«M'accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d'un'inquieta capretta.
Il vento mi fascia
di sottilissimi nastri d'argento
e là, nell'ombra delle nubi sperduto,
giace in frantumi un paesetto lucano».
Rocco Scotellaro, Lucania, 1940 [01]
Anch’io sono stato al Palazzo Serra di Cassano, il tempio sacro napoletano degli studi filosofici. Fui invitato per commentare la presentazione di un libro su Ernesto de Martino.
Ho ritrovato una vecchia locandina di un evento celebrativo e di presentazione di un libro su Ernesto de Martino. L’iniziativa – “Rassegna Culturale Passaggi e Confini” – era del Collega Fausto Rossano, il vulcanico maestro junghiano di Ercolano, più preciso di un orologio svizzero. La cornice sontuosa era quella del Palazzo Serra di Cassano in via Monte di Dio 14 a Napoli. Titolo “Il ritorno del rimorso”. Giornata di studi sul pensiero di Ernesto de Martino. Il patrocinio e la collaborazione erano concessi da varie istituzioni che elenco qui di seguito: Il Dipartimento di Salute Mentale di Napoli Uno (Asl Na 1), Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi della Basilicata, Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA), l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Duplice il motivo: la celebrazione del Cinquantenario della ricerca in Lucania di Ernesto de Martino (1952-2002), e la presentazione del libro Dell'apocalisse. Antropologia e psicopatologia in Ernesto de Martino. Curatori: Bruna Baldacconi, Pierangela Di Lucchio. “Collana Alchimie”, Guida, Napoli, 2005.
In verità, dalla locandina si evince che alla celebrazione demartiniana ospitata al Palazzo Serra di Cassano, era stato invitato un “parterre de roi”. Espressione certamente enfatica ma non priva di fondamento a giudicare dai nomi che andiamo ad elencare, corredati di una breve scheda sintetica tranne che per Bruno Callieri, fin troppo noto ai lettori di Pol.It.Psychiatry on line Italia. Stefano Mariano Carta di origini sarde (classe 1960), psicologo analista, junghiano, ordinario di psicologia dinamica alla facoltà di filosofia dell’università di Cagliari. Iain Michael Chambers (classe 1949), antropologo culturalista e sociologo britannico. Esponente di spicco della scuola di Birmingham guidata da Stuart Hall, trasferitosi in Italia dove insegna Studi culturali e postcoloniali all'"L'Orientale" di Napoli. Autore di numerosi volumi su argomenti che vanno dall'urbanizzazione alla cultura popolare, alla musica, alla memoria, alla modernità. Stefano De Matteis (Napoli, 1954) è un antropologo e scrittore italiano. Docente universitario in vari atenei. Si è occupato di rappresentazioni simboliche, pratiche performative e processi rituali [02]. Rita Enrica Librandi (Catanzaro, 1952) ordinaria di Linguistica italiana e di Storia della lingua italiana presso "L'Orientale" di Napoli [03]. Nelson Mauro Maldonato (Sapri 1960), medico, psichiatra e docente di Psicologia generale [04].
Probabilmente diversi erano i motivi per cui Fausto Rossano s’era convinto, bontà sua, che io fossi la persona giusta, tra gli psichiatri, da coinvolgere nelle celebrazioni, per ricordare la figura di Ernesto de Martino. Perchè ero amico e “fratello minore” di Bruno Callieri, amico e compagno di specializzazione di Giovanni Jervis, amico personale di Clara Gallini e Vittorio Lanternari, storici delle religioni, interessato alle ricerche sociologiche di Amalia Signorelli [05]. Infine, padre di Chiara Mellina della scuola romana di antropologia storico-religiosa di Pettazzoni, Brelich, e allieva di Gilberto Mazzoleni. Dunque, credo che proprio per questo tipo di filiazioni, frequentazioni e organizzazione di corsi intersettoriali e multiculturali alla ASL Roma B, in Via di Torrespaccata, [06] mi avesse convocato al convegno. Per inciso ricordo gradevolmente e con nostalgia che, in tale occasione, fui ospitato in Via Pacuvio, in casa loro, da Paola Russo, la squisita Collega junghiana, moglie di Fausto Rossano, e scarrozzato dai figli (teatranti e cineasti) Marco e Valerio Rossano con “la piccola” Aygo di città, la Toyota bianca di famiglia, mentre “la grande”, l’Alfa 2000, soprannominata “la vergine cuccia” sonnecchiava nel garage del giardino.
Secondo gli accordi di arruolamento, avrei dovuto, fondamentalmente, presentare il libro, commentarlo e svolgere qualche appunto critico. Meglio se avesse riguardato le sterminate curiosità di de Martino per la psichiatria e le discipline affini. Il testo era denso di pregevoli saggi, cosicché risultava, già di per sé, un puntuale e doveroso omaggio al maestro napoletano, giusto nel «cinquantenario (1952-2002) della sua “spedizione etnologica” in Basilicata. Si dava il caso che essa coincidesse felicemente – come scritto nella presentazione della professoressa Rita Librandi, preside della facoltà di lettere e filosofia dell’università della Basilicata – con il ventennale della fondazione dell’Ateneo lucano». Non ho più con me l’ordine preciso degli oratori intervenuti e, tranne che i miei appunti e la locandina, nella cartellina color mattone, non m’è rimasto nulla, se non la mia memoria. In ogni caso, i sei oratori sopra citati, coi quali mi sono alternato nella ricostruzione delle vicende e degli studi di de Martino nel Mezzogiorno d’Italia, lo fecero più diffusamente, con maggior competenza storica e storico-religiosa della mia.
All’epoca mi limitai ad aggiungere due notazioni. La prima di plauso al testo, la seconda all’organizzazione appassionata dell’attività seminariale, di ricerca e di studio sul pensiero di de Martino, che i Colleghi della Basilicata avevano fatto precedere alla pubblicazione, cui feci seguire alcune considerazioni e riflessioni sul tema proposto da Fausto Rossano: “Il ritorno del rimorso”, che qui di seguito riporto, opportunamente aggiornate. Questo tema, tra l’altro, mi è sempre stato particolarmente caro come studioso della condizione migratoria di varie popolazioni europee ed extraeuropee che l’avevano vissuta (o subìta), in epoca storica, ma anche moderna e contemporanea, dal punto di vista della sofferenza mentale e riletta attraverso la lente plurifocale della psicopatologia clinica.
Pochi rammentano che Ernesto de Martino visse a Bari due lustri, dove insegnò storia e filosofia nelle scuole superiori e dove, finita la sua storia con Anna Macchioro, sposata nel 1934, conobbe Vittoria De Palma, giovane allieva delle magistrali e poi compagna per la vita. (Il divorzio legale sarebbe stato introdotto in Italia il 1º dicembre 1970, cinque anni dopo la sua morte). Tutti gli appassionati di questi argomenti sanno invece che, nel 1958 ebbe la cattedra di storia delle religioni nella facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari, lasciata poi a Clara Gallini, ed ebbe militanza politica prima nel PSI poi nel PCI. Da qui il suo profondo interesse e la sua scelta di lottare per l’emancipazione dei lavoratori del Sud.
Le sue prime comparse in Lucania, a Tricarico, di cui in esergo si citano i versi di Rocco Scotellaro e nel materano, in Basilicata, soltanto all’inizio furono spinte da “incarichi politici”, se così possiamo dire, ma erano destinate a dare ben altri frutti e in tutt’altro campo che la politica militante, specialmente quando sarebbero approdate nel Salento. Personalità complessa e quasi frenetica, come se sapesse che la sua “presenza” sarebbe stata una fulgida cometa con una coda breve, era in anticipo sui tempi, sulla storia, sulla speranza di futuro per gli ultimi e i reietti. Di lui ha scritto Di Donato «Conobbe notorietà ma non successo, visse da velleitario la politica, variando atteggiamenti e posizioni. Da non filosofo praticò la filosofia, da storico l’etnografia» [07]. Intanto apriva gli occhi sulla realtà che incontrava, si fermava a ragionare sulle contraddizioni che poteva direttamente constatare, esplorando il mondo contadino e subalterno della Lucania e della Puglia. Conosceva Antonio Gramsci, il suo concetto di “egemonia”, per applicarlo nella sua indagine etnografica, e quello di “classi dominanti”. per trarne conclusioni filosofiche sullo sfruttamento della “povertà morale e materiale” del contado, lontano dal mondo delle letture e delle scritture, ma prepotentemente legato e difeso da quello del rito, del mito, del racconto e della tradizione orale, colma di sincretismi religiosi sussunti e impastati in un cattolicesimo molto primitivo, creduto e obbedito, per necessità.
Il Salento, il suo cono d’ombra.
«La terra del rimorso è, in senso stretto, la Puglia – scrive de Martino, Terra del rimorso, Prefazione, cit., p. 35 – in quanto area elettiva del tarantismo, cioè di un fenomeno storico-religioso nato nel Medioevo e protrattosi sino al '700 e oltre, sino agli attuali relitti ancora utilmente osservabili nella Penisola Salentina. Si tratta di una formazione religiosa “minore” prevalentemente contadina ma coinvolgente un tempo anche ceti più elevati, caratterizzata dal simbolismo della taranta che morde e avvelena, e della musica, della danza e dei colori che liberano da questo morso avvelenato. In un senso più ampio la terra del rimorso, cioè la terra del cattivo passato che torna e rigurgita e opprime col suo rigurgito, è l'Italia meridionale, o più esattamente le campagne di quel che fu l'antico Regno di Napoli, di quel Regno che stretto fra lo Stato pontificio e il mare suggerì a un suo re l'immagine di una terra protetta dalla storia, e quasi fuori del mondo, “tra l'acqua benedetta e l'acqua salata”, tra il Patrimonio di S. Pietro e il mare» – e più oltre, con splendida lucidità, difficile ma acutissima e profetica, vaticinante, ancor oggi, direi, più che mai attuale, in questo inaudito e incredibile Zeitgeist di rigurgiti opprimenti di un cattivo passato: antisemiti, xenofobi, antistorici, antiafricani, dove l’ominazione più recente ha dimostrato inoppugnabilmente essersi generata l’umanità intera – «…vuole essere un contributo molecolare, nella prospettiva di una nuova dimensione della quistione meridionale: il che significa che il fenomeno molecolare da cui trae spunto il discorso storico – il tarantismo – non è considerato nel suo isolamento locale […] ma in primo luogo nella sua genesi e nel suo mantenersi in piena epoca cristiana, e in secondo luogo nel modo con cui reagirono a esso il cattolicesimo, la magia naturale, la ragione illuministica, il Positivismo, sino a giungere al modo con cui possiamo reagirvi noi, nel quadro di uno Storicismo e di un Umanesimo che vanno diventando sempre più sensibili per tutto quanto parli di “rimorso”, di ritorno del cattivo passato, del passato che non fu scelto …» (Terra del rimorso, cit., pp. 35-36).
Ed ecco la stupefacente nota ambientalista demartiniana, che non ti aspetti, in anticipo di oltre una dozzina di lustri, sui temi attualmente posti, in climatologia, dal “riscaldamento globale”: «… in un terzo e ancor più ampio senso la terra del rimorso è il nostro stesso pianeta, o almeno quella parte di esso che è entrato nel cono d'ombra del suo cattivo passato. Potrà forse sembrare strano che un discorso così impegnato, e che quasi promette di voler metter mano a cielo e terra, possa prendere le mosse da una minutissima vicenda regionale, anzi locale, della cui levità par testimoniare il sorriso col quale, a chi dà segni di agitazione immotivata, chiediamo celiando: “Ti ha morso la tarantola?”. Ma non tutte le cose che abbiamo reso lievi meritavano di diventarlo, e in ogni caso il “lieve” e il “grave” non appartengono alle cose in sé, ma sono sempre di nuovo ridistribuibili nella trama della realtà in funzione di certi “problemi presenti” che stimolano a scegliere il “passato importante”. (Terra del rimorso, cit., p. 36)
La scoperta del cattivo passato.
Salento, parole sue, «terra del rimorso», «terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito». S’era nel giugno del 1959, guidava un’équipe composta da uno psichiatra Giovanni Jervis, uno psicologo Letizia Comba, un musicologo Diego Carpitella un sociologo Amalia Signorelli e l’indispensabile aiuto Vittoria De Palma, per condurre una ricerca etnografica sul tarantismo. La documentazione fotografica era affidata al gallurese della Maddalena Franco Pinna (1928-1978), fotografo personale di Federico Fellini. La spedizione intendeva appurare la simbologia di un antico rito contadino, quello del ragno che morde e avvelena ed osservare la decantata «potenza estatica e terapeutica della musica e della danza». L’obiettivo cardine intorno al quale far ruotare ogni possibile ipotesi di ricerca era verificare se il tarantismo fosse una patologia medica a genesi tossinfettiva specifica o non piuttosto, la manifestazione clamorosamente somatica e pubblica di un «rito di passaggio». Il campo era aperto a qualsiasi interpretazione purché fosse rigorosamente corredata dal massimo della dimostrabilità scientifica oppure negarla con altrettante prove di carattere inoppugnabilità scientifica. De Martino stesso, nei due capitoli, “Prefazione” e “Introduzione”, del sommario che precedono il testo de La terra del rimorso, [08] sia nella prima versione che nelle successive, recanti la postilla aggiuntiva Contributo a una storia religiosa del Sud, racconta spiega e giustifica il suo grande interesse per il “magismo” e questa sua “spedizione” mirata, in Puglia, a Galatina, per osservare direttamente il celebre fenomeno contadino del “tarantismo”. L’antico rito caratterizzato dal ragno che morde e avvelena. L’intento era quello di cercare di decifrarne la simbologia ad esso collegata. Il luogo deputato, dove si sarebbe esercitata la decantata potenza estatica e terapeutica della musica e della danza, era, naturaliter, la piccola cappella di S. Paolo, sita nelle adiacenze della Chiesa di Pietro e Paolo, santi patroni della città, a pochi passi dal centro.
Scrive de Martino « L'esplorazione etnografica per lo studio del tarantismo salentino fu preparata in sede nell'inverno del '59, in vista della ricerca sul campo che doveva aver luogo nel mese di giugno, in un periodo che comprendesse i giorni delle manifestazioni in cappella [ndr. In antichità, il 29 giugno, si concludeva un rito esorcistico liberatorio sui trarantati, iniziato nelle loro abitazioni col suono e il ballo della “pizzica tarantata”, in stato di trance, fino allo sfinimento]. Il problema fondamentale da risolvere nella fase preparatoria fu quello del metodo. In questa fase tutte le motivazioni che avevano condotto alla scelta dell'argomento, e della prospettiva in cui considerarlo, diventavano semplicemente “ipotesi di lavoro” da verificare, criteri ermeneutici da sottoporre alla prova della documentazione, e in primo luogo di quella etnografica. La vasta letteratura sul tarantismo, dal '600 a oggi, esibiva una serie di punti di vista diversi, i quali richiedevano una attenta misurazione dei loro effettivi limiti di validità, poiché solo così poteva diventare tesi dimostrata l'ipotesi che la prospettiva storico-religiosa fosse la più pertinente in rapporto al fenomeno dato» (Terra del rimorso, cit., pp. 52-53).
Segue un lungo, dettagliato e importante corredo biografico nel quale sono inclusi i famosi Gesuiti delle Indie di casa nostra «Questa coscienza culturale gesuitica dell'Italia meridionale come Indias de por acá costituisce qualche cosa di più di una metafora occasionale, poiché segnala una effettiva analogia, nella prospettiva dell'attività missionaria, fra il nuovo mondo da guadagnare alla civiltà cristiana e le condizioni culturali di larghe zone del vicereame di Napoli, così superficialmente sfiorate da questa civiltà che i suoi abitanti sembravano “tutti del bosco”» (Terra del rimorso, cit., p. 44). Passo del testo al quale si rimanda per una riflessione più meditata.
E più avanti «Nacque così, ispirata a criteri interni al carattere della ricerca, la formula strutturale dell'equipe che stava per iniziare il lavoro sul campo: uno storico delle religioni come direttore di équipe e un gruppo di quattro giovani collaboratori rispettivamente addestrati in psichiatria, psicologia, etnomusicologia e antropologia culturale. Tale formula sembrò infatti come la più adatta alla prospettiva essenzialmente storico-religiosa dell'indagine, e alla necessità di controllare la validità di questa stessa prospettiva rispetto al fenomeno da analizzare: lo psichiatra, lo psicologo, l'etnomusicologo erano cioè chiamati a sorvegliare le interpretazioni dello storico, a mobilitare le proprie competenze tecniche per segnalare allo storico le istanze delle loro discipline, e al tempo stesso ad avvertire i limiti delle proprie “spiegazioni” sotto lo stimolo delle istanze storico-religiose che venivano continuamente proposte. Fu anche discusso, nel corso del periodo preparatorio, un altro problema di metodo che aveva importanza particolare per definire il carattere dell'indagine e quindi la struttura e il funzionamento dell'equipe». (Terra del rimorso, cit., p. 56). Posso aggiungere che lo psichiatra era Giovanni Jervis, il quale avrebbe fatto buon uso di quel lavoro in équipe servendosene nella sua difficile collaborazione con Franco Basaglia, mentre la psicologa sociale era sua moglie Letizia Comba, scomparsa nel 2000 in un tragico incidente stradale [09].
Scazzicare la nostalgia del ritorno a casa.
Frugando nei sentimenti delle generazioni contadine della Lucania e dei linguaggi per rappresentarli, in quella cultura subalterna che de Martino ha largamente raccolto e indagato, con la stoffa di un raffinatissimo etnopsichiatra ante litteram, abbiamo trovato la parola “scazzicare”[10]. Il termine è emerso proprio da quelle che sono state le tradizioni culturali indagate, il folclore, la naturalità non scritta, ma affidata alla tradizione orale e visiva come si conviene che sia la cultura in un mondo di uomini che non possiede il mezzo tecnico della scrittura. Ebbene, proprio lì si radica il “ritorno del rimorso” – che è anche il titolo del convegno – cioè a dire quel sentimento complesso e indicibile sul piano verbale, che a volte può assumere il connotato somatico di stretta dolorosa come un morso, mentre sul piano del vissuto, pizzica le corde del rimpianto, della nostalgia e ti morde ferocemente dentro per la colpa del tuo presunto tradimento. Per i "somatisti" era il trionfo del malfunzionamento degli organi addominali sotto l’ipocondrio: fegato, milza, anse ileo-coliche. Per gli eruditi, era la bile nera (melainé kolè) per i greci antichi; Sensucht per i romantici tedeschi; Spleen per i britannici e per Baudelaire; Saudade per lusitani e brasiliani; Morriña per i galiziani; Añoranza per gli spagnoli, Hunayn per gli arabi, Tęsknota per i polacchi che bramano, desiderano, sentono la mancanza, hanno nostalgia per la scomparsa di qualcosa, qualcuno…
Desiderare all’improvviso di annullare la distanza dal luogo dove sei nati, quella sorta di “malattia” che gli svizzeri del Seicento, avevano chiamato “Heimeweh”, scambiandola per afflizione mortale legata ai mefitici miasmi delle paludi dov’erano scesi dalle loro vallate per fare il mestiere delle armi, parafrasando Ermanno Olmi (1931-2018), è un’esperienza che ti può annientare. Ritornare dalla migrazione ciclicamente, nei periodi festivi oppure alla fine del ciclo migratorio per la tua pensione, può dare la stura ad un ciclo depressivo al fondo del quale troviamo il tradimento della tradizione. Provare la colpa dell’aver infranto la tradizione in cui si è nati, è uno scazzico non di poco [11].
L’opera dello studioso de Martino, un immenso giacimento di saperi sulle scienze umane, tranne che in ristretti ambienti specialistici (storia delle religioni, antropologia culturale, antropologia medica, etnopsichiatria, psichiatria transculturale, che lui chiamava «psichiatria culturale») è poco studiata, poco conosciuta, molto orecchiata, scarsamente approfondita, in Italia, non così nel mondo. Direi di più, de Martino – a mio avviso – è poco approfondito, ma molto chiacchierato. Sarà forse per quell’antico ostracismo alla sua «collana viola» (colore che porta male in teatro ed è segno di lutto), chiamata spregiativamente «collana nera». Anche il nero è segno di lutto, ma proprio con lo studio delle elaborazioni tradizionali dei lutti antichi, della morte e del pianto rituale in Lucania, de Martino aveva aperto le ostilità col mondo accademico. Sigmund Freud, ebbe sorte migliore sottilizzando sul lutto e sulla melancolia, come variazioni affettive importanti, più o meno durevoli, suol registro di perdita di una persona cara o un oggetto d’amore. Quella bisaccia dove s’intrecciano pulsioni, ormoni, passioni, secreti e increti biologici, e folgori elettriche, tutti raccchiusi strettamente all’interno del nostro soma, della sua storia fisica, genetica, mitocondriale, ontologica, filogenetica; un tragitto superbo, miserevole, verso il cielo, dentro la terra, col nostro alter, compagno di strada, di cammino, nel mondo… Un orcio di cuoio duro, resistente, bozzoluto e irregolare, se mai vi fosse, e proprio fatto di tal guisa, per reprimere le spinte, trattenere le controspinte, perchè vi soffiano forte i venti dell’elan vital di Bergson, che a mio modo di vedere, sarebbe quella “cosa” che il maestro moravo di Příbor chiama “libido”. Ma la melancolia è una psicosi depressiva, una grave patologia mentale, la terribile melanè kolè, conosciuta, descritta e temuta fin dal tempo degli ippocratici. Il lutto, invece, è materia e prodotto “di cultura”, di cerimoniali, riti, prefiche, lamentazioni, a quanto ci hanno raccontato gente come de Martino, e altri prima di lui, diffusi in tutto il mondo, a tutte le latitudini.
Sarà forse per quella ostinazione demartiniana a voler studiare fenomeni irrazionale come il “magismo”, il “paranormale” usando l’arma iper-razionale e tranciante della critica storicista dei suoi maestri, che si era guadagnato molte diffidenze, ma anche molto interesse dal mondo storicistico da cui in fondo proveniva. Come se codesto mondo accademico, altezzoso, eburneo, fosse, malgrado tutto, in attesa di rivelazioni nuove e fondamentali, da questo giovane cattedratico, straripante di nuove idee, che faceva imprese temerarie, rigorosamente scientifiche e sporcandosi anche le mani nelle vicende emotive degli “ultimi” che nessuno pensava esistessero, nè come ultimi, nè come persone.
Gli accademici di mezzo secolo fa pensavano che non ci fosse, proprio niente da studiare nella magia e anche nel paranormale. Le posizioni orto, meta e para, sono isomeri legati a due carboni adiacenti! Non siamo più al medioevo, agli arabi, all’alchimia! Erano le critiche più benevole dei positivisti. “Noi crediamo soltanto ad Antoine-Laurent de Lavoisier (1743–1794) il fondatore della chimica moderna, e scusate se è poco!” Forse non era giusto creare false illusioni. In fondo, la magia, poteva essere un “trucco”, una “illusione”, una “credenza primitiva”, una “superstizione”, frutto di “ignoranza popolare”. Ma non c’erano neppure certezze, altrettanto pericolose. La “scienza positivista”, negando la magia, un po’ era (giustamente) intransigente custode della scienza matematica, fisica, chimica, naturalistica impostata nel Rinascimento e maturata nell’Illuminismo. Un po’ diffidava dell’esattezza delle scienze storico-sociali (specialmente quando pretendevano di avvalorare fenomeni incomprensibili, irrazionali, con l’alibi “inconsistente dello storicamente determinato”. Un po’, forse, disconoscevano alla scienza il dovere di occuparsi “della non domesticità” dell’inconosciuto, dunque spesso era un mondo di conservatori. Ma il conflitto tra Naturwissenschaften e Gaistwissenschaften ancora costituiva una pesante ipoteca nel mondo dei nostri saperi scientifici nell’immediato secondo dopoguerra.
Stessa sorte di incomprensione era capitata a Georges (Dobo) Devereux (1908-1985), sapiente etnopsichiatra di Timișoara; un ebreo in fuga dal Banato (area di tre stati: Serbia, Romania, Ungheria) verso la Francia, poi in Indocina, infine negli Stati Uniti presso gli indiani Mohave di pianura, Arizona. Erano gli anni in cui l’epistemologo e logico viennese, naturalizzato inglese col titolo di Sir, Karl Raimund Popper (1902-1994) bollava di non scientificità la psicoanalisi e il torinese Ludovico Geymonat (1908-1991), filosofo con competenze accademiche anche matematiche, giudicava poco scientifica la psichiatria. Gli epistemologi non avevano probabilmente torto, dimenticando però, che tali perplessità erano state sollevate molto tempo prima proprio dai cultori della medicina mentale ragionando sul concetto di salute.
A raccogliere la sfida transculturale è il gruppo canadese di psichiatri e antropologi di Montreal che fa capo a Eric Wittkower (1899-1983), uno psicoanalista berlinese fuggito in Svizzera negli anni hitleriani, kleiniano convinto dopo il suo espatrio inglese, divenuto infine canadese nel 1951 [12], cui si aggiungono lo scozzese di Edinburgo Henry Brian Megget Murphy (1915-1987), Wintrob, Chanse, Widman, Leighton, Fried, ecc. Come campo di prova scelgono la stregoneria, il magismo, le fatture. Soprattutto, cercano di analizzare il contesto etnografico in cui maturavano queste credenze per comprenderne il significato culturale [13]. Il loro lavoro sul terreno è un notevole contributo allo studio della stregoneria (Witchcraft), studio che continua nei tre lustri successivi alla metà degli anni ’50 [14]. Nel frattempo Henri Collomb a Dakar, in Senegal, andava creando una scuola che scopriva l’esistenza di un Edipo Nero (Oedipe africain) [15].
Folclore, o qualcosa di più?
Di Ernesto de Martino mi attiravano le sue ricerche sull’alone magico che circondava le tradizioni popolari del Mezzogiorno d’Italia. Esse, peraltro, non riguardavano soltanto il Sud, ma anche il Centro, com’egli stesso aveva potuto verificare quando nel 1944, “sfollato” per la guerra a Cotignola, nella bassa ravennate, paese d’origine di Rosita Parra, la suocera [16], ebbe modo di simpatizzare per i partigiani. Ricordo benissimo che di lì passava la “Linea Gotica” quando la precedente “Linea Gustav” era crollata (18 maggio 1944) [17]. Dallo sbarco in Sicilia degli anglo-americani, luglio/agosto 1943 fino all’8 settembre 1945 può dire che passarono due anni perchè o gli “alleati” se la presero comoda o i “tedeschi” e i “repubblichini” opposero un’accanita resistenza. Senza contare che per noi si trattò di una vera e propria “guerra civile”, non priva di ferocia, con la quale ci siamo dimenticati di fare i conti. Infatti, ogni tanto riappaiono le crepe insanate e irrisolte sotto una provvisoria mano di calce, molto deperibile, perchè intanto, bisognava ricostruire l’immane disastro e poi non ci fu più tempo per mettere le cose a posto.
Io avevo 12 anni ed ero “sfollato”, come si diceva allora, a Ponte Ronca (BO), un po’ più su e un po’ più dentro, sempre risaledo per la Via Emilia da Bologna, svoltando a sinistra per Zola Predosa→Ponte Ronca al bivio di Castelbolognese, rispetto a Cotignola che, per raggiungerla bisognava invece girare a destra e tornare indietro andando a sud-est. Non è un caso che proprio da quelle parti si celebrino ogni anno antichi riti agresti. Per esempio, “La festa dei frutti dimenticati” (Casola Valsenio). E che anche nel Nord d’Italia vi siano copiose tracce di sortilegi, magie e spiritelli dispettosi, da tutti creduti realmente, come per esempio il valsuganotto sanguanel, parente strettissimo, anzi fratellino vispo e noto a tutti col nome di monaciello fin dal “Regno delle due Sicilie”. Me ne raccontava, inesausta, perchè glielo domandavo continuamente di codesto sanguanel, che sbarrava la strada ai poveri boscaioli che risalivano il Brenta col portafoglio gonfio, dopo aver venduto la legna “bodolata” spericolatamente in piedi sui tronchi fin giù in laguna a Venezia, la sorella di mia madre, dei suoi fratelli, appunto. La famosa “Zia Gaetana” anch’ella della Val di Brenta (esperta scrutatrice di lune crescenti e calanti), che era venuta ad assisterla, quand’io nacqui, in Via San Giuliano, entro le mura bolognesi, con la parrocchia, menzionata da Leopardi, per la “Festa degli addobbi” in Via Santo Stefano. Giù all’incrocio, dall’altro lato della Piazza col monumento di marmo bianco a Giosuè Carducci. Ora mi rammento che quando mi diceva: «tote a caregheta, vien quà séntete che te conto» (prenditi la seggiolina vienimi vicino, siediti che ti racconto). Mi ricordava la Signora Lucia, la nonna del poeta, quella figura alta, solenne, vestita di nero, alla quale anch’io imploravo «O nonna, o nonna! deh com’era bella / quand’ero bimbo! Ditemela ancor, / ditela a quest’uom savio la novella / di lei che cerca il suo perduto amor!...» Carducci “Davanti San Guido”.
Di de Martino, apprezzavo le sue sapienti parole sulla migrazione, sulle credenze popolari e sul potere terapeutico delle cerimonie rituali compiute a cadenze annuali o periodiche: in particolare il mondo magico-religioso di chi era costretto a chiamarsi fuori dalla storia per potervi rientrare “miracolosamente” per mezzo di un “prodigio” irrazionale ma compatibile con la cultura della tradizione locale. Ingenuo certamente, forse anche non vero, per altri, ma non peggiore della protervia di Tobie Nathan quando sostiene che la psicoanalisi sia l’unica tecnica terapeutica indifferente ai retroterra culturali, in qualunque parte del mondo essi si trovino.
M’incuriosivano le sue attrazioni per la medicina, la psichiatria, la neurologia, la psicoanalisi, la parapsicologia, lo sciamanesimo, le terapie tradizionali, i guaritori popolari e la loro clientela, come mi avrebbe poi confermato Clara Gallini che se ne era occupata indirettamente. In pratica si trattava di verificare le “attività di guarigione” dei cosiddetti “maciari” o “maciare”, come sono chiamati i taumaturghi tradizionali del contado lucano che le credenze locali asseriscono essere capaci di somministrare cure a distanza, “paranormali” o “magiche”.
Scrive Clara Gallini «Con la collaborazione di Adelina Talamonti ho di recente studiato i materiali inediti di una ricerca sui “guaritori e la loro clientela” condotta in Lucania nell'estate del 1957 e ora in via di pubblicazione (De Martino 2008). Questa ricerca avrebbe dovuto rispondere agli interessi dell'ente finanziatore, la Parapsychology Foundation di New York, che in quegli anni puntava sulla collaborazione tra etnologia, biomedicina e parapsicologia onde verificare la realtà di possibili influenze della psiche sul soma, via forze occulte trasmigranti anche da guaritore a paziente. Insomma, la questione dei “poteri magici” avrebbe forse potuto trovare nuova riformulazione! E appunto, la ricerca tra i guaritori lucani si concretizzò in una équipe scientifica, diretta da Ernesto De Martino nel ruolo di etnologo … composta da Mario Pitzurra … medico igienista … ed Emilio Servadio, personalità complessa dal ruolo oscillante tra quello di psicanalista e di parapsicologo». (Terra del rimorso, cit., p. 19).
Insomma, un de Martino storico, etnografo, pensatore curioso e avvincente come un giallista consumato. Uno scrittore affascinante e potente a metà strada tra Dostoewskij e Bulgakov. Io ne avevo estrema necessità anche per le sue raffinate qualità storico-etnopsicologiche. Molto me ne aveva parlato Bruno Callieri perchè era rimasto fascinato dall’incontro col maestro napoletano. «Pensa tu! Era venuto lui a cercarmi. Ernesto de Martino in persona! Aveva letto il mio lavoro sulla fine del mondo, quello fatto studiando i malati della “Neuro”… [18]
Fine dell’emigrazione italiana: 1973. La grande rimozione nazionale.
Agli inizi degli anni ‘70 ero particolarmente interessato ai rapporti tra migrazione per lavoro, sofferenza mentale e devianza, tema ancora acutissimo e sul quale continua a giocarsi la politica italiana dell’ultimo mezzo secolo. Così facevo il punto sul panorama mondiale nel 1997.
«“Da quando, nel 1974 nelle sedi internazionali, si dichiarava in modo stupidamente miope la fine dei processi migratori di massa” – scriveva Franco Foschi – le questioni “si sono moltiplicate e il problema è oggi diventato più complesso per l’intreccio di ragioni che spingono milioni di persone ad emigrare, immigrare, tornare, da aree e verso aree geografiche e culturali”. L’Autore, che è un politico e prima ancora uno psichiatra, ne spiega anche le ragioni più profonde: “In realtà si intendeva dire che i paesi di immigrazione non sentivano più il bisogno di manodopera che li aveva indotti a regolare in qualche modo i flussi d’ingresso, a condizione di limitare o procrastinare i diritti dei nuovi venuti. Questa, in termini brutali, la sostanza della legislazione migratoria”. parole dure, ma estremamente chiare, per denunciare l’intreccio tra migrazione, bisogno e sfruttamento del lavoro che si intendeva rinnovare: “Allora” … “nel 1974 si fingeva di non conoscere i problemi, come quelli derivanti dallo squilibrio demografico, dal differenziale di sviluppo economico sociale e demografico tra il Nord e il Sud del mondo e dall’ampliarsi del fenomeno delle economie sommerse di cui lo sfruttamento dell’uomo diviene una logica variabile dipendente”. Inganno o finzione? Formalità o sostanza? Non possiamo non concordare con Franco Foschi allorché sottolineava, proprio in contrasto con i diritti da noi stessi reclamati per i nostri connazionali all’estero, che “noi oggi affermiamo che non siamo un paese d’immigrazione, perché formalmente noi non abbiamo mai chiesto con specifici accordi a nessuno di venire tra noi: così, quelli che ci sono, o non ci sono o comunque possono andarsene”» [19].
Cercando di verificare come il cambiamento di contesto, lo spaesamento, la sofferenza nostalgica, acuta e improvvisa per la patria ingrata, potesse sconvolgere la vita delle popolazioni migranti quali noi eravamo stati scolpiti sul “Colosseo Quadrato” di Guerrini, La Padula e Romano, come destino di popolo, cambiai orizzonte e, nel 1972, andai in Sardegna. Come de Martino, ora che ci penso, era andato in Lucania, Basilicata, Salento. Mi frullavano in testa i versi della poesia sperimentale di Pascoli «… Mangiano quà e là pane e coltello e alcun li tende, il pane da una mano, l’altro dall’altra, torbido ed anelo, al patrio lido sempre più lontano …» (Italy, 1904).
Avevo vinto un concorso per primario all’OP di Cagliari (“Santa Clara”) insieme a Laura Ferri Terzian. Raffello Picciau era il direttore. Poco dopo, avevo ricevuto anche l’incarico di direttore alla succursale di Dolianova nel Parteolla (basso campidanese, posti splendidi, vino e olio buonissimi, popolazioni stupende), dov’ebbi modo di fare una scoperta sorprendente. Buona parte dei ricoverati erano giovani uomini tra i 40 e 50 anni, ex pastori. Moltissimi mi salutavano “alla continentale” con locuzioni diverse: “guten morgen”, “bon jour”, ma anche “cerea”, “Milàn e poeu pu” e così via, il che testimoniava un’inattesa internazionalizzazione per degli ex pastori scarsamente alfabetizzati. Per loro ero “su dottori continentale” e dunque si sforzavano di farmi buona accoglienza. Tutti si dichiaravano “maccus” e “bagariu” (matti e celibi). Tutti avevano avuto un fallimento migratorio nel continente italiano o in Europa. Il loro rimpatrio ufficiale era stato certificato per disturbi psichiatrici classificati come “psicosi schizofrenica”. La diagnosi scritta in cartella aveva tutta l’aria di essere una non-soluzione studiata a tavolino e concordata politicamente a livello di Amministrazione Provinciale per dare una non-risposta ad un grave fenomeno: quello dei migranti che al contatto con le nuove realtà straniere e/o urbane, non avevano retto al cambiamento (di lingua, abitudini, cibo, vita, lavoro, affetti) ed erano crollati. La diagnosi di malattia mentale avrebbe potuto dare ai familiari la possibilità di mandare in manicomio una bocca da sfamare e aumentare il consenso elettorale della maggioranza votata. Quanto alle esperienze e ai disturbi, richiesti di raccontarmeli, rispondevano invariabilmente: “m’incresce sa conca” (mi fa male la testa) “esauritto ero, e ancora sono” (mi ero esaurito e tuttora lo sono).
In quel tempo ero andato a Varese a presentare un mio saggio – il primo ad orientamento fenomenologico – sul fallimento migratorio dei lavoratori italiani [20] osservati nei manicomi sardi, e avevo già scritto “La nostalgia nella valigia” (Marsilio, 1987).
Alla “Martellona”, l’ospedale psichiatrico privato della Divina Provvidenza a Guidonia (chilometro 20 della Tiburtina), un complesso della catena dei “Don Uva” di Bisceglie, convenzionato con l’Amministrazione Provinciale di Roma, precedentemente affidato a Francesco Bonfiglio e negli anni ‘70, diretto da Bruno Callieri, per sua iniziativa, si tenevano importanti conferenze, attività seminariali e convegni internazionali di psichiatria e scienze umane, di solito ogni martedì. Lì ho incontrato e fatto amicizia, tra gli altri, con Michele Risso, il quale oltre ad avermi parlato della sua esperienza in Svizzera, mi aveva accennato anche a Ernesto de Martino che era già andato a trovare. Si erano visti, anche con Giovanni Jervis e si dovevano rivedere per mettere a punto un progetto di studio transculturale sulla perdita dei riferimenti tradizionali con la loro terra e le loro costumanze, nei migranti del mezzogiorno italiano, espatriati per lavoro. Da li l’interesse per le situazioni di trattamenti e ritualità di cura popolare. Una sorta di etnopsichiatria at home, parafrasando Seppilli. Ernesto de Martino l’aveva inventata in Italia e dunque, ho sempre cercato di saperne di più.
Taranta senza veleno. Denervazione della pizzica.
Tornando al tema della taranta e a de Martino concluderei con una citazione di Clara Gallini tratta dalla sua Presentazione, e a due appendici storico audiofoniche della spedizione in Lucania.
«… Finibusterre. Estremo confine, luogo tragico di interrogazioni sul senso di ogni distinzione e di ogni oltrepassamento… Confine anche tra noi e gli altri, tra croci e mezzelune: rigidamente marcato dalla memoria protocollare degli ottocento martiri di Otranto e assieme esplorato nella pratica di cerimonie eterodosse al cristianesimo almeno altrettanto quanto le loro prossime cugine sembrerebbero esserlo rispetto all’Islam dei dotti. Così, il Salento del 1959 appariva all'etnologo viaggiatore nella terra del rimorso. Ma assieme (siamo pur negli stessi anni) luogo barocco, dove realtà e finzione perdono di ogni senso definitorio… Piani in cui la follia gode e soffre di sue regole interne che non sono quelle dettate dal ritmo di un tamburello e dai fluidi passaggi delle note di un violino… Turisti giapponesi in ciabatte di plastica – nel sogno? nella realtà? – sono approdati alla marina di Otranto dove si ergono le candide mura di Nostra Signora dei Turchi. […] Si veglia la notte costruendo sbarramenti difensivi da feroci saracini che non giungeranno mai perché le barriere hanno già ceduto… Nuovi riti salvifici vengono via via rinnovati per essere subito disfatti. Reliquie di martiri e fantasmi di Sante “fanno” lo stesso corpo del Mai Nominato… Dentro una rete di significazioni cristiane, cogenti e assieme pronte a smentire se stesse si estende la ricerca di un senso assoluto, lucida e allucinata, consapevole della sua vanità… Amado mio! suona, fuori, la banda». (La terra del rimorso, cit., p. 14)
Appendice storico audiofonica 1
Linguaggi, dialetti, parole, musiche, canti, balli della Lucania.
La mia passione per le medicine popolari tradizionali e questi studi etnografici di de Martino, mi portarono a scovare alla Rai, il “Documentario audiofonico storico: la spedizione in Lucania di Ernesto de Martino del 1952”. Depositate al Centro Nazionale di Musica Popolare presso l’Accademia di Santa Cecilia, esistevano le registrazioni originali delle musiche tradizionali effettuate in Lucania da Diego Carpitella ed Ernesto de Martino nel 1952. Le bobine dei nastri, erano corredate di vecchi filmati e fotografie storiche dei paesaggi della Lucania. Ne ritrascrivo qualche brano per dare un’idea di come la fervida genialità di de Martino fosse giunta ad escogitare un’equipe di specialisti, ciascuno nel proprio campo, atta non solo a descrivere ma anche a registrare materialmente ogni tipo di manifestazione culturale. Impresa mai tentata prima.
Voce di Ernesto de Martino. «L’idea di una spedizione in Lucania per la raccolta del materiale relativo alla vita culturale e tradizionale del mondo popolare di questa regione può suscitare qualche riserva e qualche diffidenza soprattutto per l’impiego, a proposito della Lucania, della parola “spedizione”, normalmente usata per viaggi collettivi di studio in regioni lontane e poco conosciute come il Congo o il Tibet. Ma la colpa non è nostra … se oggi siamo ancora nella deplorevole condizione di dovere organizzare spedizioni per conoscere la storia e la vita di alcuni gruppi di cittadini della repubblica … D’altra parte, noi non siamo andati laggiù alla ricerca del pittoresco … ma per tentare di ricostruire la vita culturale tradizionale delle generazioni contadine che si sono avvicendate sul suolo lucano. … per rendere tutti gli italiani più consapevoli e più partecipi del movimento della Lucania presso il mondo moderno ci sembra venuta l’ora di raccontare la sua vita culturale più trascurata dagli storici, la vita culturale tradizionale dei suoi contadini e dei suoi pastori. E se, con il nostro racconto, saremo riusciti a dare un contributo sia pure modesto per il riscatto delle plebi meridionali dal giudizio mitico che ancora ne danno molti italiani del sud e del nord è lecito concludere che spedizioni di questo genere sono non soltanto conformi alla dignità nazionali ma costituiscono in certo senso una testimonianza di saldo patriottismo. Finora le cosiddette plebi del mezzogiorno sono state oggetto di studio … Da una parte, sotto l’impulso della quistione meridionale, furono condotte importanti inchieste sulle condizioni economiche e sociali di quelle plebi nel quadro della società meridionale e della sua storia. Dall’altra … soprattutto per l’impulso e l’esempio di Giuseppe Pitré, sono state largamente raccolte e indagate le loro tradizioni culturali il folclore, cioè la loro natura non scritta, ma affidata alla tradizione orale e visiva come si conviene che sia la cultura in un mondo di uomini che non possiede il mezzo tecnico della scrittura.
A noi sembra che la separazione e l’indipendenza di questi due ordini di ricerche abbia nociuto non poco alla esatta valutazione del mondo contadino meridionale e che oggi sia davanti a noi il compito di fonderli organicamente valutando le condizioni culturali popolari del mezzogiorno nei loro molteplici nessi con ciò che con una frase divenuta ormai di moda si può chiamare la condizione umana. In conformità … il nostro metodo di lavoro è stato ispirato nel corso della spedizione in Lucania a una visione unitaria della vita culturale, infatti noi ci siamo sforzati di considerare il patrimonio melodico, tempi letterari, danze, costumanze e superstizioni come espressioni di un’unica visione del mondo adottata da certi strati sociali in condizioni determinate di esistenza».
Appendice storico audiofonica 2
“La nascita sventurata”. Una “maligna inversione della norma”.
Sul nastro registrato ritrascritto fedelmente, più avanti, inframezzata da musiche di tarantelle e da personaggi dialettali, si ode la Voce narrante dello speaker e sembra proprio di entrare nello straniante territorio lucano.
«Chi dall’alto del colle di Colobraro ha visto la tragica valle del Sinni, ampia, sconvolta, lunare o, percorrendo la strada da Ferrandina a Pisticci, ha rivolto lo sguardo all’arida creta del paesaggio, si rende conto di quel che significa un mondo precario, che si disfà lentamente e che retrocede verso il caos. Contemplando questo aspetto ricorrente del materano il tema della “nascita sventurata”, così diffuso nella letteratura popolare dell’Italia meridionale, acquista per noi il suo esatto significato. Fu un bracciante di Irsina che per la prima volta ci cantò la nascita dell’uomo, come nodo di assurdità e come maligna inversione della norma.
Versi in dialetto (traduzione) “Quando io nacqui mia madre non c’era / era andata a lavare le fasce / la culla che mi doveva cullare / era di ferro e non si dondolava / il prete che doveva battezzarmi / sapeva leggere e non sapeva scrivere”.
Avemmo occasione una volta d’incontrare a Savoia di Lucania una quasi centenaria: Caterina Aguglia. Essa non ricordava esattamente l’anno della sua nascita ma solo di essere nata “l’anno del terremoto”. Ricordava però con pronta memoria i versi della nascita come catastrofe.
“Quando io nacqui mia madre morì / morì mio padre il giorno dopo / e anche la levatrice morì / mi andai a battezzare / nessuno attorno”»…
Note
01. Rocco Scotellaro (1923-1953) poeta contadino di Tricarico, visitato quasi casualmente da de Martino con incarichi politici in Lucania, fu poi scoperto, apprezzato e valorizzato anche per le sue doti umane. Rimanda senza dubbio ad un mondo passato della storia recente. Le prime due guerre mondiali e i relativi due secondi dopoguerra. Un clima dove le ideologie erano dominanti, spesso tradite e sovente manipolate abilmente da persone senza scrupoli, in una palude difficile, spietata colma di cadaveri. Quella “guerra fredda” in cui esitò quella “pace” ingessata, ostile e sospettosa, di cui proprio in questi giorni, passati a celebrare il trentennale della caduta del “muro di Berlino” (1989-2019), ricorre la fine. Ma il maestro, che in quella limacciosa storia “reale” non ha esitato a tuffarsi vestito, perfino della toga accademica, ci ha insegnato a ragionare con la nostra testa, ad avere fiducia nel cercare la verità, a volare verso l’alto, a trascendersi. Ebbene, Rocco Scotellaro, può essere assunto come simbolo per l’impegno dell’etnologo verso le classi dominate del contado meridionale e come punto di partenza della sua ricerca sulle culture subalterne.
02. Autore prolifico. Stefano De Matteis ha dedicato ricerche alla cultura popolare, alla religiosità e alla devozione. La Madonna degli esclusi. Indagine sulla cultura rituale di Madonna dell'Arco. Un'indagine su una cultura locale a partire dagli aspetti rappresentativi e performativi di un'azione rituale. D'Auria, Napoli, 2011, è una delle più accurate descrizioni del culto mariano che ancora si realizza in Campania, dedicato alla Madonna dell'Arco. L’autore inizia le sue prime indagini indirizzando la sua attenzione a come il proletariato marginale, le classi popolari e subalterne, si appropriano dello spettacolo teatrale in generale. Dalla “Sceneggiata” al “Varietà, dalle marionette ai burattini. Gli autori sui quali si è più a lungo soffermato: Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo. Ma anche sui miti, sui riti, le feste popolari. La prima sua inchiesta, vede la luce per la curatela di un terzetto di autori: Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somaré. Prefazione di Goffredo Fofi. Follie del varietà. vicende memorie personaggi 1890-1970. Feltrinelli, 1980. Racconta la storia dell'Italia del Ventesimo secoli sogguardata “dal basso”, come lo diffondono i teatri popolari e le filodrammatiche. Ha anche studiato la possibilità di cogliere l’aspetto teatrale in antropo-sociologi antitradizionalisti come il canadese americano Erving Goffman (1922-1982), il californiano di “Frisco” Clifford Geertz (1926-2006) e lo scozzese Victor Turner (1920-1983). Dato che comunemente si pensa che Napoli sia un palcoscenico per eccellenza, in quanto a personaggi, attori e ribalte, ispirati dal luogo stesso, quasi uno stereotipo, De Matteis voleva comparare la rappresentazione di ogni giorno nella capitale partenopea, con tutte le altre forme di recitazione nel mondo. Nel 2015, per Radio 3, ha allestito “Ernesto de Martino tra magia e civiltà” (sei puntate,). Ha diretto la collana di antropologia “Mnemosyne”. Tra i fondatori delle “Opere di Ernesto de Martino” dove ha curato la nuova edizione di Naturalismo e storicismo nell’etnologia. Stefano De Matteis, Marino Niola. Antropologia delle anime in pena. Il resto della storia: un culto del Purgatorio. Argo, Lecce (Collana: Mnemosyne), 1993. Madonna degli esclusi (2011). Napoli in scena. Antropologia della città del teatro. Donzelli, 2012. Mezzogiorno di fede. Il rito tra esperienza, memoria e storia (2013). Le false libertà. Verso la postglobalizzazione. 2017
03. Rita Enrica Librandi, ordinario di Linguistica italiana e di Storia della lingua italiana presso "L'Orientale" di Napoli. Ordinario presso la Facoltà di Lettere dell’Università della Basilicata di cui è stata anche preside. Accademica della Crusca. Docente al Dipartimento di Italiano della “New York University”, alla “York University” (Toronto) e alla University of Western Australia, docente Erasmus, ha tenuto svariate conferenze e seminari in Università europee, del Nord e Sud America.
04. Nelson Mauro Maldonato (Sapri, 1960), medico, psichiatra e professore di Psicologia generale. Ha studiato alla “Sapienza” (Roma), Seconda Università di Napoli, London School of Economics (Londra), École des hautes études (Parigi). È stato recurrent visiting professor alla Duke University (North Carolina), Universidade de São Paulo, Pontifícia Universidade Católica di São Paulo. È autore e curatore di volumi e articoli scientifici in diverse lingue. Direttore scientifico della “Settimana Internazionale della Ricerca” su psicopatologia clinica, alterazioni della coscienza, disturbi del pensiero e della percezione. Ha studiato Filosofia all’Università Federico II di Napoli e conseguito un master all’Università Lateranense di Roma, borsista di ricerca in Epistemologia all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
05. Ai tempi de “La nostalgia nella valigia. Emigrazione di lavoro e disagio mentale”. Marsilio Venezia, 1987, avevo incontrato Amalia Signorelli perchè ero rimasto colpito dal suo saggio sociologico Scelte senza potere: il ritorno degli emigranti nelle zone dell'esodo, firmato con le Colleghe Maria Clara Tiriticco e Clara Rossi. Officina, Roma 1977.
06. Si rimanda a “Capire il disturbo della persona immigrata” Corso biennale inter-USL 1994-1996 – Regione Lazio, presso ASL Roma “B” Via di Torrespaccata 154, Direttore Prof Sergio Mellina – di cui si racconta diffusamente su Pol.It. Psychiatry on line segnatamente in “180×40 -Ricordanze quarta parte. SDSM Progetto impossibile but “Yes we came” 22 ottobre, 2018.
07. Riccardo Di Donato. Treccani. Voce de Martino, Ernesto. Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Storia e Politica (2013). Si raccomanda altresì la lettura telematica, sempre nell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, del Convegno “de Martino antropologo del mondo contemporaneo” – giovedì 26 maggio 2016, ore 15-18.30 – presentato e coordinato da Massimo Bray, Andrea Carlino, Giovanni Pizza.
08. Si è preferito scegliere, per i riferimenti del presente saggio, il testo introdotto da Clara Gallini: Ernesto De Martino. La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud. Quarta edizione: il Saggiatore, Milano 2008.
09. Così la ricorda Livia Crozzoli Aite, una Collega junghiana, moglie di Paolo Aite del gruppo romano di “Nino” Lo Cascio, scomparso nel settembre del 2018. «La paura è di non sapere quando e come mi si proporrà l'ultimo atto della vita. La mia morte, appunto. Sarò viva e sola come lo sono stata al momento in cui venivo al mondo e per la prima volta sentivo l'aria sul viso, anche se non lo ricordo, e mani e corpi mi toccavano e mi avvolgevano in nuove appartenenze. Nell'ora della morte mi troverò davanti a un passaggio ignoto e giocherò per l'ultima volta me stessa nella veste fisica e psichica, a cui mi sono avvezzata durante gli anni trascorsi. Sarò io. Null'altro. Alla nudità della morte posso prepararmi o posso tentare di dimenticarla. Forse mi sarà concesso di dimenticarla, forse no». “Ho scelto di iniziare con queste parole poetiche e intense anche per ricordare Letizia Comba, che avevo conosciuto tanti anni fa ed è morta in un incidente stradale, mentre stavo preparando questa testimonianza. Questo passo ci pone davanti alle due possibili soluzioni di fronte al pensiero della propria morte: tentare di dimenticarla o prepararsi, imparando a conviverci”. Guido Crocetti, Domenica Boaria, Ritorno al punto zero: dall’ascolto terapeutico di Anna malata di cancro, prefazione di Letizia Comba. Borla, Roma 1994, p. 16.
10. Di non molto aiuto ci è stato il Gerhard Rohlfs. Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento. Univ. Basilicata-Potenza. Atti e memorie. Traduzione Elda Morlicchio. Congedo Editore, Galatina (Lecce), 1988. Del vocabolo “scazzicare”, il significato in lingua è: rimuovere, stuzzicare, ravvivare la brace, rassettare un materasso, stimolare l'appetito, anche quello sessuale, mettersi in brio, animarsi, ma anche fissarsi con un pensiero. Più utile la consultazione de "Il dialetto salentino come si parla a Scorrano", di Giuseppe Presicce, vocabolario elettronico del dialetto salentino. “Scazzicare, etimologia: pur nel suo evidente carattere espressivo, il termine ci sembra da mettere in relazione con il verbo "cazzare" (schiacciare, premere) con l'aggiunta del prefisso negativo "s-" e del suffisso iterativo "-icare". Esempi ”Scàzzica lu focu – Ravviva la brace – Lu ndoru m'ave scazzicata la fame – L'odore mi ha stimolato l'appetito – La pìzzica face scazzicare la ggente – La "pìzzica" mette in brio la gente.
11. Ricordiamo, solo di sfuggita, la segnalazione originale di Michele Risso con Wolfgang Boeker, che colpì particolarmente Ernesto de Martino, per aver descritto il Verexungswan, ossia un delirio di affatturazione nei lavoratori italiani emigrati in Svizzera. Si veda Michele Risso,Wolfgang Böker. Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale. Traduzione Virginia De Micco. Curatori Vittorio Lanternari, Virginia De Micco, Giuseppe Cardamone. Liguori, Napoli, 2000.
12. Si veda: Eric David Wittkower and Hazel H Weidman. Magic, witchcraft and sorcery in relation to mental health and mental disorder. Basel, New York, Karger, 1969.
13. Ecco dunque nascere il problema di studiare e definire – su basi scientifiche – fenomeni imponderabili (incredibili) e non altrimenti spiegabili razionalmente, quali la presunta possibilità di governare forze negative o positive e dirigerle da parte di qualcuno verso qualcun altro. Il risultato pratico di tali ricerche ha rivelato, sul piano del comportamento clinico, una disturbanza che il nostro apparato cognitivo definirebbe all’interno dello spettro depressivo/delirante (più o meno grave) del tono dell'umore: dalla somatizzazione, alla distimia, alla nevrosi depressiva, fino alla terribile melané kolé, la bile nera delle scuole ippocratiche.
14. Restano esemplari i lavori transculturali sulla depressione da "stregoneria" o meglio sulle componenti depressive che avvolgono i vissuti di stregamento, affatturazione, malocchio, ecc. Tali Autori riescono a dimostrare in popolazioni di paesi in via di sviluppo (e progresso) l’esistenza di sentimenti di colpa, di autoaccusa, di espiazione, di un Io di gruppo e di un super-Io di gruppo, vale a dire alcuni dei postulati fondamentali della teoria psicoanalitica.
15. Si veda Marie-Cécile et Edmond Ortigues. Œdipe africain. Psychopathologie africaine 1965. L’Harmattan, 1966.
16. Si rammenta che de Martino aveva frequentato ed era stato allievo del prof. Vittorio Macchioro, un archeologo triestino, piuttosto importante, il quale aveva sposato Rosita Parra, una compagna di studi romagnola conosciuta all’Università di Bologna. Veniva a studiare da Cotignola, Ravenna, 54 chilometri. Quella cittadina aveva una qualche rinomanza perchè nella frazione di Barbiano, vicino a Bagnacavallo, per traghettar viandanti sul Lamone, tutti ricordiamo d’aver mandato a memoria … “Romagna solatia, dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta; cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta.”… (Stefano Pelloni, che Pascoli cita come brigante gentiluomo). Ricapitolando, Vittorio e Rosita ebbero due figli e la ragazza, Anna Luisa Macchioro, sposò Ernesto de Martino nel 1935. Si divisero dopo 10 anni nel 1945. Nel 1946 conobbe Vittoria De Palma, da allora compagna della vita.
17. Può essere utile rammentare brevemente la storia delle linnee difensive tedesche e “repubblichine” per rallentare la risalita per l’Italia degli “alleati”. Per sommi capi, la Linea Gustav, (o "linea invernale") ordinata personalmente da Hitler (ottobre 1943), fu fabbricata coi giovanotti italiani rastrellati dalla “Todt” una organizzazione di lavoro coatto inventata da Fritz Todt (OT) per trovare braccia lavoro gratuite. Il nome si riferisce alla lettera "G" nell'alfabeto tedesco. Andava dal Tirreno all’Adriatico, passando per i massicci abruzzesi, dalla foce del Garigliano, a Ortona. Caduta quella, 18 maggio 1944, un po’ più a Nord venne innalzata la Linea Hitler. Infine, per importanza, lunga 320 km, la Linea Gotica o linea verde. Essa andava dal Magra a Pesaro passando per gli Appennini. Il fronte bellico che riguarda de Martino e me, concerne il fiume Senio, dove si svolse la “Battaglia dei tre fiumi” (Senio, Santerno e Sillaro). La lotta fu accanita e lo sfondamento alleato avvenne dopo mesi, il 10 aprile 1945.
18. Bruno Callieri. Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria. XVI, fasc., IV e V Luglio-Ottobre 1955, saggio concernente uno studio sulla Weltuntergangserlebnis di 2 pazienti ricoverati all’Istituto di Clinica delle Malattie nervose e Mentali dell’Università di Roma.
19. Sergio Mellina. Medici e sciamani fratelli separati. Lombardo Editore Roma, 1997. p. 134.
20. Mellina Sergio. Analisi fenomenologica dello spazio antropologico nell’emigrante sardo. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1975, pp. 221-225. Memoria presentata al Convegno “Psicodinamica e Sociodinamica della Migrazione Interna”. Varese 19-20 Ottobre 1974. Atti del Convegno.
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