Abstact
In Italia il suicidio assistito (MAiD1) non è ancora previsto da una legge specifica. Una sentenza della Corte Costituzionale del 2019 stabilisce comunque taluni confini all’interno dei quali l’aiuto al suicidio non si configura come reato. In altri Paesi esistono delle leggi che autorizzano la MAiD. In Olanda e in poche altre nazioni esistono anche delle norme di legge che autorizzano il suicidio assistito delle persone che, unicamente affette da una malattia mentale, esprimano l’intenzione di suicidarsi (MAiD MD-SUMC2). Se queste persone sono giudicate “responsabili” (capaci di intendere e di volere) allorquando esprimono le loro intenzioni, allora tutta l’impalcatura dei trattamenti sanitari obbligatori e delle cure coatte sembra sbriciolarsi. Anche tutta la legislazione sulla incapacità di intendere e di volere del paziente psichiatrico autore di reato diventa del tutto inutile. Forse, in questo modo, diventa inutile anche la psichiatria moderna.
Abstract
As of now, in Italy, assisted suicide (MAiD) is not yet provided for by a specific law. However, a 2019 sentence of the Italian Constitutional Court established specific boundaries within which MAiD wouldn’t qualify as a crime. In other countries MAiD is authorized by law. In the Netherlands and in a few other countries there are legal provisions which authorize assisted suicide even for people who, solely suffering from a mental illness, express the intention to commit suicide (MAiD MD-SUMC). If these people are judged “responsible” (capable of understanding and making effective and informed decisions by themselves) when declaring their intentions, then the whole framework of compulsory medical treatments and forced care seems to crumble. And the entire legislation on the insanity of the mentally ill offender becomes completely useless as well. Perhaps, in this way, even modern psychiatry becomes useless.
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Il ‘patto di rifioritura’ e il TSO
Alcune notizie più o meno recenti. Paolo Cendon, noto giurista triestino, ha proposto, negli anni, interessanti e innovative su figure giuridiche, come l’amministrazione di sostegno e il danno esistenziale. Nel 2015 ha anche scritto il libro La responsabilità dei servizi psichiatrici3. Non poca della sua riflessione nasce e si sviluppa attorno al tema del disturbo mentale. Da qualche anno Paolo Cendon propone un’altra figura giuridica, che da alcuni mesi ha chiamato patto di rifioritura. Cominceremo da questa nuova figura la nostra riflessione.
Già molti anni addietro Gemma Brandi aveva sottolineato come fosse assolutamente determinante, per una Salute Mentale che avesse davvero inteso tenersi in una posizione responsabile, applicare costantemente, in caso di necessità, i principi di quella che chiamò coazione benigna4. Ultimamente, rifacendosi a una definizione usata dalla European Psychiatric Association nel 20185, Gemma Brandi preferisce parlare di coazione gentile. Quando una persona soffre di un rilevante disturbo mentale che genera una situazione di palese rischio clinico (per carità, con una ipocrisia ormai diffusa in tutto il mondo western non si deve parlare di pericolo, termine bandito dal vocabolario delle persone politically correct!), se detta persona malata rifiuta le indispensabili cure, occorre che tali cure vengano somministrate contro la sua volontà. Questo, in Italia, si chiama Trattamento Sanitario Obbligatorio per malattie mentali. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è, in genere e di norma, proposto da un medico, convalidato da uno psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale e ordinato dal Sindaco. La correttezza della procedura viene sottoposta al vaglio del Giudice Tutelare. Da qualche anno, a vigilare che non vi siano abusi della misura sanitaria, sono stati nominanti molteplici garanti dei diritti delle persone private della libertà. Sarebbe essenziale che tale cura coatta venisse somministrata, da tutti i soggetti coinvolti, in maniera attenta, responsabile, rispettosa e gentile. Questo non sempre avviene, ma non è che gli abusi, assolutamente da evitare, la rendano meno necessaria. Sta di fatto che, la citata cura coatta, rimane indispensabile al soggetto e alla società, quando somministrata in maniera gentile. Tuttavia ci sono in Italia e nel mondo molte persone (specie fra coloro che psichiatri non sono: ma si sa che abbiamo due mestieri nei quali tutti sono competenti, lo psichiatra e il commissario tecnico della nazionale di calcio) che sostengono che il TSO vada abolito, così come ogni forma di coercion alla cura, ancorché gentle. Si può anche andare con i fiori a contrastare l’avanzata dei carri armati, ma non tutti sono dei Mahatma Gandhi. Anche se, per mettere a tacere Gandhi, fu peraltro sufficiente una pistola, ‘convenientemente’ usata da un integralista religioso.
Non siamo partiti a caso dal TSO, la forma più radicale ed eclatante di cura che si esercita attraverso la coazione gentile. Il TSO è infatti una misura terapeutica estrema, che, se somministrata in modo umano quando indispensabile, si rivela sempre estremamente utile per il soggetto malato. In molti anni di attività nel Servizio pubblico di Salute Mentale siamo ricorsi assai raramente al TSO; ma tutti i pazienti che abbiamo sottoposto a tali trattamenti, in seguito, ci hanno sempre ringraziato per avere frenato la loro caduta libera. Il TSO nondimeno, come dicevamo, è una forma estrema di gentle coercion alla cura. Diverse altre ve ne sono, a partire dalla amministrazione di sostegno, che è gentle coercion se declinata convenientemente, cosa che non sempre purtroppo avviene; forma di tutela che dovrebbe sostituire, come di fatto sta sostituendo, le malignant coercions costituite da interdizione e inabilitazione. Altre forme di coazione gentile sono i provvedimenti presi dai giudici delle sezioni famiglia quando tutelano i minori dalla dannosissima conflittualità di genitori separati e ostili. Sono coazioni gentili le misure alternative alla pena detentiva; misure che, quando saggiamente disposte e ben monitorate, “diventano uno strumento per restituire il reo a una smarrita dimensione relazionale socialmente compatibile”6. Una ulteriore forma di coazione gentile è costituita dalle misure di sicurezza non detentive per il reo folle, misure che andrebbero sempre applicate nei casi in cui la limitata pericolosità sociale della persona lo consenta. Ma non sono in pochi, specie fra coloro che ancora trascinano seco un alone politichiatrico, a preconizzare l’avvento di un sistema sanzionatorio penale nel quale il folle autore di reato risponda davanti alla legge come qualsiasi altra persona. Quale lungimirante posizione ‘democratica’, specie considerando che l’Italia è già stata condannata dalla CEDU per avere illegittimamente tenuto in carcere persone prosciolte per vizio di mente e destinate a Residenze sanitarie per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS)7! Ma sarebbe davvero da irresponsabili a da sciocchi pensare che il problema del disagio psichico nelle carceri si limiti allo sparuto gruppo dei soggetti prosciolti che non trovano posto nelle REMS o a quelli inseriti nelle limitate e inefficaci Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale! Il ministro della Giustizia del nostro Paese, Marta Cartabia, intervenendo nel giugno 2021 a una Conferenza sulla Salute Mentale, ha asserito che “considera la tutela della salute mentale in carcere una delle più assolute priorità da affrontare nel mondo della detenzione”8. Nel 2020 i suicidi in carcere sono stati 61, nel 2021 sono stati 58 e nel 2022 sono stati 84! Meno male che il problema della salute mentale in carcere ha rappresentato una delle “più assolute priorità da affrontare”! Il disturbo mentale si annida e si nasconde nelle carceri, dove fra l’altro, alla ricerca di una pena, tende costantemente a sottrarsi ad ogni cura. Torneremo dopo sul tema della pericolosa follia misconosciuta e trascurata che si nasconde nelle carceri. Una follia che la società civile e democratica, in maniera subdola e ipocrita, invita spesso a nascondersi nei luoghi di pena.
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Il patto di rifioritura, in previsione dello speciale domani delle anoressiche
Ma torniamo al cosiddetto patto di rifioritura proposto da Paolo Cendon. Chiunque voglia capire di cosa si tratti, può andarsi a guardare il breve ‘video esistenzialdebologico’ dedicato dal giurista a questa misura9. Per descrivere cos’è il patto di rifioritura, useremo proprio le parole di Paolo Cendon. Si tratta di un “incontro progettuale fra il giudice e il fragile”, nel quale il giudice propone al fragile un “patto” per arrestare la spirale auto ed etero distruttiva imboccata dal “fragile”. Chi sono i “fragili” riguardati da questo “patto”? Sono principalmente, secondo Cendon, coloro che soffrono di “gravi dipendenze: alcol, droga, gioco, anoressia”. Quali sono le condizioni nelle quali, secondo il giurista triestino, questo “patto” va ricercato e applicato? Sono quelle nelle quali sono ravvisabili dei “rischi per l’interessato [e dei] pericoli per la famiglia” (vogliamo dire, fuori da ogni ipocrisia, che sono quelle nelle quali si ravvisa un pericolo per sé e per gli altri?). Gli scopi di questa misura: “prevenire le possibili autoviolenze e violenze”. Quanto ai mezzi per attuare questa misura (che, fuori da ogni ipocrisia, vogliamo chiamare terapeutica?), lasciamo che sia lo stesso Paolo Cendon a parlare. Secondo lui il giudice dovrebbe rivolgersi in questo modo al debole: “Siamo qua per aiutarti. Io giudice, con tutta una serie di esperti che mi attorniano, ti chiedo di tracciare insieme a noi un percorso di uscita dal tuo tunnel. Facciamo questo patto insieme. Scegliamo insieme i vari appuntamenti, i capitoli, le tappe di questa tua uscita. Poi tu, però, dovrai rispettare accuratamente [le tappe del percorso] e io [giudice], in nome della legge, e anche l’amministratore [di sostegno], abbiamo il potere di fare in modo che tu le rispetti”10. Possiamo davvero immaginare che, il fragile che non mostri una condiscendenza alla cura, attraverso il patto di rifioritura possa essere costretto, dal giudice e/o dall’amministratore di sostegno (magari nominato ad hoc), a imboccare il percorso di cura che abbia rifiutato ab initio o che rifiuti durante l’effettuazione dello stesso? Curioso e interessante rivolgimento di prospettiva, quello di Paolo Cendon, che assegna la responsabilità di una coercion alla cura, nemmeno troppo gentle, non tanto a coloro che di questa cura dovremmo ritenere responsabili (gli operatori della salute mentale/dipendenze), quanto a un giudice e/o a un amministratore di sostegno. Con gli psichiatri che, sollevati anche da questa responsabilità professionale cui sarebbero chiamati dal rivestire una posizione di garanzia nei confronti del loro paziente fragile, che gioiscono senza darlo a vedere.
Evidentemente per sottolineare l’importanza del patto di rifioritura, su Persona & Danno, forse proprio a firma di Paolo Cendon, è stato pubblicato poche settimane addietro un articolo nel quale si lodava la decisione con la quale, la “High Court”, aveva disposto l’alimentazione forzata di una giovane donna anoressica11. Chissà a quale rifioritura quella donna potrebbe andare incontro dopo la saggia decisione della Corte inglese, suggeriva l’articolo. Secondo la Redazione di P&D quella decisione della Corte sarebbe stata recente e riportata ampiamente sul web. Poiché ci siamo sempre interessati della coazione alla alimentazione forzata delle persone anoressiche, siamo andati a controllare. In effetti il giudice Peter Jackson, della England and Wales Court of Protection, aveva preso una decisione simile, ma lo aveva fatto nel 2012 e non nel 202212. C’è anzi da dire che altri più recenti pronunciamenti della High Court of Ireland sono andati proprio nella direzione contraria. Il giudice Hyland, nel maggio 2022, ha decretato l’interruzione del precedente ordine di alimentazione forzata di una donna che, da più di 25 anni, soffriva di una grave forma di Anoressia Nervosa13. Il giudice Hyland, proprio rifacendosi, per quella paziente, alla valutazione del best interest di cui alla sentenza della Suprema Corte Irlandese Re a Ward of Court (No.2)14, ha preso in considerazione il fatto, messo in evidenza dagli psichiatri che stavano curando la donna, che “la continuazione dell’alimentazione coatta avrebbe potuta essere traumatica e non priva di rischi intrinseci”. Il recente caso (2022) dell’High Court irlandese sembra indicare una tendenza, suggerita addirittura dai terapeuti dei pazienti: quella di limitare o interrompere l’uso dell’alimentazione forzata nei casi in cui la malattia abbia una lunghezza estremamente protratta e i trattamenti, anche se coatti, non siano stati in grado di interrompere la progressione autodistruttiva della persona. Limitare o interrompere questi trattamenti anche se l’esito dovesse essere la morte: ecco cosa indica l’High Court irlandese, su suggerimento dei suoi esperti psichiatri.
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Suicidio assistito e malattie mentali
Il recente caso dell’anoressica cui la High Court of Ireland ha interrotto l’alimentazione forzata, spianandole la strada verso la morte, non è isolato nel mondo. Non solo: come vedremo c’è chi si spinge addirittura oltre.
Nel luglio 2008, in Italia a Torino, il tribunale decretò l’interdizione di una donna di 33 anni che, giunta a pesare solo 28 chili, rischiava di morire15. Una sorella venne nominata tutore provvisorio, con l’incarico cercare per la congiunta malata le migliori strategie di cura. Il caso venne indicato come un “misfatto di mezza estate” da una delle redattrici della rivista Persona & Danno16, fors’anche perché la misura della interdizione, per tutelare la donna anoressica, appariva in effetti sproporzionata, inutile e afflittiva.
Qualche anno addietro, nel giugno del 2013, la stampa diffuse la notizia della morte di una diciannovenne argentina, sicuramente affetta da anoressia e, forse, da schizofrenia. Si chiamava Maria Antonella Mirabelli. Assistita dalla madre e dalla nonna materna, la ragazza, la quale era convinta, al pari delle persone di famiglia che la assistevano, che la fede in Dio l’avrebbe guarita, rifiutò le cure e si lasciò morire17. Il procuratore argentino Elbio Rojin, chiamato in causa dal padre della ragazza che sollecitava una alimentazione forzata per salvare la figlia, non intervenne, con la volontà della giovane donna, comunque maggiorenne, che “fu più forte della legge”. Su Persona & Danno, questa volta, uno dei commenti nei confronti del mancato intervento del procuratore argentino risultò molto critico18.
Nel giugno 2019 si discusse molto, sui media, della morte della giovanissima (17 anni) anoressica olandese Noa Pothoven, che si lasciò morire nella sua casa, amorevolmente accudita, in questo tragitto verso la morte, dai genitori, dai fratelli e dai medici19. Noa aveva subito alcune ripetute violenze sessuali nella prima adolescenza. Secondo quanto riportano i media, la ragazza non aveva superato il trauma psichico di quelle violenze, i cui effetti aveva poco dopo descritto in un libro autobiografico20. Anche se la credenza in Dio non c’entrava con la decisione di Noa, così come non c’entrava in modo incontrovertibilmente chiaro il suicidio assistito di cui si parlava molto in Italia in quel periodo, il Papa colse l’occasione per ribadire che “l’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti”. Anche il suicidio assistito di Noa (assistito almeno dai familiari, se non da una équipe medica) venne commentato su Persona & Danno; con gli autori dell’articolo, entrambi psichiatri, che presero le distanze dalla decisione della giustizia olandese di non intervenire21.
Ancora più di recente, nell’ottobre 2022, i media hanno diffuso la notizia della morte per eutanasia di Shanti De Corte, una ventitreenne belga che soffriva di una grave e protratta forma depressiva e che era sopravvissuta miracolosamente all’attentato terroristico effettuato dall’ISIS presso l’aeroporto di Bruxelles nel 2016. Nel marzo 2022 Shanti aveva richiesto di essere ammessa alla valutazione per il suicidio medico assistito e, dopo che la sua richiesta aveva ottenuto il nulla osta di due psichiatri, il 23 ottobre 2022 Shanti De Corte è stata medicalmente assistita nel suo suicidio22. Si è trattato di un caso che, come si comprende, ha suscitato la perplessità se non l’indignazione di molti.
L’opinione che l’eutanasia e/o il suicidio assistito non possano essere prese in considerazione per i disturbi psichici, non è però condivisa da tutti. Nel caso di Noa Pothoven, ad esempio, non è stata condivisa almeno dai magistrati. È verosimile e anche probabile che i magistrati argentini non abbiano condiviso questa opinione nel caso di Maria Antonella Mirabelli, a meno che il procuratore Elbio Rojin, di Rosario del Tala, non fosse convinto, al pari della ragazza e dei familiari di lei, che sia Dio a “curare ogni male”. In ogni caso, di fronte alle scelte personali, anche di salute, che dipendono da insindacabili credenze religiose, che come ‘pregiudizialmente’ sappiamo non possono e non debbono essere ritenute irrealistiche23, persino l’angelo della giustizia deve ripiegare le sue ali fruscianti e farsi da parte.
È assolutamente innegabile che, almeno finora, in Italia non debba essere esclusa la punibilità, a norma dell’art. 580 cp, di chi aiuta/assiste/induce il suicidio di una persona che intenda compiere il gesto estremo unicamente a causa di una malattia mentale. La sentenza della Corte Costituzionale italiana N. 242/2019, infatti, stabilisce finora che tale punibilità possa essere esclusa solo per chi “ […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente24”.
Risulta però difficile pensare che la innovativa e forse tardiva sentenza della Corte possa ricomprendere anche circostanze come quelle che hanno ad esempio indotto il giudice Hyland della High Court Irlandese, nella già citata sentenza del maggio 2022, a interrompere il precedente odine di alimentazione forzata di una donna affetta da una grave forma di Anoressia Nervosa. Un caso, dunque, che rimanda a quello di Noa Pothoven. Chissà cosa deciderebbe, qui nell’Italia prevalentemente cattolica, il ‘comitato etico territorialmente competente’ se fosse chiamato a decidere su un caso analogo. Perché, in uno Stato laico, occorrerebbe decidere etsi Deus non daretur. Anche a chi si interroga in maniera lucida e riflessiva sulla indispensabile laicità dello Stato e delle sue leggi25, non sfugge il fortissimo legame che esiste tra diritto (in questo caso diritto penale), morale e religione. Persino l’Italia cattolica, d’altra parte, dovrà attenersi alle indicazioni fornite della CEDU nel 2022. La CEDU, proprio pochi giorni prima del suicidio assistito della giovane Shanti De Corte, aveva pubblicato una sentenza26 con la quale aveva dichiarato del tutto lecito il suicidio assistito di una donna depressa di 64 anni, avvenuto nel 2012, eccependo soltanto una piccola irregolarità procedurale, relativa al fatto che il co-presidente della Commissione deputata alla valutazione post-evento della regolarità procedurale, era proprio quel dottor Distelmans che aveva praticato l’iniezione letale alla signora depressa.
Occorre in ogni caso stabilire, almeno qui in Italia ma anche altrove, quando una persona sia davvero “affetta da una patologia irreversibile”, che rende necessari “trattamenti di sostegno vitale” per non lasciarla morire. La citata sentenza della Corte Costituzionale italiana rimanda al parere degli esperti scienziati della struttura pubblica e del comitato etico. Chissà cosa direbbero, questi esperti, nel caso di una grave anoressica curata senza esiti positivi per 25 anni, ovvero nel caso un gravissimo depresso che per decenni non ha tratto alcun giovamento dalle cure.
In Italia tali esperti non sono ancora stati chiamati a esprimere un parere. Lo sono stati invece in Canada, un Paese che in materia di suicidio assistito sembra avere precorso i tempi. Il tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, fra l’altro, è stato mirabilmente trattato da Denys Arcand ne Les invasions barbares27. In Canada dunque, Paese apparentemente non imperiale e nemmeno in declino, il governo sta per varare una legge, che diventerà esecutiva il prossimo marzo, con la quale verrà autorizzato il suicidio assistito anche per le persone che abbiano una malattia mentale come unica condizione che le induca a porre fine alla loro vita28. A guardare bene, in fin dei conti, si tratta di una disposizione legislativa ‘civilissima’: se si autorizza l’anoressica inglese o l’olandese Noa a morire di fame e di sete, non si capisce perché non autorizzare un suicidio meno barbaro di quelle persone29. In Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera esiste già una legislazione che consente l’accesso al suicidio assistito anche quando il paziente che lo richiede soffre unicamente di un disturbo mentale. Certo è che, come si poteva immaginare, il ‘civile’ legislatore canadese non si sarebbe azzardato a varare una simile legge senza avere previamente interpellato gli esperti del settore. In effetti il varo della legge è stato prospettato solo dopo che, il 13 maggio 2022, un panel di esperti incaricati dal Governo Canadese si è pronunciato sul tema. Nel Final Report of the Expert Panel on MAiD and Mental Illness30 i dieci esperti del panel, tre o quattro dei quali psichiatri o operatori della salute mentale, hanno in definitiva stabilito, pur elencando una serie innumerevole di restrizioni e di cautele, che possono esistere dei casi nei quali è lecito pensare di fornire una assistenza medica al suicidio (anche) quando un disturbo mentale è l’unica condizione sottostante (MAiD MD-SUMC: Medical Assistance in Dying where a Mental Disorder is the Sole Underlying Medical Condition). Non elencheremo tutte le condizioni e le cautele. Fra le condizioni, comunque, almeno due meritano ovviamente tutta la nostra considerazione: la incurabilità/irreversibilità del disturbo mentale; la capacità, del soggetto che soffre di quel disturbo, di chiedere la morte con coscienza e volontà. Nemmeno i membri del panel canadese si sottraggono a una inevitabile considerazione: come si supera il duro scoglio costituito dal fatto che le pulsioni suicidarie costituiscono spesso il pericoloso sintomo del mental disorder che induce quella persona a chiedere la MAiD?
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Speranza/disperazione: il suicidio (assistito) del paziente psichiatrico e della psichiatria
Attorno al tema della MAiD MD-SUMC è sorto ovviamente da tempo un dibattito fra gli ‘scienziati’ esperti nel settore. Recentemente se ne è di nuovo occupata The Lancet, in un editoriale che, nel titolo, sottolineava il carattere controverso della questione: The (il)legimaticy of death as an option31. Un carattere che è controverso da tutti i principali vertici della questione: quello morale, quello legale e quello ‘scientifico’. Nell’editoriale di The Lancet sono state messe a confronto, scegliendole in maniera estremamente significativa, due opposte opinioni, formulate entrambe da ‘esperti’.
La prima opinione è quella espressa, da alcuni esperti in disturbi alimentari degli USA, nell’articolo Terminal anorexia nervosa: three cases and proposed clinical characteristics 32. Dei tre casi presentati, due donne e un uomo, tutti soffrivano di Anoressia Nervosa come disturbo psichico prevalente (per l’uomo, in verità, veniva riportata una comorbidità con un Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente; anche per una delle donne veniva segnalata anche una diagnosi di Depressione). Nei tre casi presentati, la storia clinica si concludeva con la morte dei pazienti attraverso il suicidio assistito. Uno dei tre casi è stato forse descritto per destare un particolare interesse: Alyssa Bogetz, infatti, non era solo una paziente, ma ha voluto anche comparire come Autore postumo dell’articolo, avendo fra l’altro una laurea come assistente sociale. Il Dr. G., suo psichiatra curante, oltre ad assisterla in tutto il percorso per accedere al suicidio assistito, in questo caso con un’autosomministrazione dei farmaci inducenti la morte, le ha anche prescritto tali farmaci, poiché lo specialista deputato, quello delle cure palliative, non se l’era sentita di farlo. Ecco le parole che Alyssa Bogetz ha scritto al Dr. G. il giorno prima di suicidarsi: “Grazie con tutto il mio cuore per avermi aiutato a rendere possibile questo. Io lo vedo come un tremendo atto di amore”33. Ci guardiamo bene, ovviamente, dal commentare questo ossimoro, pesante come un macigno.
La seconda e opposta opinione, riportata anche nell’editoriale di The Lancet Psychiatry, è quella di James Downs e altri34. Si tratta, anche in questo caso, di un’opinione sostenuta da esperienze molto personali. Almeno James Downs e Lorna Collins sono passati per molto tempo attraverso profondissimi mental disorders, riuscendo quindi a dare delle soluzioni favorevoli alle loro vite e dedicandosi quindi, con soddisfazione e anche con successo, alla cura di tali malattie. Nemmeno gli autori di detto articolo sfuggono alla constatazione che i disturbi alimentari abbiano una morbilità e una mortalità che sono indubbiamente alte. Nemmeno loro misconoscono le difficoltà insite nella cura della cosiddetta ‘anoressia nervosa terminale’. Sostengono però, questi autori, che non solo occorrerebbe fornire precocemente cure di alta qualità a coloro che soffrono di disturbi alimentari, ma che sarebbe inoltre indispensabile aumentare l’impegno per migliorare tali cure ed estenderne la disponibilità. Mettono inoltre in rapporto, molto opportunamente, la “disperazione clinica” dei terapeuti con la carente o assente motivazione dei pazienti alla cura e alla guarigione. Vorremo forse negare, d’altronde, che quello che chiamiamo transfert (e il transfert, si sa, ha due versanti) si costituisca in maniera decisiva sul versante affettivo/morale? Vorremmo allora affidare la cura della nostra persona a qualcuno che provi per noi un “amore tremendo”? Lorna Collins, che forse non si sarebbe affidata a simili terapeuti, ha così concluso: “Io sono la prova che la cura di un disturbo alimentare è sempre possibile e dovrebbe essere sempre disponibile”.
Abbiamo visto come taluni terapeuti giungano a giustificare il suicidio dei loro pazienti, affetti da mental disorders e intenzionati a porre fine alla loro vita. Sappiamo tutti, inoltre, che vi sono dei gravi mental disorders che presentano le idee suicidarie come sintomi preoccupanti. Pensiamo ad esempio agli stati depressivi severi. Dovremo allora pensare, così come facciamo con gli anoressici, che anche questi pazienti, che si ritengono talora indegni di vivere e che a volte, magari non immotivatamente, sono certi di causare l’infelicità e la rovina dei loro congiunti, possano lucidamente e consapevolmente, quando il loro stato dura da molto tempo e non migliora, decidere di mettere fine ai loro giorni attraverso il suicidio assistito? Per qualche psichiatra sarebbe di sicuro una liberazione essere sollevato dal pesantissimo fardello costituito dalla posizione di garanzia. Se un paziente gravemente depresso fosse capace di prendere una decisione responsabile relativamente al suo suicidio, non si capirebbe davvero perché uno psichiatra dovrebbe essere perseguito qualora per imperizia, imprudenza o negligenza non fosse stato capace di prevenirlo.
Anche sul punto della responsabilità degli operatori della salute mentale nel caso della morte per suicidio di un loro paziente, si registrano peraltro pareri contrapposti. Ci sono, da un lato, le linee guida internazionali, le quali segnalano che nei mental disorders il suicidio è prevedibile e che, quindi, raccomandano che debba essere prevenuto35. Dall’altro lato va segnalata la presenza di tutta una corrente della psichiatria che va da tempo dichiarando la imprevedibilità del suicidio36. Un caso di suicidio davvero prevedibile, per un nostro paziente affetto da un grave mental disorder, sarebbe quello in cui fosse il paziente stesso a chiedere di essere autorizzato al suicidio assistito. Ma in questo caso, secondo gli esperti psichiatri del panel canadese per la MAiD MD-SUMC, l’operatore sanitario non andrebbe perseguito qualora dichiarasse e provasse: di essersi a lungo e inutilmente prodigato per quel paziente con le migliori cure possibili; che la scelta del suicidio è presa da una persona capace di intendere e di volere; che la malattia di quel paziente è ‘terminale’ anche perché ‘inguaribile’; che il suicidio è l’unica strada per porre fine alle sofferenze procurate dalla malattia. Ebbene, allora, il suicidio di quella persona, ancorché prevedibile, non andrebbe evitato e, anzi, la nostra assistenza sanitaria, nell’aiutarlo a lasciare, oltre a non risultare punibile, si configurerebbe addirittura come un atto di amore, anche se come un atto tremendo.
Personalmente non abbiamo mai pensato di compiere nei confronti dei nostri pazienti un tale “atto di amore”. Un amico, diverso tempo addietro, chiese a uno di noi un consiglio su come poter dare delle Disposizioni Anticipate di Trattamento nelle malaugurate ipotesi che gli venisse diagnosticata una grave malattia, che le cure si fossero tutte dimostrate inefficaci e che il suo degrado psicofisico si fosse rivelato irreversibilmente compromesso, tanto da privarlo addirittura della possibilità di dare direttamente delle disposizioni di trattamento. Le indicazioni al previdente amico furono date volentieri, anche perché chi le forniva condivideva il suo punto di vista. Crediamo che quell’amico gioisca adesso -così come abbiamo fatto noi- per la recente decisione della Corte Costituzionale di non considerare istigazione al suicidio l’assistenza a un malato terminale che desideri comprensibilmente porre fine alle sue ‘tremende’ sofferenze. Sappiamo tutti che, in questi casi, la linea di demarcazione morale, fra ciò che è lecito e ciò che non lo è, non può che apparire evanescente, fragilissima e molto personale.
In proposito ci sovviene un ricordo. La nonna di uno di noi era molto credente e praticante. Suo marito si era separato da lei moltissimi anni prima, per andare a convivere con un’altra donna. La nonna, per le sue convinzioni religiose, non si era mai risposata. Nel 1974 era già molto in là con gli anni e usciva pochissimo di casa. Quando ci fu il referendum abrogativo sul divorzio, chiese di essere accompagnata alle urne, ben sapendo come avrebbe votato il nipote, che tuttavia le sorrise e le assicurò che l’avrebbe accompagnata lo stesso, supponendo che il suo voto sarebbe stato per l’abrogazione della legge sul divorzio. Fu allora lei a dire, sorridendo: “Vedi, caro nipote, ho le mie credenze religiose e non mi risposerò mai. Ma non vedo perché dovrei privare altre persone, che non hanno le mie stesse credenze religiose, della possibilità di compiere legalmente una scelta diversa dalla mia”. Fu con grande orgoglio che il nipote accompagnò la nonna, con le sue ossa scricchiolanti, al seggio elettorale.
L’eutanasia e il suicidio assistito di un malato di mente, però, è materia assai diversa dal divorzio. Bisognerebbe chiedere a 1.000 medici esperti se, a partire dalla loro pratica, considerano guaribile un paziente affetto da un carcinoma a piccole cellule del polmone ampiamente metastatizzato, oppure una SLA per la quale il paziente debba essere mantenuto in vita con costanti supporti respiratori. Vorremmo che qualcuno di questi 1.000 medici ci raccontasse di avere assistito, in casi come questi, a impreviste e insperate guarigioni dei pazienti in preda a insopportabili dolori. Virgilio Sacchini, un famoso e stimato chirurgo italiano che lavora ormai da molti anni presso uno dei maggiori Centri newyorkesi specializzato nella cura dei tumori, ha scritto insieme a Sergio Perego un libro interessante: Dai sempre speranza37. In esso racconta anche di insperate e impreviste guarigioni di pazienti affetti da gravi forme di cancro. Non ci risulta, però, che nemmeno Virgilio Sacchini abbia mai descritto la guarigione di un malato di cancro terminale.
Vorremmo per converso chiedere, a 1.000 psichiatri, se hanno mai assistito al miglioramento radicale delle condizioni di qualche loro paziente il quale, essendo unicamente affetto da un grave mental disorder, aveva sostenuto, ripetutamente e persino per un tempo molto lungo, di volersi suicidare. Immaginiamo che diversi altri, oltre a noi, a James Downs e a Lorna Collins, abbiano assistito a radicali miglioramenti e persino a complete guarigioni di simili pazienti.
Sappiamo bene quanto dibattuta sia la questione della scientificità della medicina, ma personalmente continuiamo a ritenere che nessuno scienziato onesto possa comparare l’incurabilità/inguaribilità di un malato di “cancro terminale” a quella di un malato di “anoressia terminale” o di un “grave depresso”. Soprattutto continuiamo a ritenere che non possano e non debbano essere comparate le capacità di intendere e di volere delle due categorie di pazienti.
Ma è proprio relativamente a tale ultima questione che si sta sviluppando da qualche decennio la grave malattia della psichiatria, una malattia che rischia di essere mortale. Nel 1983 il senatore comunista Vinci Grossi, insieme ad altri fra i quali figuravano anche, fra gli altri, Mario Gozzini, Rossana Rossanda, Franca Basaglia Ongaro e Franco Basaglia, presentò un disegno di legge per la “abrogazione della legislazione speciale per infermi e seminfermi di mente”. Franco Basaglia era un noto psichiatra. Vinci Grossi era primario radiologo. Negli anni successivi, e fino ai giorni nostri, il “diritto alla pena” dei malati di menti autori di reato è stato più volte reclamato, da insigni psichiatri e da illustri uomini di legge. Come spesso capita in queste occasioni, le proposte di modifica delle leggi sono spesso tardive rispetto ai cambiamenti radicali (magari surrettizi) che si sono già verificati nella società reale. In Italia si discute moltissimo, in questo periodo, della abrogazione del cosiddetto ergastolo ostativo. La Norvegia, paese nel quale si ritiene mediamente che vi sia una legislazione molto civile, l’ergastolo, non solo quello ostativo, è stato abrogato da anni. La pena massima edittale, anche per reati molto gravi, non può superare i 22 anni. “Dai sempre speranza”, verrebbe da pensare. Anche nel caso di Anders Breivik, il mass murder che nel 2011, fra Oslo e Utoya uccise settantasette persone e ne ferì altre duecento, la pena massima irrogata fu di 22 anni. Come sappiamo bene, gli esperti psichiatri norvegesi che intervennero in seconda battuta (dopo che la prima perizia aveva concluso per una totale infermità di mente, sollevando le generali proteste della civile opinione pubblica norvegese) stabilirono che Brevik era capace di intendere e di volere. I giudici norvegesi comminarono quindi la pena massima di 22 anni, ma del tutto irritualmente prescrissero inoltre una valutazione della pericolosità sociale al termine della pena, con la possibilità di prorogarla di cinque anni in cinque anni: una misura di sicurezza mascherata, insomma, nei confronti della quale nessuno protestò: troppo “folle” il gesto, troppo nazista l’autore, troppo numerose le vittime.
Se nella civile Norvegia uno come Anders Brevik può essere considerato, da un punto di vista della capacità di intendere e di volere, come qualsiasi altra persona normale (come Uno di noi38), allora davvero tutti possono essere ritenuti responsabili, decidendo fra l’altro autonomamente se farsi curare, se non farsi curare, se vivere o suicidarsi. L’attività professionale degli psichiatri sarebbe allora molto più semplice, poiché si occuperebbero soltanto della cura di coloro che manifestano una sufficiente condiscendenza a sottoporvisi, una buona consapevolezza di malattia e un dichiarato desiderio di guarigione. Potremmo abolire il TSO, gli involuntary treatments, la colpa professionale per il suicidio e per gli omicidi dei pazienti psichiatrici. Potremmo tranquillamente abrogare tutti gli articoli del codice penale relativi al totale e al parziale vizio di mente e dimenticare la pietas del Diritto Romano. Un po’ in tutto il mondo western, e non solo negli USA, lo hanno d’altronde fatto e lo stanno facendo in maniera surrettizia.
Il 24 maggio 2022 c’è stato l’ennesimo mass shooting negli USA. Un evento particolarmente doloroso, perché Salvador Ramos, il diciottenne autore della strage, ha ucciso 19 giovani alunni della Roob Elementary School di Uvalde, nel Texas, prima di essere a sua volta ucciso della Polizia. Tre giorni dopo Dinah Miller, “psichiatra e physician coach”, ha pubblicato un breve commento nel quale invitava a non equiparare i mass shooting con la malattia mentale39. Non conosciamo a sufficienza Salvador Ramos, l’autore della strage di Uvalde. Sappiamo però che, immediatamente prima di andare a compiere la strage alla scuola di Uvalde, aveva sparato in faccia alla nonna. Sappiamo, inoltre, che “Ramos era un ragazzo difficile, non andava a scuola spesso e infastidiva altri studenti. Lo riporta Abc citando alcune fonti, secondo le quali era «nei radar della scuola. Si sapeva che aveva problemi ma nessuno lo ha mai segnalato alle autorità»”40.
Se si analizzassero, anche superficialmente, le biografie di taluni dei più noti mass murders degli ultimi anni41, ci si accorgerebbe con facilità che sarebbe molto difficile non riconoscervi la descrizione di storie esistenziali di persone con rilevanti mental disorders. Oramai, però, quasi dappertutto la società civile non intende certo negare il diritto alla pena ai pazienti psichiatrici autori di reato. Lo fa costantemente negli USA, dove questi pazienti affrontano abitualmente il processo e la pena ordinaria non appena abbiano recuperato una sufficiente “capacità di stare in giudizio”. Già, negli USA, dove il tasso di detenzione è di circa otto volte superiore a quello che registriamo in Italia42, anche se nel nostro Paese il tasso di suicidalità fra i detenuti, nel 2022, è risultato di circa 4,5 volte superiore a quello registrato negli USA.
Chi lavora con i pazienti affetti da gravi mental disorders sa perfettamente quanto, in loro, sia profonda e difficilmente eradicabile la tendenza autodistruttiva, che induce questi pazienti a reagire spesso negativamente a ogni progresso della terapia. È ciò Freud chiamò reazione terapeutica negativa. La vera sfida, per tutti gli operatori della salute mentale, è proprio quella di fronteggiare, con costanza e senza lasciarsi scoraggiare, questa tendenza distruttiva, questa pulsione di morte che, presente in chiunque, diventa fortissima nei malati di mente. Specie nei malati di menti autori di reati. Non ci meraviglia, allora, che persino gli esperti che definiscono in Canada le condizioni per cui si possa accedere al suicidio assistito quando la malattia mentale è l’unica condizione sottostante, indichino la necessità di compiere una valutazione ancora più accurata qualora la richiesta di MAiD MD-SUMC provenisse da un malato di mente detenuto43.
Certo che occorre essere molto accurati. Abbiamo già visto che l’Italia, negli ultimi mesi, è stata condannata dalla CEDU per l’illecita detenzione in carcere di malati di mente autori di reati che avrebbero richiesto altre misure terapeutiche44. Chiunque abbia un minimo di esperienza dei penitenziari sa, però, che il problema dei malati di mente in carcere non può e non deve essere confinato a quelle decine di pazienti che, riconosciuti incapaci per vizio di mente e socialmente pericolosi, dovrebbero essere inseriti nelle REMS e non rimanere reclusi in carcere45. Ma la psichiatria, ormai moribonda, non riesce a profferire nemmeno un debole lamento per l’impressionante numero di malati di mente imprigionati, con i suicidi che in Italia, nel 2022, sono stati ben 8446! Purtroppo si tratta di una psichiatria esangue, del tutto immemore di quelle sue origini che avevano un tratto eroico, poiché si trattava, allora, di sfidare il sistema giudiziario a comprendere e a curare ove necessario, piuttosto che a punire in maniera cieca e indifferenziata47. Occorrerebbe che gli psichiatri sapessero bene che Pierre Rivière, il giovane folle che la psichiatria nascente aveva inutilmente cercato di strappare al carcere, il detenuto che reclamava a gran voce la pena di morte, si tolse infine da solo la vita nella sua cella della prigione. Anche Moosbrugger, d’altronde, l’assassino seriale di prostitute de L’uomo senza qualità, non tollerava che si indicassero come segni di malattia mentale “gli spiriti che lo chiamavano giorno e notte”48. D’altra parte, per non essere ipocriti, occorre segnalare come Robert Musil avesse riconosciuto perfettamente, molto prima dei lager nazisti e di Anders Breivik, che davvero il male è molto più “banale” di quanto non si creda e che, “se l’umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger”.
Vogliamo concludere questa nostra riflessione parlando del coraggio e della ipocrisia. Si può anche pensare che, per uno psichiatra, sostenere i propositi suicidari di una paziente che giudica “incurabile e inguaribile” sia un “tremendo atto di amore” e di coraggio. Oppure si può pensare che sia particolarmente coraggioso sostenere e curare i difficilissimi malati di mente che sono talvolta ad alto rischio di suicidio. Occorre sapere su quale versante ci poniamo. Così come occorre fare una distinzione netta: da un lato coloro che, con molto coraggio e in tutte le parti del mondo, non si piegano al dictat morale (e quindi giuridico) del riconoscere come istigazione al suicidio l’aiuto fornito, a un malato “terminale”, perché muoia in modo più “civile” e sereno; dall’altro lato coloro che vorrebbero privare di ogni speranza malati affetti da gravi malattie mentali che solo la mancanza di speranza dei terapeuti rende inguaribili. Ma occorre anche evitare comparazioni morali, scientifiche e giuridiche davvero illogiche e infondate, come quelle nelle quali possono incappare, spinti in apparenza dalle migliori motivazioni morali e civili, pure i migliori tra noi. Non è escluso che accada, ad esempio, che venga voglia di mettere a confronto l’istigazione al suicidio con il favoreggiamento della prostituzione. Può capitare, come è capitato alla Corte Costituzionale italiana, di pronunciarsi a favore della incostituzionalità, a certe condizioni, dell’art. 580 cp (istigazione o aiuto al suicidio). È successo d’altra parte che la stessa Corte abbia deciso, nello stesso periodo, di mantenere costituzionalmente fondato l’art. 3, primo comma, numero 4), prima parte, e numero 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75, «nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata»49. La Corte, cioè, ha escluso che una persona possa in piena consapevolezza e volontà decidere di esercitare la prostituzione. Al di là di tutte le elegantiae iuris50, il ragionamento della Corte si basa essenzialmente su due motivazioni principali, che troviamo scritte nella sentenza:
“E’, in effetti, inconfutabile che anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede51”.
Sono queste le due motivazioni principali in base alle quali il legislatore costituzionale di uno stato laico ha ritenuto che non ci possa essere, da parte di una persona, una scelta consapevole e volontaria di prostituirsi. Due motivazioni assolutamente apodittiche e confutabilissime: quella che vi siano sempre dei “fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo” che si prostituisce; quella che vi sia una “naturale riluttanza” a prostituirsi.
Occorre davvero un grande coraggio e una immensa laicità per prendere decisioni che siano libere da condizionamenti religiosi o da orientamenti di opinione prevalenti in un dato momento storico. Occorre una laicità asintoticamente immensa, tenuto conto che, alla nota affermazione di Ivan Karamazov che “se Dio non c’è, allora tutto è possibile”, l’uomo moderno, come acutamente osservato da Lacan nel 1950 davanti a un pubblico di magistrati, non manca di rispondere “Dio è morto, più niente è permesso”52. Teniamo conto, allora, che è la presenza della Legge a rendere più o meno plausibili e credibili le leggi.
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1 MAiD: Medical Assistance in Dying
2 MAiD MD-SUMC: Medical Assistance in Dying where a Mental Disorder is the Sole Underlying Medical Condition.
3 CENDON (2015).
4 BRANDI (2005). La rivista ‘Il reo e il folle’ dedicò due interi numeri tripli al tema, intitolandoli: Coazioni benigne 1 e 2.
5 European Psychiatry Association (2018). La definizione di gentle coercion si trova a p. 88.
6 BRANDI (2005), p. 10.
7 Si veda, ad esempio, CEDU (2022).
8 CARTABIA (2021).
9 Il video è stato diffuso il 21.12.2022: CENDON (2022).
10 Ibidem.
11 PERSONA & DANNO (REDAZIONE) (2022).
12 ENGLAND AND WALES COURT OF PROTECTION (Decision) (2012).
Si veda come la notizia fu pubblicata, subito dopo la sentenza, da THE HERALD (2012).
13 HIGH COURT OF IRELAND (Decision) (2021).
Si veda, ad esempio, come è stata data la notizia, sul sito Mason Hayes & Curran, da POWER K. (2022).
14 SUPREME COURT OF IRELAND (1995).
15 La notizia venne data sui quotidiani nazionali. Si veda, ad esempio, PLEUTERI (2008) su La Repubblica.
16 ROSSI (2008).
17 Del caso parlarono diverse testate giornalistiche nazionali. Si veda, ad esempio, GERACI (2013) su il Corriere della sera (esteri).
18 IANNUCCI (2013).
19 Si veda, ad esempio, come PERILLI B. e PASOLINI C. (2019) trattarono il caso su La Repubblica il 4/07/2019.
20 POTHOVEN (2018), Winnen Of Leren, 2018, Olanda.
21 IANNUCCI e BRANDI (2019).
22 SOUMOIS (2022).
23 Una riflessione sul bellissimo caso di Hadam Henry e del giudice Fiona Maye, dell’Alta Corte Britannica, sarebbe utilissima in proposito. Si tratta del caso ‘semi-inventato’ da McEWAN (2014) nel suo romanzo breve The Children Act.
24 CORTE COSTITUZIONALE Italiana (2019). La citazione è a p. 21.
25 In molti hanno affrontato negli anni questi temi. Qui si citerà soltanto il recente contributo, senza dubbio apprezzabile, di uno dei giudici (VIGANO’ 2019) che faceva parte della Corte Costituzionale al momento della pronuncia della sentenza 242/2019 sul suicidio assistito.
26 CEDU (2022b), Affaire Mortier c. Belgique, 04 ottobre 2022.
27 ARCAND (2003). Denys Arcand scrisse e diresse il film Les invasion barbares nel 2003, vincendo fra l’altro il 1° Premio a Cannes come migliore sceneggiatura. La sceneggiatura fu pubblicata, sempre nel 2003, con il medesimo titolo.
28 Si veda come la notizia è stata riportata dalla CANADIAN MENTAL HEALTH ASSOCIATION (2022) il 14 ottobre 2022.
29 Stiamo parlando del caso canadese perché recente e piuttosto dibattuto sulle riviste mediche internazionali accreditate. Ma alla fine della storia, seppure a volte tra le righe, la MAiD MD-SUMC (Medical assistance in dying where a mental disorder is the sole underlying medical condition) è stata di fatto autorizzata, più o meno surrettiziamente, in diversi altri paesi western.
30 HEALTH CANADA. EXPERT PANEL ON MAID AND MENTAL ILLNESS. FINAL REPORT (2022).
31 THE LANCET PSYCHIATRY (2023) (EDITORIALE).
32 GAUDIANI et al. (2022).
33 Ibidem, p. 10. Il corsivo è di questi Autori.
34 DOWNS et al. (2023).
35 Qui citeremo una sola di tali linee guida, forse la più accreditata: NICE CLINICAL GUIDELINE, [NG105] SUICIDE (2018).
36 Anche in questo caso riporteremo un solo articolo, questa volta italiano: BIONDI et al. (2016). Nell’articolo sono però contenuti molteplici riferimenti bibliografici.
37 SACCHINI e. PEREGO (2011).
38 E’ questo il titolo di un libro scritto sul mass murder Anders Brevik (che nel 2017 ha anche ottenuto di cambiare nome, chiamandosi quindi Fjotolf Hansen) dalla giornalista norvegese Åsne SEIERSTAD (2016).
39 MILLER (2022).
40 Si veda ANSA.IT (2022).
41 C’è chi lo ha fatto, senza avere la pretesa che i casi analizzati esaurissero l’ormai ampia platea dei mass murders degli ultimi tempi. Specie considerando che ben poco si conosce degli autori di stragi di massa a sfondo religioso, compiuti in particolare da radicasti islamici. Si veda, ad esempio, IANNUCCI (2018).
42 In Italia, nel 2022, abbiamo avuto 54.841 detenuti su 58.983.122 residenti: tasso di detenzione 93 detenuti per 100.000 abitanti. I dati sono stati tratti da SERVICEMATICA (2023) e da ISTAT (2022).
Negli Usa ci sono stati 655 detenuti per 100.000 abitanti (tasso di detenzione) (LEE 2023).
43 HEALTH CANADA. EXPERT PANEL ON MAID AND MENTAL ILLNESS. FINAL REPORT (2022), cit., p. 82.
44 Si veda, ad esempio, la già citata Sentenza della CEDU (2022a) del 24 gennaio 2022 – Ricorso n. 11791/20 – Causa SY c. Italia.
45 REMS è l’acronimo per Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. In verità si sarebbero dovute chiamare REMSD, con la D che sta per Detentive, visto che le MS non detentive per gli infermi e i seminfermi di mente possono essere eseguite anche fuori dalle REMS. Ma non lo si è fatto, con una ipocrisia che non è solo italiana. Ci sarebbe da capire, fra l’altro, se sia preferibile stare in un carcere o in una REMS. Pochi anni or sono i due autori di questo articolo accompagnarono un gruppo di studenti di una Università americana in visita in un ‘vetusto’ carcere situato in un bellissimo edificio storico. Subito dopo portarono gli studenti in visita all’adiacente REMS. In viaggio sul pullman uno di noi rivolse questa domanda agli studenti: “Preferireste essere detenuti in quel carcere o in quella REMS?”. La risposta fu immediata e unanime: “Nel carcere!”
46 RISTRETTI ORIZZONTI (2023). Dossier Morire di carcere.
47 Si veda il FOUCAULT (1963), di Histoire de la folie à l’âge classique. Ma soprattutto, per quanto qui cci riguarda, il FOUCAULT (1976) di Moi, Pierre Rivière ayant égorgé ma mère, ma soeur et mon frère: un cas de parricide au XIXe siècle.
48 Moosbrugger è l’assassino ‘seriale’ di prostitute il cui caso attraversa come un filo rosso L’uomo senza qualità di Robert MUSIL (1930/1943).
49 CORTE COSTITUZIONALE (Italiana) (2019a). Il grassetto è di questi autori. La Corte ha emesso la sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui).
50 Il riferimento è a Piero CALAMANDREI (1950), il quale nel 1950, nel discorso inaugurale del Congresso Internazionale di diritto processuale civile tenuto a Firenze, pronunciò queste parole memorabili: “[…Per riassumere] in una sola frase il programma per continuare con rinnovata fiducia il nostro lavoro, [… è necessario] ricordarsi che il processo è essenzialmente studio dell’uomo: non dimenticarsi mai che tutte le nostre simmetrie sistematiche, tutte le nostre elegantiae iuris, diventano schemi illusori, se non ci avvediamo che al di sotto di essi di vero e di vivo non ci sono che gli uomini, colle loro luci e le loro ombre, colle loro virtù e le loro aberrazioni”, p. 576.
51 CORTE COSTITUZIONALE (Italiana) (2019). Sent. 141/2019 cit., p. 9. Il corsivo è di questi autori.
52 LACAN (1950), p. 124. La frase completa di Lacan è la seguente: “Alla concupiscenza che brilla negli occhi del vecchio Karamazov quando interroga il figlio: «Dio è morto, allora tutto è permesso», quest’uomo [der gehemmte Mensch], lo stesso che sogna il suicidio nichilista dell’eroe di Dostoevskij, o che si costringe a soffiare nel pallone nietzschiano, risponde con tutti i suoi mali come con tutti i suoi gesti: «Dio è morto, più niente è permesso»”.
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