona nordamericana, si ritiene che talvolta sia legittimo non rivelare completamente la verità al paziente circa le sue condizioni fisiche, in vista del perseguimento di una finalità anch’essa terapeutica: evitare che questo, dinanzi ad una prognosi infausta, assuma un atteggiamento negativo o addirittura tenti di porre fine alla sua esistenza. È comprovato, difatti, che il mantenere uno stato mentale positivo, ossia il manifestare un comportamento reattivo nell’affrontare le cure nella speranza di sconfiggere la patologia da cui si affetti o di migliorare comunque la qualità della vita futura, incide significativamente sulle possibilità di guarigione. In questa prospettiva, il medico, sotto sua responsabilità e anche all’esito di un confronto con i congiunti del paziente, potrebbe anche scegliere di evitare affermazioni drastiche nell’informare il paziente, ad esempio non indicando un termine massimo di aspettativa di vita, dunque in fatto omettendo parzialmente una parte di verità. Siffatta tendenza emerge soprattutto nel caso di pazienti anziani o minorenni, la cui delicata condizione, in quanto tali, impone l’adozione di maggiori cautele.
È vero che il medico, d’altro canto, non può esimersi dall’illustrare integralmente la situazione clinica al paziente quando questi lo richieda espressamente. Si tratta di aspetti che concorrono tutti alla valutazione di un’eventuale responsabilità giuridica del professionista sanitario.
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