Un contributo metodologico per un’analisi critica dell’Occidente è sicuramente quello fornito da Ernesto De Martino ne La Terra del Rimoso. In questo libro, che si presenta come il resoconto di una spedizione durata 20 giorni in Puglia, l’autore tenta di gettare nuova luce su un fenomeno a lungo dibattuto e che ormai si può definire completamente scomparso: il tarantismo. Siamo negli anni 60, periodo del boom economico in Italia e tale spedizione aveva lo scopo di fornire un contributo storico-religioso a una terra in cui povertà, analfabetismo e vita magico-religiosa stridevano con l’affermarsi di una moderna società post-industriale. La spedizione condotta con l’ausilio del neuropsichiatra Giovanni Jervis, la psicologa Letizia Jervis-Comba, l’etnomusicologo Diego Carpitella, l’economista Amalia Signorelli e l’assistente sociale Vittoria De Palma, si è svolta in tre fasi. Una prima in cui si sono raccolti gli strumenti adeguati alla raccolta dei dati in terra Salentina, una seconda consistente nello studio sul campo e una terza di stesura dei dati raccolti; tutto ciò nel quadro generale di un’analisi storico-religiosa del fenomeno.
Nelle note introduttive l’autore fa una premessa che gli consentirà di districarsi tra le varie prospettive interpretative che dal Medioevo ai giorni nostri hanno tentato di fornire una spiegazione al fenomeno pugliese. Secondo De Martino, tali spiegazioni (con un esplicito richiamo a Levi-Strauss) risulterebbero riduttive poiché mancherebbero delle ragioni per cui gli stessi istituti simbolici dell’Occidente si siano affaccendati così tanto nello studio del tarantismo: secondo De Martino le interpretazioni dello psichiatra, dell’etnologo, dell’antropologo, dello scienziato dovrebbero divenire esse stesse oggetto di interpretazione critica. Dunque, se l’Occidente ha prodotto tali discipline culturalmente condizionate, cosa spinge queste ultime all’interesse e al confronto con nicchie culturali (in questo caso il tarantismo) così “arcaiche” e allo stesso tempo così diverse dalla propria? Perché l’Occidente ha prodotto una figura come l’etnologo? In questo modo, anche l’Occidente come cultura storicamente determinata inizia ad essere oggetto di analisi critica palesando i suoi limiti. Ad esempio, l’interpretazione di Levi Strauss riportata da De Martino è che “se l’Occidente ha prodotto degli etnografi è perché un cocente rimorso doveva tormentarlo, obbligandolo a confrontare la sua immagine a quella di società diverse, nella speranza di vedervi riflesse le stesse tare o di averne un aiuto per spiegarsi come le proprie si fossero sviluppate… L’etnografo si può tanto poco disinteressare della sua civiltà e declinare ogni responsabilità delle sue colpe che la sua stessa esistenza di etnografo è incomprensibile se non come tentativo di riscatto: la condizione di etnografo è simbolo di espiazione.”3 De Martino, dal canto suo, prosegue interpretando tale movimento come un rovesciamento del viaggio mitico nell’aldilà che maghi, sciamani, iniziandi e mistici di tutte le civiltà religiose compivano per recuperare quella presenza sempre sul punto di smarrirsi, solo che in questo caso il viaggio etnografico non si configurava come ritiro schizoide da un mondo che lo respinge, ma come una presa di coscienza di certi limiti umanistici della propria civiltà cercando “di andare al di là non dell’umano in generale ma della propria circoscritta umanità messa in causa da una certa congiuntura storica: presa di coscienza e stimolo che comportano un viaggiare non in senso mitico, ma in quello di raggiungere sistemi di scelte culturali che sono semplicemente diversi dal nostro, nel quale siamo nati e cresciuti.”4 Allo stesso tempo De Martino, però, mette in guardia il lettore da un tale relativismo poiché il mondo in cui siamo nati e cresciuti non è un mondo che abbiamo scelto, ma un mondo di cui volenti o nolenti ne siamo gli eredi. In questo senso, un atteggiamento critico non sarebbe da avere solo nei confronti degli istituti conformi all’Umanesimo Occidentale ma anche nei confronti del numinoso e di una certa ideologia reazionaria, prodotti anticonformisti dello stesso Umanesimo. “Possiamo valutare tutte le proposte che l’uomo ha avanzato per vivere in società: ma a patto di non mettere mai fra parentesi la proposta umanistica nella quale siamo dentro e che è nostro compito avanzare incessantemente, quali che siano gli incontri del nostro viaggiare.”5
Premesso ciò, e seguendo tale impostazione, il libro comincia con una raccolta dati derivante dall’osservazione del rituale. Il primo scoglio da superare è stato quello delle interpretazioni deterministiche medico/psichiche del tarantismo: ossia da un lato come fenomeno riducibile al morso reale di una tarantola (in questo caso parlando di aracnidismo), dall’altro come fenomeno da ricondurre a una qualche forma di disordine psichico. Il primo caso con cui l’equipe si confrontò fu quello di Maria di Nardò, una giovane sposa di 29 anni che ripeteva l’esorcismo ormai dall’età di 20, anno del primo morso. Lo scenario del rito, svoltosi a domicilio, era costituito da un lenzuolo disteso per terra su cui la tarantata svolgeva la classica danza coreutico-musicale, un cestino per le offerte in un angolo della stanza e immagini colorate di S. Pietro e S. Paolo sparse un po' ovunque. La stanza, mal areata, era satura di odori sgradevoli. Attorno al lenzuolo bianco, l’orchestrina suonava la tarantella al classico ritmo incalzante.
Il rito si svolgeva in due fasi: una prima in cui la donna, inizialmente supina sul lenzuolo bianco, al suono della tarantella iniziava a sbattere i talloni e a ruotare la testa a destra e sinistra come se l’onda sonora si propagasse per tutto il corpo; in questa fase la danzatrice viveva la sua identificazione con la tarantola, asservendosi ad essa come se in quel corpo ci fosse realmente una bestia che la dominasse. A questa prima fase di identificazione, ne seguiva una seconda che consisteva in un distacco dal ragno con cui la donna, attraverso la danza frenetica, pareva lottare: “la tarantata si levava in piedi di scatto, e percorreva più volte il cerimoniale con un vibrante saltellato semplice o doppio, eseguito per qualche tratto anche da ferma, e componendo di tanto in tanto alcune note figure della tarantella tradizionale, mediante un fazzoletto colorato che aveva tra le mani.”6 Il ciclo coreutico-musicale durava non più di un quarto d’ora, fin quando, cioè, la tarantata si lasciava vertiginosamente cadere. Dopo una pausa di circa dieci minuti, il ciclo riprendeva. Il rito giornaliero durava fino le nove di sera circa, per poi riprendere il mattino seguente finchè la donna non riceveva la grazia da San Paolo. Conclusosi il rito domiciliare, il giorno seguente, la donna, effettuava un pellegrinaggio nella cappella di S. Pietro e S. Paolo a Galatina, ove, riproducendo una piccola parte del ciclo coreutico, rendeva grazie ai santi bevendo dell’acqua dal pozzo adiacente alla cappella e facendo ad essa un’offerta. Durante la spedizione, furono circa 21 le persone che l’equipe si trovò ad osservare. Per quanto breve fosse il periodo a creare un’immagine definita del tarantismo, questo comunque permise all’equipe di cogliere delle ridondanze e delle differenze tra i vari tarantati. In primo luogo, De Martino dimostrò dalla raccolta dati come, anche se ci fossero stati casi di morso reale del ragno, questi sarebbero stati comunque inglobati nel simbolismo tarantico. Di fatto, dopo aver chiesto ai tarantati quando avessero subito il primo morso, non solo questi nella maggior parte dei casi rispondevano, per esempio, a seguito di un sogno di scorzoni (Carmela di S. Pietro Vernotico), o dopo la morte del padre (Pantalea di Giuggianello), o in seguito a un’offesa recata a S. Paolo (Rita di Alezio), ma anche quando il morso del ragno c’era realmente stato, come nel caso di Pietro di Nardò, questi, dopo aver effettuato le cure mediche, riscattavano comunque tale sofferenza con il canonico esorcismo musicale. Ciò renderebbe obsoleta l’interpretazione di un reale morso dell’aracnide come causa del malessere a monte delle interpretazioni mediche del fenomeno, anche se De Martino, sottoponendo a un’analisi storica tale interpretazione giustifica questa prospettiva come il risultato di una conoscenza (probabilmente derivante dalle descrizioni presenti nei bestiari medioevali) dei reali effetti del morso da Lycosa Tarantula o da Latrodectus. Effettivamente i tarantati sembravano mimare quei sintomi relativi alla particolare specie di ragno (o scorpione) da cui riferivano di essere stati morsi. L’autore, inoltre, non si sentiva nemmeno di escludere la possibilità che in epoche passate, la prevalenza di tali specie di ragni in quel territorio non fosse effettivamente maggiore. Se dunque l’ipotesi medicalista di un reale morso del ragno risultava essere una spiegazione parziale con anch’essa delle ragioni storiche, rimaneva da passare al vaglio la parte psicologica. Se alla base dell’interpretazione medica vi è una causa di un malfunzionamento nel corpo, alla base dell’interpretazione psicologica vi è un disadattamento della personalità all’ambiente. Le interpretazioni fornite da quest’ultima prospettiva sono quelle di una cultura che, letta attraverso le lenti della nosografia classica, risulterebbe essere una manifestazione delirante di massa. Assistendo al rituale, infatti, era molto semplice notare i classici segni della schizofrenia descritti dai manuali di psichiatria (allucinazioni, deliri, disorganizzazioni del pensiero). Il problema è che questi segni/sintomi emergevano solo all’avvicinarsi del periodo estivo con una cadenza annuale, in particolare del 29 giugno. Questo periodo combaciava con l’annuale ciclo di raccolta dei campi. È utile ricordare come il sistema economico salentino fosse chiuso e molto più simile alle politiche feudali che a quelle liberiste che andavano affermandosi nel resto d’Italia. Fatto sta che durante il restante periodo dell’anno, tarantate e tarantati raramente manifestavano quei malesseri tipici che sarebbero poi stati esorcizzati dal rituale durante il periodo estivo. Questo, non solo faceva decadere il presupposto di una psicopatologia di massa, ma avvalorava l’ipotesi secondo cui il simbolismo della taranta operava da orizzonte mitico-culturale entro cui venivano proiettati i malesseri derivanti da quei momenti critici dell’esistenza (in particolare l’età pubero-adolescenziale) in cui il primo morso era, piuttosto, il ri-morso di un cattivo passato che tornava a manifestarsi sotto forma di sintomo cifrato. A confermare ulteriormente questa ipotesi era il curioso fatto che ogni tarantata/o seguiva un proprio ritmo che poteva essere melanconico, aggressivo o addirittura avere le caratteristiche di un lamento funebre. Prima che il ciclo cominciava, infatti, il coro esplorava il ritmo che scazzicasse (stimolasse) la tarantata a ballare. Inoltre, il fenomeno, come già era accaduto per il caso di Pietro di Nardò, morso realmente dall’aracnide, operava come orizzonte anche nei casi in cui il soggetto era a tutti gli effetti psicotico, chiaramente in questo caso con risultati modesti (Giorgio di Galàtone).
Svestito il tarantismo del determinismo clinico Occidentale, all’autore non rimaneva che approfondire le ragioni storiche per cui tale simbolismo si fosse reso autonomo e come negli anni questo abbia reagito ai cambiamenti sociali. In questo caso De Martino si servì di tutta quella letteratura che dal Medioevo alla seconda metà del 900 si era occupata del fenomeno. Le interpretazioni del Baglivi, di Epifanio Ferdinando, del Kircher, di Nicola Caputo e del Serao spinsero l’etnologo napoletano ad addentrarsi in questo percorso dantesco nei meandri dell’Umanesimo Occidentale.
La prima documentazione dell’esorcismo musicale risaliva al 1362 e si trattava del Sertum papale de venenis, una sorta di ricettario medico per le cure da avvelenamento. In tale documento ci si chiedeva come mai coloro che fossero stati morsi dalla tarantola trovavano ristoro in canzoni e melodie diverse. Una tale questione aveva fornito un assist non solo a interpretazioni di stampo scientifico di cui si è già fatta menzione, ma anche a letture di stampo mistico. Di fatto per il Kircher, strenuo oppositore della cultura conformistica del 600, “tutto ciò che di raro, di nascosto, di paradossale, di prodigioso e di occulto colpisse le orecchie, gli occhi, la mente diventava immediatamente meritevole di raccolta, di osservazione, di ingegnosa imitazione, di stimolo al ritrovamento di occulte corrispondenze. […] Nel Kircher il ponte che aveva mediato il passaggio dalla bassa magia cerimoniale alla baconiana sapienza come potenza serviva ora per compiere l’inverso raccordo col meraviglioso popolare e plebeo, e per giustificare la validità delle credenze magiche popolari mediante le categorie mentali della magia naturale.”7 Insomma, il tarantismo veniva ridotto a oggetto di contesa nella lotta tra due ideologie contrapposte del periodo Illuministico: magia naturale e naturalismo scientifico.
Ma il tarantismo non fu solo oggetto di contesa ideologica tra due forze che si battevano per un qualche dominio di Verità in un contesto culturalmente condizionato quale era l’Illuminismo, ma fu anche oggetto di conquista da parte del cattolicesimo. Durante le osservazioni nella cappella di San Paolo a Galatina, De Martino e il resto dell’equipe notarono come la danza dei tarantati durante l’esorcismo coreutico-musicale fosse molto più forzata e artificiosa di quella condotta a domicilio. Inoltre, l’introduzione della festività all’interno del calendario giudaico-cristiano (29 giugno) e la sovrapposizione del tarantismo al mito di San Paolo fecero sorgere delle rilevanti contraddizioni: per esempio, l’ambiguità della figura del santo, che in molti tarantati rappresentava sia la causa del morso che la cura dal morso; e ancora, il fatto che tali manifestazioni non fossero più solo da ricondurre all’avvicinarsi del periodo di raccolta, con tutto ciò che questo simbolicamente suscitava nel popolo salentino, ma all’approssimarsi della festa di San Paolo. Anche in questo caso l’antropologo napoletano aveva ricercato tali ragioni nell’atteggiamento colonialista del cristianesimo. In particolare, De Martino, facendo riferimento alle radici greco-islamiche del territorio meridionale e alla storica lotta del cristianesimo alle orge mendaniche e ai culti dionisiaci, risalì alle origini di tale conflitto. Di fatto, le radici simboliche del tarantismo non erano da ricercare nel simbolismo giudaico-cristiano ma derivavano, per esempio, dal simbolismo dell’oistros (mania) rappresentato dal mito di Io, vittima di amore precluso nei confronti di Zeus e dell’implacabile gelosia di Hera; Io venne trasformata in vacca, destinata a una cieca fuga senza menta sospinta dall’ipnotica melodia di Argo arrestando la sua corsa solo in procinto di uno scenario arboreo e acquatico. Fra le motivazioni delle crisi esistenziali a cui il tarantismo forniva orizzonte, infatti, il tema dell’amore precluso aveva grande rilevanza, soprattutto nelle giovani fanciulle che si apprestavano a diventare donne, ma non solo: Nicola Caputo, medico leccese, riferiva che spesso la danza dei tarantati si arrestava all’ombra di un albero o in un frutteto, mentre De Martino colse il lascito di tale tradizione nella presenza di rami, foglie e specchi, nell’allestimento dell’abitazione entro cui avvenivano i rituali coreutico-musicali. Infine, il tema della possessione animale: Io è trasformata in vacca, immagine che raffigurava il tafano che tormenta il bestiame incalzandolo col suo pungiglione.
Altra traccia simbolica individuata da De Martino risale al simbolismo dell’aioresis. Il mito in questione stavolta era quello facente riferimento alla figlia di Icaro, Erigone, che, in seguito all’uccisione del padre da parte dei vignaiuoli, si impiccò ad un albero dopo averne ritrovato il cadavere. “Dopo la morte di Erigone la mania suicida guadagna le vergini attiche, che corrono folli a impiccarsi, finchè l’oracolo di Apollo predice che la collera del nume si sarebbe placata e i suicidi in massa avrebbero avuto termine se fosse stata istituita la festa delle aiora, cioè l’altalena delle vergini (o l’oscillare di pupattole sospese ai rami dell’albero).”8 Le aiora si festeggiavano durante il periodo primaverile quando i campi cominciavano a germogliare i propri frutti; in questo clima di coloritura agraria si liquidavano i debiti contratti col mondo dei morti, si assicuravano fecondità e fortuna per l’anno che sopravveniva. Secondo De Martino, se si inquadra il mito come rischio esistenziale delle adolescenti, per esempio, di non effettuare il distacco dall’immagine paterna sostituendola con quella dello sposo, seguendo una certa lettura psicoanalitica in un contesto culturalmente condizionato da povertà, analfabetismo e in cui le donne non avevano molte possibilità di deviare dalla rigida trama esistenziale che veniva loro imposta fin da piccole, non solo diviene ancora una volta chiara la funzione del mito come sublimazione e reintegrazione della presenza in un ordine culturale dato, ma ci si accorgerà che questo era in netto contrasto con il simbolismo giudaico-cristiano, strenuo oppositore dei culti dionisiaci.
Tornando alla ricostruzione storico-religiosa del tarantismo, dal contributo di De Martino e dell’equipe, che in quei 20 giorni assistettero a quello che ai loro occhi sembrava un mondo onirico ormai sulla via del tramonto, è emersa l’immagine di un sistema Occidentale ossessionato dal confronto con le alterità. Tale ossessione ha delle caratteristiche che rispondono a un principio distruttivo di quella stessa autorità con cui si interpretavano brutalmente quei mondi “arcaici” e radicalmente altri. Infatti, le conclusioni dell’antropologo napoletano riguardo la morte del tarantismo non sono solo da attribuire alla colonizzazione di un fenomeno che poteva minacciare il sistema di orizzonti giudaico-cristiane, ma rispondevano a un principio di autorità presente nelle varie interpretazioni ideologiche dell’Illuminismo, che, per quanto apparentemente in contrasto, risultavano essere il risultato dello stesso Positivismo Umanista. Oggi quello stesso Umanesimo, ormai in crisi, è chiamato a confrontarsi con quella radicale alterità inumana al centro delle proprie categorie simboliche e di cui, secondo l’autore, si dovrà prendere coscienza se non si vorrà sprofondare in un caotico abisso catastrofico e senza possibilità di riscatto.
1 G. Didino, Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani, Minimum fax, Roma, 2020.
2 M. Fisher, The Weird and the Eerie, Minimum fax, Roma, 2018.
3 E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano, 2015, p.41.
4 Ivi, p.41.
5 Ivi, p.42.
6 Ivi, p.88.
7 Ivi, p.269.
8 Ivi, p.231.
Il tarantismo è un fenomeno
Il tarantismo è un fenomeno dionisiaco. Non dimentichiamo Nietzsche e la nascita della tragedia dallo spirito della musica. La tragedia è che c’è un godimento collettivo transindividuale. E’ un godimento non fallico, prettamente femminile, che non rientra negli schemi familiari, tipicamente edipici. Lacan lo chiamava godimento dell’Altro, non sapendo dire di più. In effetti è difficile dire di più perché si tratta di un godimento non riducibile a un concetto, come quello sublimato dal fallo.