Lo scacco – figura speculare di un assetto epistemico – viene espulso dall’ordine del discorso perché veicola dati incompatibili con la coerenza interna di una teoria.
Mario Galzigna – Il mondo nella mente.
Mario Galzigna – Il mondo nella mente.
L’interrogativo che attraversa questo chiaro lavoro di Mario Galzigna, epistemologo e docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia, è relativo all’aporia fertile della duplicità intrinseca ad ogni Soggetto (sia esso singolo, teoria, istituzione): quella di essere un’istanza irriducibile (soggetto costituente) e quella di essere un’istanza influenzata da dimensioni altre – culturali, sociali, storiche, relazionali, inconsce – il cosiddetto soggetto costituito. Il soggetto e, in generale, ogni istanza che si costituisce in rapporto ad una realtà altra da sé, come luogo in cui si scontrano libertà, potenzialità intrinseche irriducibili ma anche costrizioni di varia natura. La consapevolezza di tale ineliminabile contraddizione può diventare, secondo l’autore, particolarmente utile per chi si occupa a vario titolo della cura dell’altro, evitando di cadere nella tentazione di un facile riduzionismo.
La rinuncia alla pretesa di un’unità dell’Io, infatti, dovrebbe andare di pari passo con una rinuncia alla pretesa di una normatività del lavoro epistemologico sul piano scientifico, sottolineando la necessità di individuare onestamente, nell’ambito delle varie discipline del sapere umano, la soglia che riescono a raggiungere nel loro configurarsi come sapere. Si ritiene importante riuscire a specificare e valorizzare la qualità scientifica del discorso di ogni disciplina, senza ritenere il raggiungimento dello stadio della formalizzazione (tipico, ad esempio, della matematica) assolutamente indispensabile per conferirle dignità epistemologica. Si correrebbe il rischio, altrimenti, di omogeneizzare e forzare innaturalmente i diversi saperi in un criterio di dimostrabilità eccessivamente rigido che, valido per certe (poche) discipline umane, non sarebbe affatto rispettoso nei confronti della storicità di tante discipline, che pure hanno molto da dire sull’esperienza umana.
Cercando di andare oltre alla sterile contrapposizione tra saperi forti – che si affidano rigidamente ad un’epistemologia della falsicabilità – e tutti gli altri, l’autore sottolinea l’importanza di affidarsi ad un’ottica di dialogo, nella consapevolezza del ruolo giocato da elementi storici, filosofici e psicologici nell’evoluzione di una scienza. Compito dell’epistemologo sarebbe quindi quello di ampliare lo spazio di incontro tra le scienze e favorirne il confronto, perché la forza di un sapere si mostra non solo nella possibilità di una falsificabilità dei suoi assunti ma anche nel coraggio di accettare il dialogo e lo scontro con altri saperi, tollerando la prospettiva di un proprio ridimensionamento, o fallimento.
Nello specifico, l’Autore sottolinea l’importanza della pratica quotidiana e dell’esempio singolo in discipline come la medicina e la psichiatria clinica, che, occupandosi della cura dell’essere umano, devono essere fondate anche su esigenze di carattere etico, inscindibili dalla loro pratica. Sarebbe impossibile quindi, per questi saperi, separare nettamente le “questioni fattuali” da quelle etiche e pratiche (che tengono conto anche del contesto storico, psicologico, culturale) come pretenderebbero quelle correnti di pensiero che danno estrema importanza alla verifica sperimentale degli assunti teorici attraverso “esperimenti cruciali” decontestualizzati. Secondo Galzigna, nella struttura epistemologica delle scienze umane le implicazioni pratiche ed etiche devono occupare un posto importante, pena il rischio di ridurre la conoscenza dell’uomo e del suo disagio ad una serie, per quanto complessa, di considerazioni astratte con forti implicazioni logiche. L’esperienza di ogni giorno, quindi, può diventare un terreno valido a partire dal quale costruire un sapere sull’uomo, e non come campo finale su cui decretare la validità o meno, attraverso gli esperimenti, di una teoria.
Viene così proposta una concezione della verità scientifica come costruibile a partire da procedimenti sia induttivi che deduttivi, come integrazione dei dati empirici e di quelli soggettivi (o storico-culturali), che si proponga di trovare delle leggi relative, probabilistiche, sempre aperte alla possibilità di cambiamento. Consapevole inoltre della problematicità dell’osservazione, per le influenze ambientali, storiche, psicologiche, antropologiche del soggetto osservante ormai assodate anche in saperi cosiddetti “forti”, Galzigna invita a rivalutare, in particolare all’interno delle scienze umane come la psichiatria e la psicologia clinica, l’importanza del dato empirico grezzo, prima che processi di classificazione e di reificazione lo inseriscano all’interno di teorie già consolidate, sempre presenti nel soggetto osservatore. In questo senso si auspica l’utilizzo, in chi osserva, di una sorta di vuoto mentale, al fine di far spazio all’oggetto e ai fatti empirici prima che entrino in contatto con le teorie di riferimento dell’osservatore, favorendo l’accoglimento di una congerie di dati che possono anche essere molto discordanti da quelle. Atteggiamento già propugnato dal pensiero orientale (lo Zen, in particolare) e da alcuni pensatori anche all’interno della psicoanalisi, primo tra tutti Bion.
Un modo nuovo di conoscere l’altro (il paziente, la persona che soffre), ma anche un modo nuovo di pensare sé stessi nel processo di conoscenza, che non va mai disgiunto da questioni etiche quando l’oggetto del conoscere è l’essere umano. Viene quindi proposta, per queste discipline, un’ epistemologia della connessione e del dialogo, sempre pronta al confronto, al cambiamento o all’ampliamento delle proprie conoscenze.
A tal scopo andrebbe valorizzato lo scambio da parte del professionista della salute mentale all’interno di ambienti fuori dall’istituzione, come le chat e i gruppi di discussione sul web. Luoghi in cui il dialogo tra i vari attori si instaura in modo informale, senza tenere troppo in conto la teorizzazione comunemente accettata, lasciando emergere l’evento, inteso come insieme di elementi e fatti irriducibili al sapere ufficiale-istituzionale e quindi capaci di metterlo in crisi (e per questo spesso negletti) ma anche, ovviamente, di arricchirlo e di farlo evolvere. In questi ambienti di discussione informale possono così facilmente emergere concetti non inscrivibili nelle teorie correnti, perché viene offerto ai partecipanti alla discussione un terreno su cui confrontarsi svincolati dai doveri formali verso l’istituzione e le teorie di riferimento, cosa che stimola momenti di profonda connessione e di dialogo autentico tra i saperi e le pratiche, presupposto di un’integrazione effettiva dei vari paradigmi della cura.
L’idea dell’importanza di modificare le logiche istituzionali convenzionalmente accettate al fine di approntare una cura centrata sul soggetto che soffre, e non su teorie astratte, viene ripresa in varie sezioni del libro. In particolare, essa viene declinata come necessità di una riforma dei luoghi di cura (ospedali, CSM: di cui l’autore riferisce in un capitolo del libro in modo molto interessante, per esperienza diretta) troppo organizzati in senso aziendalistico e verticistico, cosa che impedisce la possibilità di una partecipazione democratica dei vari attori coinvolti nella cura e che rende arduo, per motivi di contenimento dei costi, implementare forme di trattamento a medio-lungo termine basate sulla qualità della relazione piuttosto che sull’applicazione di protocolli definiti a priori per tutti i pazienti (e quindi riduzionistici).
L’ottica anti-istituzionale viene declinata anche in riferimento al soggetto curante e prende la forma sia di quella sospensione del giudizio, delle teorie conosciute e dei riferimenti socio-culturali abituali prima citati, sia dell’attuazione di un dispositivo di cura (setting) basato su una relazione più comune, più umana, meno autoritaria, in cui il cambiamento è un aspetto che riguarda entrambi i protagonisti della cura, il clinico e il paziente. Solo così è possibile incontrare autenticamente l’altro, evitando la facile reificazione delle categorie diagnostiche psichiatriche e la cronicizzazione delle cure. Non bisogna infatti dimenticare che è stata proprio l’istituzione intesa nel suo aspetto più retrivo di coercizione e reclusione-isolamento a determinare l’aspetto di cronicità e incurabilità dei cosiddetti malati di mente, isolandoli sempre più dal mondo e da un contatto umano con sé stessi e con l’altro, e rendendo sempre più difficile il loro reinserimento. Per non citare poi il legame perverso che si creava tra le istituzioni psichiatriche e i ricoverati che, utilizzati come forza lavoro a basso costo, diventavano un mezzo di sostentamento necessario per la sopravvivenza dell’istituzione stessa, che perdeva ovviamente l’interesse a favorirne l’emancipazione e la dimissione. Ci si può chiedere effettivamente con l’autore: quanto, una tale dinamica, non può essere ritrovata ancora oggi in diversi importanti contenitori istituzionali della cura?
Occorre quindi, è il parere di Galzigna, ripensare coraggiosamente le forme della cura quando queste non sono efficaci, senza nascondersi dietro posizioni ideologiche di difesa della tradizione storica di certi dispositivi di cura che non sono mai dati ab origine, ma sempre prodotti e influenzati dalla cultura e dalla loro specifica storia. È proprio la dimensione storica, quindi, che va rivalutata per comprendere meglio sia i sistemi di cura sia i pazienti che ad essi afferiscono, e per rivitalizzare il sapere e le sue pratiche in ambito psichiatrico.
Dice in proposito l’autore: <<Scavare la superficie della struttura – per meglio storicizzarla, per meglio coglierne la pregnanza semantica e la coerenza interna – significa spiare le sue increspature, mettere a fuoco la sua cifra individuale, svelare le sue zone d’ombra e le sue dimensioni implicite riscoprendo, dietro la sua maschera irrigidita, il fluire segreto del desiderio e l’attesa inespressa del cambiamento>> (p.115).
Quello che Galzigna propone sulla base della sua formazione e della sua esperienza come epistemologo, esercitata anche nell’ambito della clinica psichiatrica, è un allentamento dei vincoli interni all’Io del curante e del suo bagaglio teorico di riferimento – ma anche dell’istituzione psichiatrica in senso più ampio – per entrare meglio in contatto con l’altrui complessità e contraddittorietà, elementi che, invece, la costruzione e il consolidamento dei vari paradigmi tendono gradualmente ma inesorabilmente a ridurre. Ciò al fine di poterli riconoscere ed accettare più facilmente nell’altro, inteso come paziente in cura ma anche come teoria o pratica clinica differente.
Solo così, cedendo ad ogni tentazione unificatrice e fondativa si può tentare di cogliere, di comprendere e di dare una risposta adeguata alla complessità della psiche e dei suoi disagi.
La rinuncia alla pretesa di un’unità dell’Io, infatti, dovrebbe andare di pari passo con una rinuncia alla pretesa di una normatività del lavoro epistemologico sul piano scientifico, sottolineando la necessità di individuare onestamente, nell’ambito delle varie discipline del sapere umano, la soglia che riescono a raggiungere nel loro configurarsi come sapere. Si ritiene importante riuscire a specificare e valorizzare la qualità scientifica del discorso di ogni disciplina, senza ritenere il raggiungimento dello stadio della formalizzazione (tipico, ad esempio, della matematica) assolutamente indispensabile per conferirle dignità epistemologica. Si correrebbe il rischio, altrimenti, di omogeneizzare e forzare innaturalmente i diversi saperi in un criterio di dimostrabilità eccessivamente rigido che, valido per certe (poche) discipline umane, non sarebbe affatto rispettoso nei confronti della storicità di tante discipline, che pure hanno molto da dire sull’esperienza umana.
Cercando di andare oltre alla sterile contrapposizione tra saperi forti – che si affidano rigidamente ad un’epistemologia della falsicabilità – e tutti gli altri, l’autore sottolinea l’importanza di affidarsi ad un’ottica di dialogo, nella consapevolezza del ruolo giocato da elementi storici, filosofici e psicologici nell’evoluzione di una scienza. Compito dell’epistemologo sarebbe quindi quello di ampliare lo spazio di incontro tra le scienze e favorirne il confronto, perché la forza di un sapere si mostra non solo nella possibilità di una falsificabilità dei suoi assunti ma anche nel coraggio di accettare il dialogo e lo scontro con altri saperi, tollerando la prospettiva di un proprio ridimensionamento, o fallimento.
Nello specifico, l’Autore sottolinea l’importanza della pratica quotidiana e dell’esempio singolo in discipline come la medicina e la psichiatria clinica, che, occupandosi della cura dell’essere umano, devono essere fondate anche su esigenze di carattere etico, inscindibili dalla loro pratica. Sarebbe impossibile quindi, per questi saperi, separare nettamente le “questioni fattuali” da quelle etiche e pratiche (che tengono conto anche del contesto storico, psicologico, culturale) come pretenderebbero quelle correnti di pensiero che danno estrema importanza alla verifica sperimentale degli assunti teorici attraverso “esperimenti cruciali” decontestualizzati. Secondo Galzigna, nella struttura epistemologica delle scienze umane le implicazioni pratiche ed etiche devono occupare un posto importante, pena il rischio di ridurre la conoscenza dell’uomo e del suo disagio ad una serie, per quanto complessa, di considerazioni astratte con forti implicazioni logiche. L’esperienza di ogni giorno, quindi, può diventare un terreno valido a partire dal quale costruire un sapere sull’uomo, e non come campo finale su cui decretare la validità o meno, attraverso gli esperimenti, di una teoria.
Viene così proposta una concezione della verità scientifica come costruibile a partire da procedimenti sia induttivi che deduttivi, come integrazione dei dati empirici e di quelli soggettivi (o storico-culturali), che si proponga di trovare delle leggi relative, probabilistiche, sempre aperte alla possibilità di cambiamento. Consapevole inoltre della problematicità dell’osservazione, per le influenze ambientali, storiche, psicologiche, antropologiche del soggetto osservante ormai assodate anche in saperi cosiddetti “forti”, Galzigna invita a rivalutare, in particolare all’interno delle scienze umane come la psichiatria e la psicologia clinica, l’importanza del dato empirico grezzo, prima che processi di classificazione e di reificazione lo inseriscano all’interno di teorie già consolidate, sempre presenti nel soggetto osservatore. In questo senso si auspica l’utilizzo, in chi osserva, di una sorta di vuoto mentale, al fine di far spazio all’oggetto e ai fatti empirici prima che entrino in contatto con le teorie di riferimento dell’osservatore, favorendo l’accoglimento di una congerie di dati che possono anche essere molto discordanti da quelle. Atteggiamento già propugnato dal pensiero orientale (lo Zen, in particolare) e da alcuni pensatori anche all’interno della psicoanalisi, primo tra tutti Bion.
Un modo nuovo di conoscere l’altro (il paziente, la persona che soffre), ma anche un modo nuovo di pensare sé stessi nel processo di conoscenza, che non va mai disgiunto da questioni etiche quando l’oggetto del conoscere è l’essere umano. Viene quindi proposta, per queste discipline, un’ epistemologia della connessione e del dialogo, sempre pronta al confronto, al cambiamento o all’ampliamento delle proprie conoscenze.
A tal scopo andrebbe valorizzato lo scambio da parte del professionista della salute mentale all’interno di ambienti fuori dall’istituzione, come le chat e i gruppi di discussione sul web. Luoghi in cui il dialogo tra i vari attori si instaura in modo informale, senza tenere troppo in conto la teorizzazione comunemente accettata, lasciando emergere l’evento, inteso come insieme di elementi e fatti irriducibili al sapere ufficiale-istituzionale e quindi capaci di metterlo in crisi (e per questo spesso negletti) ma anche, ovviamente, di arricchirlo e di farlo evolvere. In questi ambienti di discussione informale possono così facilmente emergere concetti non inscrivibili nelle teorie correnti, perché viene offerto ai partecipanti alla discussione un terreno su cui confrontarsi svincolati dai doveri formali verso l’istituzione e le teorie di riferimento, cosa che stimola momenti di profonda connessione e di dialogo autentico tra i saperi e le pratiche, presupposto di un’integrazione effettiva dei vari paradigmi della cura.
L’idea dell’importanza di modificare le logiche istituzionali convenzionalmente accettate al fine di approntare una cura centrata sul soggetto che soffre, e non su teorie astratte, viene ripresa in varie sezioni del libro. In particolare, essa viene declinata come necessità di una riforma dei luoghi di cura (ospedali, CSM: di cui l’autore riferisce in un capitolo del libro in modo molto interessante, per esperienza diretta) troppo organizzati in senso aziendalistico e verticistico, cosa che impedisce la possibilità di una partecipazione democratica dei vari attori coinvolti nella cura e che rende arduo, per motivi di contenimento dei costi, implementare forme di trattamento a medio-lungo termine basate sulla qualità della relazione piuttosto che sull’applicazione di protocolli definiti a priori per tutti i pazienti (e quindi riduzionistici).
L’ottica anti-istituzionale viene declinata anche in riferimento al soggetto curante e prende la forma sia di quella sospensione del giudizio, delle teorie conosciute e dei riferimenti socio-culturali abituali prima citati, sia dell’attuazione di un dispositivo di cura (setting) basato su una relazione più comune, più umana, meno autoritaria, in cui il cambiamento è un aspetto che riguarda entrambi i protagonisti della cura, il clinico e il paziente. Solo così è possibile incontrare autenticamente l’altro, evitando la facile reificazione delle categorie diagnostiche psichiatriche e la cronicizzazione delle cure. Non bisogna infatti dimenticare che è stata proprio l’istituzione intesa nel suo aspetto più retrivo di coercizione e reclusione-isolamento a determinare l’aspetto di cronicità e incurabilità dei cosiddetti malati di mente, isolandoli sempre più dal mondo e da un contatto umano con sé stessi e con l’altro, e rendendo sempre più difficile il loro reinserimento. Per non citare poi il legame perverso che si creava tra le istituzioni psichiatriche e i ricoverati che, utilizzati come forza lavoro a basso costo, diventavano un mezzo di sostentamento necessario per la sopravvivenza dell’istituzione stessa, che perdeva ovviamente l’interesse a favorirne l’emancipazione e la dimissione. Ci si può chiedere effettivamente con l’autore: quanto, una tale dinamica, non può essere ritrovata ancora oggi in diversi importanti contenitori istituzionali della cura?
Occorre quindi, è il parere di Galzigna, ripensare coraggiosamente le forme della cura quando queste non sono efficaci, senza nascondersi dietro posizioni ideologiche di difesa della tradizione storica di certi dispositivi di cura che non sono mai dati ab origine, ma sempre prodotti e influenzati dalla cultura e dalla loro specifica storia. È proprio la dimensione storica, quindi, che va rivalutata per comprendere meglio sia i sistemi di cura sia i pazienti che ad essi afferiscono, e per rivitalizzare il sapere e le sue pratiche in ambito psichiatrico.
Dice in proposito l’autore: <<Scavare la superficie della struttura – per meglio storicizzarla, per meglio coglierne la pregnanza semantica e la coerenza interna – significa spiare le sue increspature, mettere a fuoco la sua cifra individuale, svelare le sue zone d’ombra e le sue dimensioni implicite riscoprendo, dietro la sua maschera irrigidita, il fluire segreto del desiderio e l’attesa inespressa del cambiamento>> (p.115).
Quello che Galzigna propone sulla base della sua formazione e della sua esperienza come epistemologo, esercitata anche nell’ambito della clinica psichiatrica, è un allentamento dei vincoli interni all’Io del curante e del suo bagaglio teorico di riferimento – ma anche dell’istituzione psichiatrica in senso più ampio – per entrare meglio in contatto con l’altrui complessità e contraddittorietà, elementi che, invece, la costruzione e il consolidamento dei vari paradigmi tendono gradualmente ma inesorabilmente a ridurre. Ciò al fine di poterli riconoscere ed accettare più facilmente nell’altro, inteso come paziente in cura ma anche come teoria o pratica clinica differente.
Solo così, cedendo ad ogni tentazione unificatrice e fondativa si può tentare di cogliere, di comprendere e di dare una risposta adeguata alla complessità della psiche e dei suoi disagi.
Nota biografica
Marco Nicastro è psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Vive e lavora a Padova, dove si occupa di psicoterapia dell’adolescente e dell’adulto. Ha pubblicato la silloge poetica Trasparenze (Oedipus, 2013) e, in ambito clinico, Pensieri psicoanalitici (Arpanet ed., 2013).
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