Percorso: Home 9 Clinica 9 Etno-Psichiatria 9 Quando lo straniero sei tu. Convegno di Etnopsichiatria e Clinica transculturale 19-20-21/11/2020

Quando lo straniero sei tu. Convegno di Etnopsichiatria e Clinica transculturale 19-20-21/11/2020

26 Nov 20

Di natali_maione
 
Nella terza settimana di novembre si è svolto a distanza il convegno incentrato sul tema sella etnopsichiatria e della clinica transculturale voluto ed organizzato da Salvatore Inglese, Lelia Pisani e Vincenzo Spigonardo.

La possenza della formula ‘etnopsichiatria e clinica transculturale’ non deve intimidire, infatti il convegno è risultato senz’altro ricco e alto nei contenuti ma anche accessibile a chi, come chi sta scrivendo ora, fosse stato totalmente digiuno dell’argomento. Questo è stato possibile non solo grazie alla caratura dei relatori, come Laurence Kirmayer e Jaswant Guzder, ma anche grazie alla strategica organizzazione argomentativa delle singole giornate.

Infatti, nella prima giornata è stato dato l’ABC su cosa sia etnopsichiatria e cosa non lo sia, cosa distingua l’etnopsichiatria dalla la clinica transculturale e come muoversi all’atto pratico tra questi due approcci. L’etnopsichiatria è il passo zero verso l’altro, è il trovare il modo giusto di guardare l’altro e da questo altro farsi guardare come lo straniero; è qui che sta il punto, il filo rosso che unisce questi tre giorni: è necessario individuare e abitare una distanza irriducibile, non esiste la simbiosi e laddove si cerchi di crearla si fa e ci si fa solo del male, è la cosiddetta babelizzazione delle lingue.

Ma per non cadere in questo tranello, spiega l’antropologa clinica Miriam Gualtieri, ci sono diversi accorgimenti che ci possono aiutare provenienti dall’antropologia:

  1. Il singolo non si rende conto di non poter guardare dal di fuori la propria cultura se non per contrasto, con l’incontro di una cultura diversa dalla sua, esso sta alla sua cultura come il pesce all’acqua del mare: non può vivere senza, vi si muove nel mezzo, e solo ‘passando di oceano in oceano’ si accorge di questa sua acqua e, che ne esistono di diverse. In termini tecnici si parla di etnocentrismo culturale, nessuno ne è immune.
  2. Anche la biomedicina è il prodotto di una, lunga, tradizione culturale che si impone etnocentristicamente, già con l’uso del farmaco. Essa ha per fine rendere gli esseri umani più che normali, dunque ha una connotazione intrinsecamente manipolatoria, per questo motivo nessun apparato clinico ed etnoclinico è mai indolore e, mai immune dallo scontro culturale.
  3. Looping effect*: se ad una persona viene assegnato una classificazione, una diagnosi per esempio, essa modificherà il suo comportamento e tuttavia nel fare questo modifica a sua volta la categoria precedentemente assegnatagli.
 
Alla luce di queste considerazioni si vede quanto sia facile cadere in fraintendimenti, se non in conflitto, nel rapporto medico-paziente, e che non sia necessario venire da opposte latitudini per essere vittime del proprio etnocentrismo, perché è vero che un individuo è co-fabbricato dal gruppo sociale di origine, che in questa opera di fabbricazione si autotutela, ma ciascunorielabora personalmente questa fabbricazione, per questo le culture non sono graniticamente immutabili, bensì si sfarinano in sotto-culture e mutano nel tempo.

Ma dov’è che incontro davvero lo scacco con l’altro?

Nel collasso del linguaggio, o perché disarcionato dal dolore nella malattia, o perché reso inaccessibile dalla intraducibilità della lingua, o entrambe queste cose, non di rado.

Il linguaggio è il protagonista assoluto della seconda giornata, considerato in tutte le sue sfumature più o meno umbratili, più o meno ovvie. Si pensa spesso al linguaggio come una sliding door di nostra proprietà che ci fa oscillare a piacimento tra pubblico e privato, in realtà il linguaggio è il marchio di fuoco della co-fabbricazione del gruppo sociale, perché se è vero che il pensiero è possibile grazie alle parole che si conoscono, nessuno nasce con un linguaggio ‘di serie’, anche quello è un dono interessato del gruppo; questa è una prima questione. La seconda questione riguarda una irriducibile intraducibilità delle lingue, non è detto che ci sia una parola che corrisponde ad ‘angoscia’, ‘melanconia’ ecc., questa intraducibilità è la manifestazione plastica della alterità dell’altro.
Ma cosa fare, e cosa farne, di questo muro se non lo si può e, soprattutto, non lo si deve abbattere?
Lo illustra Lelia Pisani nella sua relazione incentrata sull’allestimento del ‘dispositivo etnoclinico’. Il dispositivo etnoclinico è quel luogo di esplicitazione del conflitto culturale che dunque rivela tutta la insufficienza della relazione esclusivamente duale prescritta dalla clinica occidentale, proprio a partire dal fatto che medico e paziente non riescono a comunicare. Dunque, si rende necessaria la presenza di un terzo che costringe il clinico a cedere quote di sovranità rispetto al suo ruolo e al suo sapere. All’atto pratico questa terzietà si può estrinsecare in più figure professionali: l’interprete per la traduzione, e l’antropologo per la mediazione culturale, cionondimeno è rotta la dualità classica medico-paziente, che in molte culture è, tra l’altro, vista spesso con molta diffidenza, se non addirittura con avversione. La presenza di un attore terzo non è soltanto una ferita narcisistica alla figura del clinico, ma pone davanti un esercizio di complessità notevole, di bricolage come tiene a sostenere Serge Bouznah da Parigi, anche perché quello che viene fuori da questa full immersion nell’etnopsy è la non riproducibilità di moduli terapeutici, in virtù anche di quel looping effect sopra citato. Tutto questo non è che un distillato del distillato di tutto quello che potrebbe essere riportato da questi densi due giorni e mezzo, troppo ricchi per essere contenuti tra le righe di questo report.

Ma che cosa porta con sé una studentessa che si era avvicinata all’etnopsy non senza un po’ di superficiale curiosità per il suo carattere esotico? Sicuramente più dubbi di prima, più libri da studiare di prima, e la consapevolezza che, se il richiamo alla cura nella parola è una caduta sulla via di Damasco, la cura nella parola in chiave etnopsichiatrica è un’altra caduta, una diversa via per Damasco.

 
Bibliografia
  • Achebe C. ‘Things Fall Apart’.
  • Coppo P. ‘Negoziare con il male. Stregoneria e contro-stregoneria Dogon’.
  • Fadimen A. ‘Spirit catches You and You fall down’
  • Nathan T. ‘Medici e Stregoni’
  • Risso M. Castelnuovo Frigessi D. ‘A mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale’.
* Ian Hacking ‘‘The looping effects of humankinds’’

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