di Piero Coppo
Ringrazio innanzitutto la redazione di Pol-it per avermi proposto di co-gestire la sezione "etnopsichiatria" insieme a Roberto Beneduce. Ho accettato volentieri per due principali ragioni. La prima, è che ritengo che l’etnopsichiatria sia in un passaggio cruciale della sua storia, tra evoluzione e involuzione. Mi piace pensare che quel poco o tanto che posso portare qui serva a dare man forte a Roberto Beneduce e agli altri che lavorano per una etnopsichiatria "gagliarda".
La seconda ragione è che l’etnopsichiatria nasce all’insegna della molteplicità e cresce sugli incontri, confronti, conflitti, negoziazioni tra diversità che pretendono di restare tali.
Mi sembra quindi coerente con la natura stessa della disciplina contribuire a rendere molteplici gli approcci qui rappresentati, nel senso che Roberto Beneduce e io rappresentiamo storie diverse, gruppi (reali e virtuali) distinti, anche se tutti ci riferiamo all’area etnopsichiatrica.
L’etnopsichiatria addestra proprio a fare della molteplicità, delle diversità una risorsa; e mi auguro di poter contribuire a mostrare al pubblico la grande varietà delle esperienze e degli approcci etnopsichiatrici. Il fatto che mi trovi, per storia o formazione, più vicino ad alcuni, non significa che consideri necessariamente meno interessanti gli altri.
Questa premessa mi serve anche come introduzione a un breve commento all’interessante testo di Federico Leoni qui pubblicato (Psyché/ethnos. Per una critica filosofica dell’etnopsichiatria). Condivido pienamente lo spirito che anima l’articolo, e cerco solo di ampliarne alcuni punti.
L’Etnopsichiatria (d’ora in poi, EP) nasce da un insieme di situazioni molto diverse tra loro, ma tutte caratterizzate da incontri tali da costringere alcuni rappresentanti della cultura scientifica (ricercatori, psichiatri, psicanalisti, ecc.) a produrre un nuovo sforzo concettuale e operativo per ri-posizionarsi. E’ normale dunque che porti dentro di sé tracce delle diverse qualità del rapporto con l’altro di cui i rappresentanti delle diverse discipline implicate sono stati, nelle varie epoche, capaci. Non mi stupisce, e non trovo scandaloso, che l’EP abbia proiettato e proietti sull’altro le categorie dell’uno, attraverso interpretazioni o sovra-interpretazioni. Fa parte del lavoro quotidiano di chi opera in campo etnopsichiatrico sottoporre a critica (grazie soprattutto a interventi che vengono da altre discipline, come questo di F. Leoni) i propri approcci, e cercare di depurarli sempre più da impliciti culturali, da variabili incontrollate. Lo stesso lavoro sarebbe prezioso per antropologi e etnologi, psicologi, psichiatri e psicanalisti. La questione riguarda infatti non soltanto l’incontro con l’altro radicale (sia esso il tutt’altro, il numinoso, o l’umano appartenente a un’altra cultura) ma anche l’incontro col vicino della porta accanto, o col rappresentante dell’altro genere.
Il passaggio critico dell’EP attuale ha a che fare proprio con la centralità o meno di questo lavoro. Si prefigurano due diverse tendenze.
La prima si propone di costruire una psichiatria culturalmente sensibile, e cioè capace di dialogare con l’altro culturale (psichiatria inter- o trans-culturale). Molte risorse sono investite nel progetto di una psichiatria globale, o anche glocale; dallaTask Force che ha introdotto la variabile culturale nel DSM, al gruppo di Harvard (USA) da cui provengono tanti studi e lavori interessanti (per es. Desjarlais et al. 1998 [1995] Salute mentale nel mondo, Il Mulino, Bologna); alle sezioni " etno-" delle società nazionali e internazionali di psichiatria, ecc. Si tratta certo di un lavoro utile: che dovrebbe portare all’istituzione di una psichiatria cosmopolita, dove, attorno a un nucleo concettuale e operativo stabile, si organizzino discorsi, pratiche, approcci che tengano conto delle specificità culturali. Un aspetto di questo lavoro è il tentativo di creare servizi di salute mentale "etnici" (esperienze già avanzate in Nordamerica e Gran Bretagna, per esempio; da cui si cominciano a trarre i primi insegnamenti). Un altro è il tentativo (possibile in molti casi grazie alla sponsorizzazione di case farmaceutiche) di uniformare le diagnosi, e quindi i protocolli terapeutici e i criteri prescrittivi.
Si tratta, però, sempre di una psichiatria.
La seconda tendenza esce dall’ambito della psichiatria in senso stretto e tende a dare all’EP dignità di disciplina autonoma essenzialmente multi-disciplinare. Per questa via, è necessaria la disponibilità delle discipline umane applicate e di quelle della psiche in particolare (e dei loro rappresentanti) di farsi mettere in crisi nell’incontro con altri saper-fare, altre cosmologie e altre antropologie. Questa seconda tendenza è, in questa fase, meno immediatamente operativa e più sperimentale e scientifica; cerca cioè innanzitutto un guadagno di conoscenza anche attraverso sperimentazioni e messe alla prova, e ha da difendere solo un metodo, un approccio. Il suo obiettivo è costruire un saper-fare inedito in un contesto politico necessariamente mutato, costituito da gruppi umani diversi, che intendono restare tali, che dialogano e negoziano tra di loro; e che dovrebbero disporre delle risorse necessarie per sussistere come tali. Questa sfida epistemologica che gli altri, e i loro saper-fare, portano dentro le scienze, dovrebbe a mio parere essere raccolta anche da quella parte dell’EP che è occupata a gestire i problemi quotidiani posti, per esempio, dall’alterità culturale agli sportelli della salute mentale. Senza questa componente, l’EP si riduce infatti a una sub-disciplina, a una delle tante sottospecialità psichiatriche.
Ben venga dunque la critica di F. Leoni all’ esportazione clandestina del concetto attuale di psiche, che contribuisce a assimilare l’altro in un confuso universalismo psicologico.
E’ interessante che la critica del filosofo prenda l’avvio dal discorso dell’EP sulla depressione. Si tratta di un discorso tutt’altro che univoco, come un rapido esame della letteratura permette di appurare. Il tema, che ho già trattato altrove e sul quale sto facendo il punto per esteso in un altro scritto, è complesso e tormentato. Per mia personale esperienza, pochi altri temi suscitano tanta passione e animosità tra psichiatri, psicologi, psicanalisti ed etnopsichiatri; come se la depressione fosse un punto cruciale della concezione dominante di come questi umani vivono in questo mondo. Credo che il lettore intuisca l’importanza che il grande tema del "dolore morale" ha e ha avuto per la religione, la filosofia, le scienze umane, la medicina.
Nei primi anni ’80 presentai a Montréal una relazione in cui mostravo come, partendo dalla lettera delle categorie nosografiche della psichiatria e delle sue procedure diagnostiche, non avevo trovato sindromi depressive in una comunità tradizionale africana. Fui colpito dalla violenza e dagli argomenti con cui mi attaccarono gli psichiatri, ma soprattutto gli psicanalisti presenti.
Per me, quel mio lavoro dimostrava innanzitutto l’inefficacia dell’impianto categoriale psichiatrico, o quanto meno la sua inapplicabilità universale; e consigliava ricerche ulteriori per verificare il fenomeno descritto con altri approcci e eventualmente per rendere le categorie psichiatriche applicabili in quel contesto (da allora le mie posizioni si sono però notevolmente radicalizzate). Gli attacchi, che non escludevano i colpi bassi del sarcasmo e dell’ironia, volevano invece colpire l’ipotesi stessa che qualche umano sulla terra potesse risultare non esposto alla depressione, o magari addirittura protetto da qualche misterioso fattore, nascosto nelle pieghe dei geni o in particolari caratteristiche culturali. In quell’occasione, solo un antropologo presente prese la parola per dire che se era proprio così, se davvero presso quella popolazione la depressione era sconosciuta, era davvero contento per loro e per quello che ciò avrebbe potuto significare per gli umani in generale. Lo scontro, da cui uscii malconcio, mi convinse però che lì c’era qualcosa di interessante che aveva a che fare con una struttura portante delle discipline della psiche, quasi con un elemento essenziale della loro "struttura caratteriale".
In seguito, quando insieme al gruppo di lavoro che allora coordinavo cercammo di trovare le ragioni di quel dato, ricordo che il solo suggerimento interessante ci venne da un primatologo. Mi fece notare che era inutile cercare la ragione del fenomeno in cose troppo complicate (allora cercavamo i fattori di rischio e protezione nell’analisi comparativa delle modalità di educazione della prole). I primatologi avevano un solo modo per indurre un quadro depressivo in uno scimpanzé: isolarlo dal gruppo. Il fattore di protezione che cercavamo doveva secondo lui risiedere in quello che oggi si chiama "supporto sociale".
Mentre però riflettevamo in proposito, migliaia di lavori "scientifici" avevano già dimostrato che la depressione era una malattiaubiquitaria, magari mascherata (da sintomi somatici; da bouffée deliranti, ecc. ecc.); e, a proclamarlo, come fa giustamente rilevare F. Leoni, erano in prima linea molti psichiatri africani, come a dimostrare che anche gli africani hanno una psiche. Il pensiero va naturalmente a Franz Fanon, e alle maschere bianche indossate da chi ha la pelle nera, come risultato del processo secolare di dominio; o, per chi ama il genere grottesco, a una Pantera Nera che, per dimostrare di avere un’anima come i bianchi, deve deprimersi.
La questione però è proprio che forse nessuno, né bianco né nero, ha una psiche. Forse non si possiede una psiche, come si possiede un fox-terrier o una BMW; e forse la psiche non sta nelle connessioni inter-neuronali del nostro proprio sistema nervoso. Forse, pensare che sia il cervello della persona a generare psiche è altrettanto poco intelligente che credere che sia l’apparecchio televisivo a generare le immagini che appaiono sullo schermo. Si, anche; da un certo punto di vista; ma la questione è ben più complessa. Le stesse immagini, per esempio, invisibili e non decodificate, stanno tutto intorno a noi: questo è un altro punto di vista.
Condivido l’insofferenza per gli affanni "egualitari" (che però non accennano alle disparità, e tanto meno si muovono per eliminarle) e per qualsiasi operazione politicamente corretta che, in nome appunto di una morale, occulta le relazioni di potere, assimila l’altro e rende impossibile perfino pensare diversità reali e altri umani destini, che non siano quelli che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, e che ci vengono proposti come unici e definitivi.
Qui, in questo mondo dove la depressione è considerata un’epidemia e uno dei disturbi che hanno il maggior costo sociale; qui, dove è nata, con la cultura giudeo-cristiana, la più articolata ed elaborata concezione del dolore morale e delle pratiche relative (pratiche insieme di induzione e salvazione), e dove i produttori di antidepressivi pagano la formazione e l’informazione dei medici, ci si può ancora, attraverso approcci comparativi, porre seriamente il problema di cosa sia la depressione, di quali siano gli eventuali fattori di protezione e rischio, e se si tratti o no di una sindrome culturalmente determinata?
E dove troverebbe, chi eventualmente fosse intenzionato a farlo, i crediti di ricerca per sviluppare l’argomento?
Tutto ciò mi pare illustri una banalità: la psichiatria è un apparato specifico fatto di contingenti saperi e pratiche, commisto con elementi che non appartengono solo all’ambito della scienza. Mi pare dunque che non possa esserci dubbio sul fatto, accennato da F. Leoni, che la nostra psichiatria è un saper-fare etnico, e quindi culturalmente determinato. Che la "psichiatria occidentale sia una psichiatria etnica" mi sembra anzi una consapevolezza preliminare necessaria per entrare davvero nella prospettiva etnopsichiatrica; ma mi pare una convinzione poco diffusa (anche perché richiede per acquisirla una specifica formazione); almeno a giudicare dalla tracotanza con cui, in genere, vengono esibiti i pregiudizi dello scientismo dominante.
Spero che queste poche considerazioni bastino a sottolineare gli stimoli che contributi come quello di F. Leoni portano all’area etnopsichiatrica che, ricordo, nasce proprio dall’interdisciplinarietà e si sviluppa come saper-fare composito, aperto al confronto con saper-fare altri: disciplina quindi essenzialmente molteplice, interdisciplinare e multiculturale.
Ma di questo avremo modo di parlare…
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