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Diventare uno psicoanalista comunicativo

10 Mar 18

Di Robert-Langs

*Traduzione di Paolo Migone

Nel 1968 mi sono diplomato presso un Istituto psicoanalitico classico degli Stati Uniti e ho cominciato la mia pratica clinica come psicoanalista classico. Nel corso della mia formazione avevo imparato a pensare al transfert come a una proiezione di problematiche intrapsichiche del paziente e non come a parte di un fenomeno appartenente all'interazione tra me e l'analizzando. Secondo questa concezione si facevano inferenze' sul contenuto manifesto delle associazioni del paziente. L'elemento chiave inconscio e l'anello mancante nel materiale del paziente si diceva che avesse a che fare con fattori genetici dei quali il paziente non era consapevole, e che erano responsabili delle sue reazioni distorte nei confronti dell'analista. Queste idee per me erano abbastanza rassicuranti, anche se non ero consapevole di questa loro particolare funzione. Bastava che io fornissi un setting psicoanalitico e ascoltassi e potevo, legittimamente, ritenere il paziente responsabile delle regressioni e delle distorsioni che si manifestavano davanti ai miei occhi. Mi era stato detto che io potevo contribuire al processo analitico mediante interventi giusti o sbagliati, ma io ero impossibilitato a capire – anche se inavvertitamente – la complessità dei miei contributi concreti all'esperienza terapeutica del paziente e alle vicissitudini di quella che io chiamo la sua follia. Il paziente era sempre responsabile di quello che accadeva nella terapia, io ero responsabile soltanto in alcune occasioni.

Nel 1970 incominciai a scrivere un libro sulla tecnica della psicoterapia psicoanalitica. Data la mia impostazione metodologica, presi anzitutto in esame il processo dell'ascolto psicoanalitico e cominciai a studiare il modo col quale noi comprendiamo il materiale del paziente. Mi resi presto conto che le associazioni del paziente non erano pure e semplici proiezioni del suo stato intrapsichico, ma erano risposte a stimoli precisi, e quindi avevano una natura sia adattiva che interazionale. In seguito giunsi a riconoscere che gli stimoli maggiormente responsabili delle comunicazioni consce e inconsce del paziente erano i miei interventi, gli interventi dello psicoanalista, che sono carichi di implicazioni inconsce delle quali in precedenza non ero affatto consapevole. Invece di leggere dietro il contenuto manifesto offerto del paziente e fare inferenze partendo dalla superficie delle sue associazioni, io incominciai a decodificare i suoi messaggi.

Più tardi sviluppai uno specifico processo di decodificazione legato alle implicazioni dei miei interventi e per come essi venivano selettivamente percepiti dal paziente in modo corretto e veritiero, guidato dalla particolare natura della sua follia. Pertanto non potevo più pensare in termini di transfert o di distorsioni, ma dovetti riconoscere che le comunicazioni di un paziente sono, innanzitutto e più di ogni altra cosa, costituite da corrette percezioni inconscie delle implicazioni degli interventi dell'analista. Quando questi sono stati selettivamente registrati, il paziente risponde ad essi in svariati modi con distorsioni, con influenze genetiche, con aggressività o tentativi di ferire il terapeuta, ma in modo particolare e molto spesso con tentativi di curare il terapeuta, ma in modo particolare e molto spesso con tentativi di curare il terapeuta e di aiutarlo a ritornare a una tecnica corretta. Tutto questo comunque avviene inconsciamente e viene comunicato tramite messaggi in codice; in altre parole con immagini simboliche e mascherate, o cariche di significati latenti. Per arrivare a comprendere questi significati, bisogna eliminare le due principali difese: spostamento e simbolizzazione. Ad esempio, comunicazioni riguardanti il paziente stesso o altre persone vengono viste come immagini spostate e simboliche di percezioni corrette riguardanti il terapeuta, e come reazioni a queste percezioni. Grazie a queste nuove intuizioni e a questo modo di comprendere il processo analitico, e soprattutto tramite l'uso del processo di decodificazione, la mia tecnica con i pazienti si modificò radicalmente. Di fatto, la mia comprensione dei significati del loro materiale si allontanò presto dalla mia impostazione psicoanalitica classica. Ero io quello che era sempre responsabile di ciò che accadeva, ora il paziente era responsabile soltanto in alcune occasioni, e soprattutto per le sue risposte selettive alle implicazioni contenute nei miei interventi.

Oggi, quando ascolto un paziente, io mi pongo sempre una domanda fondamentale: quale intervento ho fatto e con quali implicazioni, tale che questo materiale è una percezione corretta – anche se mascherata – del mio intervento, così come selettivamente percepito dal paziente nei termini della sua follia? Una volta che queste percezioni sono state identificate, cerco di rintracciare le loro implicazioni genetiche, il modo con cui esse stanno alla base della follia del paziente e le sue radici inconsce. Ogni intervento che faccio incomincia con la ammissione di una percezione corretta alla luce della interazione terapeutica corrente, e poi da lì procede verso una varietà di altri problemi e dimensioni. Ogni volta che faccio una interpretazione o un intervento volto alla rettificazione delle regole di base, io incomincio in questo modo: "Io ho fatto questo o quello; lei inconsciamente lo ha percepito come avente selettivamente questo o quel significato; e, di conseguenza, lei ha risposto con questo o quel ricordo, emozione, o tentativo personale di modificare o migliorare le cose; tutto questo serve per spiegare il singolo aspetto di follia che è stato espresso in questa seduta attraverso questa resistenza o quel sintomo…"

Divenne presto molto chiaro che gli interventi più importanti fatti da un analista riguardavano le regole di base o la struttura della situazione terapeutica, cioè il setting. Dato che le comunicazioni inconsce del paziente ruotano intorno alle implicazioni di questi interventi, molti dei miei sforzi riguardano la definizione dei significati inconsci di queste transazioni che fanno parte della base inconscia della follia del paziente. Questo processo di decodificazione e questo approccio interazionale alla comprensione del materiale del paziente hanno molto arricchito la nostra comprensione della base inconscia della follia.

Come psicoanalista classico, tutte le mie formulazioni riguardavano i punti di vista dinamico e genetico. Come psicoanalista comunicativo, io so che vi sono sei altre dimensioni della interazione terapeutica: comunicazione e significato; regole di base o setting (frame); modalità di relazione; modalità di guarigione; identità e narcisismo; salute mentale e follia. A seconda delle implicazioni degli interventi di un terapeuta e del particolare tipo di follia del paziente, ogni analizzando lavorerà su specifici problemi i queste aree della interazione terapeutica corrente.

Di particolare importanza sono i problemi comunicativi, il setting, i punti di vista dinamico e genetico (le pulsioni hanno di fatto un ruolo rilevante per la base inconscia della follia), e le tematiche della salute mentale e della follia.

Questo approccio ha anche portato a una comprensione più chiara e approfondita della base inconscia della follia, nei termini delle sue cause presenti e dei suoi fattori genetici. In particolare, è stato enfatizzato il ruolo del nucleo psicotico che esiste in ogni individuo e delle speciali tecniche richieste per le comunicazioni psicotiche in pazienti non psicotici. La situazione chiave di pericolo che origina la follia viene definita angoscia di morte, ed è stato possibile identificare una sindrome specifica che io ora chiamo sovraesposizione alla angoscia di morte.

Questo quadro si presenta in individui per i quali morti, malattie e gravi separazioni hanno caratterizzato i primi sei anni di vita, o anche ogni periodo successivo se queste situazioni si sono presentate in forma drammatica – ad esempio come nel caso del suicidio di una persona amata, di un improvviso incidente, ecc… I pazienti che presentano questa sindrome mostrano in modo specifico una paura dei significati inconsci e richiedono tecniche speciali per essere mantenuti all'interno di una analisi significativi.

Parallelamente a queste nuove intuizioni si è scoperto che vi sono sostanzialmente, due tipi di psicoanalisi: la psicoanalisi dal setting sicuro e la psicoanalisi dal setting deviante. Nella prima, le regole di base ideali sono mantenute, le regole di base che vengono definite in modo indiretto dalla validazione delle risposte (a livello interpersonale e cognitivo) dei pazienti quando queste regole di base vengono proposte. Queste regole di base sono espressione dei bisogni inconsci dei pazienti stessi, così come vengono comunicati attraverso derivati in codice. Esse includono una tariffa prestabilita, una prestabilita durata delle sedute, una sede precisa, e un orario fisso per le sedute. Esse inoltre prevedono che il paziente usi il lettino, che il terapeuta si collochi dietro al lettino e che quindi sia fuori dalla sua vista, che il paziente segua la regola fondamentale delle associazioni libere, e che l'analista mantenga la neutralità e l'attenzione liberamente fluttuante. Gli interventi neutrali vengono definiti come quelli che ottengono una validazione in codice e da parte dei derivati; ne è risultato che gli interventi neutrali includono solo il silenzio appropriato, il mantenimento del setting sicuro, le interpretazioni e ricostruzioni formulate in modo appropriato – vale a dire quelle interpretazioni che incominciano con un commento sulle implicazioni degli interventi del terapeuta e delle selettive e accurate percezioni in codice del paziente.

Il setting sicuro include anche privacy totale, rispetto completo del segreto professionale e relativa anonimità dell'analista. Se una psicoanalisi contiene una deviazione da una qualunque di queste regole di base, inclusa la totale responsabilità del paziente per il pagamento e per tutte le sedute, allora essa viene definita una psicoanalisi dal setting deviante.

In breve, il setting sicuro dà al paziente una forte sensazione di holding e di contenimento, e favorisce un salutare funzionamento dell'Io. Esso dà al paziente l'immagine di un terapeuta sano, e favorisce lo sviluppo di una salutare simbiosi terapeutica. Però, a causa delle sue qualità restrittive, il setting sicuro mobilita intense angosce claustrofobiche, paranoide e di separazione. In particolare, è il setting sicuro quello che sembra essere una reminiscenza del fatto che la vita stessa ha dei limiti precisi per i quali l'unica uscita è la morte. Di conseguenza l'angoscia di morte ha un grande significato nelle terapie dal setting sicuro, poiché quando questi problemi vengono analizzati appropriatamente si hanno potenti effetti terapeutici – e contemporaneamente si riesce a comprendere la sensazione di pericolo provata da entrambi, paziente e terapeuta, in una situazione di setting sicuro. Di fatto i significati del setting sicuro fanno molta più paura deisignificati del setting deviante, sebbene la loro elaborazione analitica porti al miglior adattamento possibile per il paziente.

Nella psicoanalisi dal setting sicuro gli interventi chiave riguardano la capacità del terapeuta di mantenere stabile il setting. Al contrario, nella psicoanalisi dal setting deviante gli interventi chiave sono le deviazioni del terapeuta, che forniscono al paziente modalità patologiche di gratificazione, di relazione e di difesa. In particolare, il setting deviante tende ad offrire al paziente difese controfobiche e maniacali-confusionali, che precludono una analisi approfondita delle sottostanti angosce corporee, depressive e di morte. Il beneficio immediato può essere notevole, ma le conseguenze negative saranno costituite da modalità di adattamento patologiche. Comunque in una terapia ben fatta, anche se caratterizzata da una situazione di setting deviante, l'analista può analizzare nel paziente le percezioni inconscie delle deviazioni delle quali anch'egli è responsabile, rendendo quindi più significativa questa modalità terapeutica. Per giunta, vi sono momenti di setting sicuro in ogni psicoanalisi dal setting deviante, dando così momentaneamente la possibilità di analizzare le angosce e i significati del setting sicuro.

Quanto detto finora non è altro che un accenno ai modi in cui la mia tecnica è cambiata in questi ultimi quindici anni. Ben più importante di queste modificazioni della tecnica è la ricchezza della comprensione che io ho ottenuto mediante la decodificazione dei derivati inconsci e lo sviluppo dell''approccio comunicativo' in psicoanalisi. Al momento, i miei interventi tendono ad unavalidazione attraverso derivati, e il mio mantenere il setting sicuro tende a rafforzare le funzioni dell'Io del paziente.

Anch'io mi sento più sicuro alla presenza di un solido setting analitico, e particolarmente soddisfatto nel formulare interventi validati che portano a un miglioramento sintomatologico e introspettivo. Eppure, l'approccio comunicativo ha individuato aree di paura inconscia che sono presenti sia nel paziente che nell'analista. Come nella vita stessa, il progresso si accompagna a prese di coscienza di nuovi limiti. La sfida, ora, per lo psicoanalista comunicativo, è capire la natura delle angosce di morte e del setting sicuro, e i modi coi quali i pazienti soggetti a queste angosce possono essere mantenuti in una significativa relazione analitica allo scopo di ottenere una effettiva guarigione. Dà comunque una particolare soddisfazione vedere come con le ricche intuizioni dell'approccio comunicativo sia stato possibile identificare nuove problematiche psicoanalitiche. Così spero di scrivere di nuovo su queste pagine tra dieci anni per descrivere le ulteriori modifiche della mia tecnica, le quali dipenderanno dalla soluzione di quei problemi che al momento rimangono insoluti.

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