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L’intervento psicologico in Dietologia

14 Gen 13

Di

di Marco Migliozzi, Fabrizio Dall'Olio, Massimo Arcella, Francesca Santoro, Enrica D'Aprile, Manila Boarini, Alessandro Fanuli e Grazia Zambelli 
Ospedale Bellaria – Dipartimento Oncologico, U. O. di Psicologia Clinica Ospedaliera – Direttore : Prof. G. Pagliaro, A.U.S.L. di Bologna

Il modello teorico al quale facciamo riferimento inquadra il Disturbo del Comportamento Alimentare come un sintomo alla base del quale esiste un problema di dipendenza patologica dal cibarsi, attività che è espressione di una difficoltà di queste persone nella regolazione delle proprie emozioni. 
Con il termine regolazione s’intende "la tendenza di un organismo vivente a compensare un’insufficienza o un’anomalia di sviluppo ristabilendo un rapporto normale fra le diverse parti quando sia venuto meno, in seguito ad un avvenimento traumatico, l’equilibrio" (Nouveau Larousse Médical, 1981). Questo concetto è stato introdotto in psicosomatica da Weiner il quale rilevava che, nella maggioranza dei disturbi psicosomatici, è possibile individuare un’impasse nei meccanismi regolatori dei sistemi psicofisiologici colpiti dalla malattia. Lo sviluppo di qualunque persona prevede che questi meccanismi regolatori entrino in funzione automaticamente in caso di necessità, ovvero che non sia necessario attivarli volontariamente.Quest’automatismo permette alla persona d’autoregolarsi, ossia d’essere indipendente da fattori esterni per il funzionamento dei suoi sistemi psicobiologici più importanti. Una relativa indipendenza da fattori esterni costituisce, infatti, un elemento chiave nel mantenimento della salute fisica ed emotiva. Dove questa mancanza d’autoregolazione si traduce in una massiccia dipendenza da fattori esterni dei sistemi psicobiologici fondamentali, la salute della persona è particolarmente a rischio. 

Il primo comporsi della regolazione psicobiologica avviene all’interno della relazione con la madre, o con un accudente principale. Il neonato inizia la sua vita come un "sistema aperto": questo sta a significare che alcune funzioni psicofisiologiche necessarie al mantenimento della stabilità dell’ambiente interno sono svolte dalla relazione tra il neonato e l’accudente. Nelle fasi più precoci dell’esistenza, i livelli biologico e psicologico non sono ancora nettamente distinti e quindi le sensazioni di sicurezza sono associate alla percezione d’equilibrio tra le diverse parti in rapporto tra loro, alle sensazioni derivanti dalla regolazione psicobiologica svolta dal legame d’attaccamento. Questa relazione diventa il modo in cui i membri della coppia s’influenzano l’uno con l'altro, e questo livello presimbolico della regolazione costituisce le fondamenta della costruzione di una rappresentazione interna del legame che, una volta stabilmente interiorizzato, assicura una relativa indipendenza dall’altro. Nella nostra specie, infatti, con lo sviluppo, il livello mentale o simbolico diviene almeno altrettanto importante di quello sensomotorio. Viviamo tanto in un mondo interno di rappresentazioni quanto in un mondo di persone reali. Queste rappresentazioni interne nei bambini più grandi e negli adulti svolgono agli effetti della regolazione il ruolo di surrogati simbolici ma efficaci, che impediscono per esempio lo sviluppo di risposte da assenza di regolazione nel caso di separazioni temporanee. Il livello di regolazione si sposta, in altri termini, dal livello sensomotorio delle interazioni reali ad un livello cognitivo più alto d’attese e tracce mnestiche strettamente correlate con la rappresentazione interna della relazione. Questo permette di tollerare separazioni anche prolungate senza che si attivino risposte di lutto complete. Reciprocamente, un’informazione puramente cognitiva riguardante la morte di una persona ha in genere un effetto psicofisiologico anche se nulla cambia al momento nella realtà immediata. Quando abbiamo sufficienti elementi per ritenere che abbiamo subito una perdita definitiva e non una separazione temporanea, cambiano le nostre attese. Renderci conto che le attese di ritrovare quella persona sono irrimediabilmente destinate alla delusione provoca ondate di sofferenza acuta e una serie di disturbi più cronici. Possiamo ipotizzare che in queste attese risieda la funzione regolatrice (sul piano anche psicofisiologico) della rappresentazione interna della relazione. È possibile che questo doloroso riesame implichi la dissoluzione del legame associativo tra attesa e sistemi biologici, di modo che la rappresentazione interna cessa gradualmente di essere un regolatore. In condizioni ottimali le funzioni regolatrici svolte dalle interazioni reali con gli accudenti primari sono interiorizzate nel corso dello sviluppo. Per quanto la necessità di una regolazione esterna non sia mai del tutto superata, lo spostamento verso l’interno permette una crescente capacità d’autoregolazione ed una progressiva autonomia dalla presenza dell’altro. Quando invece le esperienze primarie di sintonizzazione sono costantemente carenti, o i processi regolatori non sono sufficientemente interiorizzati, il bambino può ammalarsi fisicamente, o sviluppare un disturbo del comportamento. In alternativa, il bambino può garantirsi un equilibrio fisiologico (omeostasi) e un equilibrio mentale mantenendo una dipendenza di tipo simbiotico dall’altro; nell’età adulta, tale dipendenza potrà essere trasferita nella relazione con il coniuge o altra persona reale. Qualora questa relazione vada perduta per morte o separazione definitiva, o abbia subito una grave delusione, si potrà avere uno stato di disregolazione, che potrà portare all’insorgenza di una malattia fisica o mentale.
L’esistenza di una tale problematica, pertanto, non si limita alla sfera intrapsichica, ma produce effetti anche in quell’interpersonale, perché la mancanza d’autonomia, conseguente ad un carenza dell’apparato psichico nella (di) gestione autonoma delle emozioni – un equivalente psicologico del lavoro fisico a carico del nostro apparato digerente — predispone la persona a stabilire una relazione caratterizzata dalla dipendenza dalla presenza dell’altro, e una marcata reattività all’eventuali delusioni nelle sue relazioni di attaccamento. 
Il deficit produce, inoltre, una tipo di pensiero emotivamente impoverito, "alessitimico" – alessitimia letteralmente significa: essere senza parole per le emozioni – che non solo ostacola la capacità di dare un nome alle emozioni, ma anche inibisce la costruzione di un pensiero che permetta di rappresentarsi mentalmente e di gestirsi emotivamente i fatti della propria vita di relazione invece di tradurli in azioni, come il cibarsi.

La cura di queste condizioni richiede pertanto che si stabilisca una relazione terapeutica che possa offrire, alla persona che ne ha necessità, la possibilità di migliorare le proprie capacità d’autoregolazione affettiva e pertanto di sviluppare una maggiore autonomia personale. A questo fine sono stati realizzati i percorsi di psicoterapia individuale e di gruppo. A questi si accede tramite un percorso psicodiagnostico teso ad indentificare i pazienti che abbisognano dell’uno, dell’altro o di entrambi gli interventi. 
Generalmente il percorso psicodiagnostico si compone di quattro sedute: durante le prime due, oltre al colloquio clinico anamnestico, si somministrano alcuni test, suddivisi in due batterie. 
Alla prima seduta lascio — uso il pronome personale perché effettuo io, assieme ad uno psicologo in tirocinio post-lauream, tutti i percorsi psicodiagnostici – da compilare a casa i questionari che valutano il comportamento alimentare e il vissuto relativo alla propria immagine corporea (Eating Disorder Inventory — 2° versione — e il Questionnaire on Eating and Weight Patterns – Revised). La scelta di test con maggiori domande centrate sui sintomi alimentari e i vissuti rispetto alla propria immagine corporea, è legata al fatto che durante il primo colloquio tendo ad esplorare maggiormente l’area d’espressione della sintomatologia alimentare. Nella stessa seduta lascio da compilare a casa anche il Toronto Alexithymia Scale, un test che serve a misurare il livello d’alessitimia. Al termine di questa prima seduta, al fine di favorire l’adesione al percorso, consegno alla persona un foglio informativo (di seguito riprodotto) sul modo in cui il percorso è articolato, il tipo di richiesta medica che devono portare per accedervi, e i possibili esiti del percorso.

Percorso psicodiagnostico

 
Consiste in quattro colloqui clinici a frequenza, generalmente, settimanale, durante i quali si effettuano:

 

 

  • Un’indagine anamnestica (primi due colloqui);

  • Una valutazione testistica (primi due colloqui);

  • Un’analisi della domanda con particolare attenzione alla valutazione della motivazione ad un eventuale percorso di cura (terzo colloquio);

  • Un colloquio di restituzione nel quale si riferisce al paziente l’esito del percorso, si risponde alle sue eventuali domande e, se indicato un percorso di cura, se ne delinea le caratteristiche (quarto colloquio, effettuato dopo la presentazione del caso al nostro gruppo di lavoro).

A questo percorso può pertanto seguire:

 

 

  • La dimissione del paziente;

  • La richiesta di un prolungamento di questo percorso perché mancano ancora degli elementi di valutazione;

  • L’indicazione del percorso psicoterapeutico individuale e/o di gruppo;

  • L’indicazione di un altro percorso.

Al percorso si accede tramite un’impegnativa del proprio medico di Medicina Generale. La richiesta deve indicare tre colloqui di approfondimento psicodiagnostico per sospetto Disturbo del Comportamento Alimentare.

Alla seconda seduta psicodiagnostica lascio da compilare a casa il Minnesota Multiphasic Personality Inventory — 2° versione: questo questionario serve invece ad esplorare, oltre alla sintomatologia, anche il carattere della persona; Toronto Alexithymia Scale e Minnesota Multiphasic Personality Inventory possono inoltre essere utili ai fini della pianificazione di un eventuale, successivo, trattamento di psicoterapia. La scelta di questo questionario è congrua con il fatto che durante il secondo colloquio esploro maggiormente la vita di relazione attuale e precedente. Generalmente si rilevano perlomeno la presenza di stili di personalità patologici, cioè di tratti stabili di personalità che c’indirizzano a considerare queste persone come portatrici di una problematica insorta precocemente – a volte anche in età infantile – e trattata operativamente in modo concreto e spesso autoreferenziale – senza, in altri termini, il necessario supporto medico-specialistico e con diete fai-da-te. 
La terza seduta è dedicata alla valutazione dell’eventuale aderenza terapeutica rispetto ad una possibile proposta di trattamento: in questa seduta esamino le attese della persona rispetto ai percorsi psicoterapeutici, al "prodotto" che offriamo. Difficilmente, per fare un esempio, il paziente che si attende di ricevere dallo psicoterapeuta consigli e/o prescrizioni sarà idoneo a "calzare" uno dei nostri percorsi di cura. Appare evidente come, dietro a richieste di questo tipo, si nascondano bisogni di supporto affettivo anche molto intensi, ma queste richieste sembrano provenire da pazienti che vorrebbero effettuare il trattamento evitando di impegnarsi in una relazione terapeutica che è uno snodo fondamentale per la riuscita di qualsiasi percorso di cura psicologica. A questo proposito ricordo una delle conclusioni alle quali è giunta la 29° Divisione (Psicoterapia) dell’Associazione Psicologica Americana nell’approfondito studio effettuato sulle psicoterapie: "La relazione terapeutica porta un sostanziale contributo all’esito della psicoterapia indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzata". 
Il quarto colloquio è una seduta di "restituzione". In questa seduta riferisco al paziente l’esito della presentazione e discussione del suo caso al nostro gruppo; se, secondo noi, necessita di un trattamento, da chi sarà effettuato e com’è articolato; fornisco loro inoltre risposta alle eventuali domande che desiderano pormi in merito ai risultati dei colloqui finora effettuati e/o al percorso indicato. Dopo questa seduta, o già al termine della terza per anticipare la seduta di restituzione, consegno al paziente i fogli che illustrano i due percorsi di cura (di seguito riprodotti), al fine di informarli e di rafforzare così l’alleanza terapeutica, la collaborazione ed il consenso sugli obiettivi terapeutici.

Percorso di psicoterapia individuale

 
Il percorso è dedicato a persone con un disturbo del comportamento alimentare, e si pone come obiettivo non tanto la modificazione di tale comportamento, che ci si augura che avvenga, quanto di sviluppare una maggiore comprensione dei motivi per i quali una persona manifesta tale disturbo.
Per questo motivo non ci sono degli argomenti prefissati dallo psicologo dei quali la persona debba parlare durante le sedute, ma è compito di questa decidere gli argomenti dei quali desidera parlare. 
Lo psicologo, in altre parole, rispetto a questo compito si pone in una posizione d’ascolto, ma interverrà attivamente durante la seduta.
Il percorso si articola in cicli di otto sedute di psicoterapia che, generalmente, hanno una frequenza settimanale. I cicli di sedute sono ripetibili, se ritenuto necessario e se la persona è motivata a proseguire, fino alla conclusione del percorso che è decisa di comune accordo.
Al percorso si accede tramite impegnativa del proprio medico di Medicina Generale. La richiesta deve indicare un ciclo di otto sedute di psicoterapia individuale per Disturbo del Comportamento Alimentare. 
L’orario ed il giorno delle sedute è, generalmente, fissato in anticipo e tende a rimanere lo stesso, salvo impegni di una delle due parti e quindi, se possibile, relativo temporaneo spostamento d’ora e giorno. Le sedute perse, per vari motivi, possono essere recuperate. 
Le sedute non prevedono, generalmente, interruzioni, tranne che per periodi di pausa per ferie di uno o dell’altro. 
Il percorso di cura si svolge presso l’Unità Operativa di Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Ospedale Bellaria.

Percorso di psicoterapia di gruppo

 

Il percorso è dedicato a persone con un disturbo del comportamento alimentare, e si pone come obiettivo non tanto la modificazione di tale comportamento, che ci si augura che avvenga, quanto di sviluppare una maggiore comprensione dei motivi per i quali una persona manifesta tale disturbo.
Per questo motivo non ci sono degli argomenti prefissati dal conduttore dei quali il gruppo debba parlare durante le sedute, ma è compito dei membri del gruppo decidere gli argomenti dei quali desidera parlare. 
Il conduttore, in altre parole, rispetto ai contenuti delle sedute si pone in una posizione d’ascolto, ma interverrà attivamente durante le sedute.
Il gruppo si incontrerà settimanalmente per un ciclo di otto sedute, al termine delle quali le persone possono decidere se intendono proseguire con un altro ciclo di otto sedute. La decisione è personale. La conclusione del percorso di ogni singolo componente è decisa durante l’ultima seduta di ogni ciclo. Le persone che escono dal percorso perché l’hanno concluso, saranno compensate dagli inserimenti di nuovi membri motivati ad iniziare il percorso. Il gruppo sarà composto da un minimo di sei ad un massimo di dieci persone. 
Le sedute settimanali non prevedono, generalmente, interruzioni, tranne per periodi di pausa per ferie consistenti in un mese e mezzo circa a luglio-agosto, di due settimane a Natale e una a Pasqua.
Al percorso si accede con impegnativa del proprio medico di Medicina Generale. La richiesta deve indicare un ciclo di otto sedute di psicoterapia di gruppo per Disturbo del Comportamento Alimentare. 
Le sedute perse, per vari motivi, non possono essere recuperate. 
Le persone sono libere d’essere o non essere presenti alle sedute. E’ gradita la comunicazione delle eventuali assenze, se conosciute in anticipo.

I partecipanti s’impegnano a rispettare alcune regole:

  • Riservatezza: non riferire ad alcuno le cose dette in gruppo;
  • Sospensione del giudizio sul comportamento riferito da altri, compreso il fatto che un componente non si esprima verbalmente durante una o tutte le sedute;
  • Rispetto degli orari d’entrata e d’uscita.

Il percorso di cura si svolge presso l’Unità Operativa di Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Ospedale Bellaria.

Se le persone accettano l’indicazione terapeutica; si passa a definire con loro, a cura dello o degli psicologi che li eseguiranno, il modo di svolgimento dei percorsi psicoterapeutici, come la data di inizio, il giorno e l’orario.
Fin dalla fase di progettazione dell’intervento – che il nostro gruppo ha condiviso, in riunioni di lavoro dedicate, con l’equipe di Dietologia e Nutrizione Clinica diretta dal dott. Lesi – abbiamo dovuto affrontare una serie di "criticità" per adattare una prestazione, che generalmente è effettuata con un contratto tra privati, a questo peculiare contesto. L’ospedale, generalmente, è il luogo dedicato alla cura delle persone con un malattia in fase acuta, mentre i nostri percorsi si sviluppano nel tempo. Il carattere pubblico del contratto terapeutico implica che le regole contrattuali siano uguali per tutti, siano chiare, comunicate al paziente per ottenere il suo "consenso informato" e pertanto idonee a promuovere la collaborazione al trattamento. I due contraenti non sono "soli" nello stabilire le regole del contratto, perché ciò che decidono di fare è soggetto non solo all’approvazione del Direttore d’Unità Operativa – nel nostro caso specifico il Prof.G. Pagliaro — ma devono anche rendere conto delle proprie scelte terapeutiche alla Direzione Ospedaliera, che le finanzia – così come la psicoterapia, come prestazione offerta dal Servizio Sanitario Nazionale, è soggetta ad essere considerata, o meno, un’attività inclusa nei Livelli Essenziali d’Assistenza. Infine si pone il problema di come trasformare una domanda dietologica in una motivazione ad un percorso di psicoterapia individuale e di gruppo. La creazione dei percorsi è stata dunque la "soluzione" che, per il momento, abbiamo trovato a tutte queste diverse criticità.

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