tutti i giorni può cambiare
oggi è diritto, domani è storto
e questa vita se ne va”
È il 28 febbraio. Io e Carmen decidiamo di metterci in cammino per raggiungere le Vele a Scampia. I nostri passi svelti e il fiatone sotto le mascherine raccontano del desiderio di andare lontano dalla Sirena napoletana, dai suoi incantesimi, dai suoi rumori prepotenti, dai suoi vicoli scuri, dai suoi ritagli di cielo, dal suo tufo scavato fino al midollo.
Raccontano il desiderio di prenderci un momento per noi, lontano dalla clinica psichiatrica, dai sistemi nosografici, dai protocolli di ricerca, dai turni asfissianti nella catena di smontaggio della follia.
Stiamo risalendo come dei salmoni controcorrente la via che porta alla periferia, lontano dal centro magmatico e magnetico, dal campo gravitazionale del senso comune, siamo in cammino, sospesi.
Tra i rami secchi dell’inverno inoltrato filtra un raggio di sole tenue e dolce come una carezza di una nonna, chiudiamo gli occhi e distendiamo il collo per esporci inermi al suo desiderio di toccarci.
E come di incanto, quel raggio squarcia l’ovvio disvelando un mondo dentro al mondo di cui fino ad allora avevamo ignorato l’esistenza.
Il nostro sguardo si poggia sulla scritta in stampatello della muraglia poderosa in mattoni che costeggia la salita di Capodichino “OSPEDALE PSICHIATRICO”.
E come dei sonnambuli in preda alle fantasie dei sogni e della notte non possiamo fare altro che accorgerci che le nostre gambe stanno già attraversando la strada alla ricerca di un varco, della maglia rotta nella rete che non tiene, per trovarsi inquieti, silenziosi, davanti all’entrata dell’ex manicomio di Napoli “Leonardo Bianchi”.
Due cani abbaiando ci vengono incontro, noi indietreggiamo spaventati.
Non c’è nessuno, non si sente nulla intorno se non il latrare infuriato dei cani.
Poco dopo esce il guardiano, il tenente Drogo della fortezza Bastiani, a dirci che i cani sono tranquilli che non farebbero del male a nessuno.
Ha gli occhi celesti gelidi, parla lentamente con voce profonda, ed in mano stringe un mazzo di chiavi che tintinnano arrugginite.
È lui che ci introduce al salto, è lui il nostro Caronte che ci traghetta nel luogo oscuro, dimenticato, fatto di padiglioni diroccati e giungle arroganti, è lui che ci accompagna a passi lenti nel mondo al di là del mondo.
“Qui non ci stavano solo i pazzi, ci stavano gli omosessuali, i prigionieri politici, gli scappati di casa, chi per povertà, chi per vergogna propria, chi per quella dei familiari. Qui facevano pure gli elettroshock. Io sono arrivato soltanto dopo la chiusura dei manicomi, quello che so è quello che mi hanno raccontato”.
Camminando sento una stretta al cuore, la voglia di scappare via e di piangere, di disperarmi, di prendermela con qualcuno. Sui muri immagino le unghie di sangue di donne e uomini a graffiarlo, o ad appoggiarvici la schiena bollente delle furie maniacali, qui sembra di sentirne ancora l’odore putrido, vederne in translucenza ondeggiare le vesti strappate, le scarpe rotte, la saliva alla bocca che cola.
Sembra a tratti di risentirne le risate insensate o i silenzi senza storia, i tentativi di fuga e la morte della vita. Sembra che le loro esistenze si siano sedimentate strato su strato su queste volte a caduta libera dei lunghi corridoi, e i loro sogni mai sognati abbiano ritrovato nuova vita in questa vegetazione dirompente che sta portando tutto quello che c’era, di nuovo nell’utero caldo della terra, per nasconderne la vista agli uomini sicuri che lì fuori con il camice intonso e la voce calma prescrivono antipsicotici atipici e propongono un percorso di psicoeducazione.
“Qui per un periodo c’erano in più 3000 malati, poi dopo la 180 i malati sono stati distribuiti nel territorio e questo è quello che rimane, un cumulo di niente. Li in fondo ci sono giardini molto grandi, qui dovevano esserci gli orti, lì le cucine, la cappella e dietro quell’edificio c’è un campo di calcio ma ha le porte rotte”.
Mi fa male la testa, le tempie pulsano ad un ritmo incessante.
“Forse ci faranno un albergo, ma non so se qualcuno ha dei progetti. In realtà non saprei dirvi neanche chi lo gestisce ora”.
33 padiglioni utilizzati per varie attività produttive in cui erano impiegati gli stessi pazienti, 22 ettari di cui 8,5 coperti.
Rimozione nell’inconscio. Rovina. Oblio.
Penso allo stanzino senza finestre dove entriamo a malapena ed in cui questa settimana ho fatto le visite in clinica. Mi manca l’aria fino a soffocare.
Scriviamo al professore Gilberto Di Petta che ci risponde su WhatsApp:
“Ci ho vissuto. Leggete: Il manicomio Dimenticato. Dal diario di un giovane medico”.
Poche brevi parole come un fulmine nel cielo sereno.
Usciamo dal Bianchi, ritorniamo a camminare.
Siamo sopravvissuti alla nostra stagione all’ inferno e portiamo addosso quell’angoscia, quella sensazione che mescola indistintamente rabbia contro le istituzioni, contro il paradigma manicomiale, e l’estremo sentimento di impotenza, di due giovani specializzandi che non potranno mai capire fino in fondo quello che è stata nella vecchia città dei pazzi, che non potranno mai perdonare e farsi perdonare quella tragica storia occultata delle origini.
Ma tra le vene risale al cuore una strana consapevolezza, che non si può più tacere, che non si può fare più finta che tutto questo non sia mai accaduto, che non ci si può più nascondere dietro i luccicanti congressi internazionali o le parole ripulite ed eleganti esposte nelle vetrine televisive. Il fantasma della manicomialità ha resistito immune alla chiusura dei manicomi.
Le nostre ricette sono sporche di sangue e piscio, le nostre linee guida sono macchiate indelebilmente di urla e shock insulinici, di fisiognomica e camice di forza, i nostri camici portano nei taschini insieme al fonendoscopio e al martelletto lo scacco di migliaia di folli rimasti per tutta la loro vita in attesa di un incontro mancato.
Non possiamo più tacere la nostra disdicevole sconfitta nella lotta impari contro la follia.
Come degli Ulisse moderni non ci resta che tornare a Itaca, che ha dato il viaggio volente o nolente. Non abbiamo più scuse.
Cerchiamo il libro che il prof ci ha consigliato, ma non ve n’è più traccia nelle librerie del centro storico e sui siti di e-commerce. Contattiamo allora direttamente l’editrice delle Edizioni Universitarie Romane, che gentilmente ce lo fa recapitare in pochi giorni.
Inizia il viaggio di ritorno.
Le valigie sono leggere e le gambe tremano come in quegli incontri che sai già che poi ti cambieranno la vita.
Inizio quindi ad immergermi lentamente tra le pagine calde del libro del professore Gilberto Di Petta, pubblicato per la prima volta nel 1994. Il primo libro che ha scelto di pubblicare.
Era un’altra Italia, erano altri pazzi, era un'altra psichiatria.
Lo era davvero?
“Il reparto non conosce mai il silenzio”.
Inizio a leggere il libro di sera, ad alta voce per farmi compagnia.
L’atmosfera in cui mi trovo catapultato è terrifica, di un girone infernale dove non si può che lasciare ogni speranza una volta entrati.
E neanche io ho più scampo.
“Il manicomio è un mondo”,” Il perimetro del Piantone è il loro universo”.
Il libro si presenta come un diario.
Immagino il professore Gilberto di Petta come Pollock chino sul foglio bianco che lascia scolare liberamente le incrostazioni della giornata di sera al riparo dal mondo, e pian piano intento a vedere che forma che prendono quelle macchie di inchiostro nero pece senza cercare di dominarle, controllarle, invitarle ad una grammatica impossibile.
Pian piano sfilano i pazzi che vivono a lato dell’esistenza, di trasverso, articolazioni lussate con la vita degli altri e del mondo: Nunzia allo stipite della porta aspetta il marito, Prugno allucinata e delirante, l’oligofrenica obesa come un bisonte è la più contenta, Calderazzo la scimmia umana sempre rannicchiata e nuda, Bianca rimasta bambina che non capisce più il mondo, Armida e i suoi occhi brillanti, ed altri ancora sfilano in parata, vive, tra le pagine che si susseguono al galoppo. “Sono i pre-morti”.
Ci sono poi le infermiere che riportano le informazioni al medico che non ha più la speranza di incontrare i pazienti, perché “il tempo nel manicomio è fermo”, immutabile, fotocopia di sé stesso ogni giorno. Il primario che insegna il disincanto, i parenti spaventati dall’emergenza della follia all’interno del tranquillo focolare domestico.
Ci sono le giornate di sole e di pioggia, il cambio di stagione del mondo di lì fuori, le cartelle cliniche ingiallite che non vengono aggiornate da anni e che riportano soltanto espressioni come “non governabile” o “agitata”, ci sono natiche sclerotiche per gli ettolitri di psicofarmaci iniettati. “Il manicomio è una pozza stagna”.
Il libro ti risucchia come una botola oscura nel pavimento per condurti sfinito nelle segrete buie di castelli antichi e lasciarti ad agonizzare lì dentro, senza nessuno che possa darti una mano per venirti a salvare, senza orecchie che possano ascoltare le tue urla di angoscia, o asciugarti le lacrime che ti trafiggono il viso come grandine.
“Le loro anime sono imprendibili”.
Il libro del professore Di Petta è una testimonianza cruda e crudele dello scacco dell’incontro con la follia. “Sono venuto al Manicomio per incontrarmi con la follia dei poeti e degli artisti, e ho sbattuto contro il muro, sono finito fino al collo in questa foiba dove i libri studiati servono meno della carta igienica e gli psicofarmaci sono i feticci di una ritualità inutile”.
Ma quale psichiatria ha fallito l’incontro? È possibile pensare ad un diverso modo di incontrare la follia oggi e quale follia abbiamo il compito di incontrare? Che cosa significa oggi la parola “cura”? Che cos’ è un sintomo di un disturbo mentale? Che cos’è, chi è oggi un uomo? A chi posso raccontare oggi da giovane professionista della salute mentale le mie angosce di reclute lasciata allo sbaraglio, senza un linguaggio comune con il quale comunicare con i colleghi, sballottato qui e là da pretese relativistiche, da misticismi superficiali e da monconi di teorie ascoltati in galleria o letti in brandelli di riviste? Da dove ripartire per sopravvivere al Terricomio? Che ne è del Manicomio dimenticato? Come posso essere utile alla battaglia?
Il ritorno ad Itaca non può che lasciare interdetti, con gli interrogativi che ci facevamo guardando le costellazioni delle Pleiadi alla partenza ora sospesi come degli scacciapensieri. Non può che lasciarci qui con le mani gelide, il cuore rullante, gli occhi tsunami, a chiederci, a farci domande. E forse sono proprio le domande che ci mancano, le uniche che ci mantengono vivi nei nostri naufragi incontro alle aporie esistenziali che il dolore continua a disvelare.
Sono loro che ci hanno risospinto come onde leggere alla riscoperta di un forziere sommerso nelle acque tranquille della quotidianità del senso comune. Sono le domande che emergono come faraglioni nella lettura di questo libro che ci tengono svegli nella nostra notte senza stelle.
Sono loro che ci mettono in guardia contro il fantasma della manicomialità sfuggito subdolo alla chiusura delle strutture manicomiali e che ancora oggi, se occultato o dimenticato, rischia di contagiare pandemico la nostra pratica clinica di ogni giorno.
Che cosa resta dunque, alla fine della notte?
“Resta l’incontro, l’incontro singolo. Di me e di te. Di noi, quando respiriamo il silenzio iniziale di un gruppo, in cui ritmiamo i battiti del cuore. Resta lo sguardo, l’accettazione di una cosa che si chiama realtà. Resta il valore di un’esperienza, la mia di medico e la tua di paziente, che non avrebbero alcun senso l’una senza l’altra. La nostra di uomini. “
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