INTRODUZIONE
Verso i disturbi psichici è documentabile oggi una eterogeneità e variabilità sconcertante di risposte terapeutiche. o che aspirano a essere tali. Questa varietà si palesa facilmente, se soltanto si vogliono osservare da vicino non solo i malati o i discorsi che si fanno nei manuali sui loro “disorders", ma i dettagli degli atti terapeutici che di volta in volta vengono concretamente compiuti dai vari operatori nelle diverse sedi istituzionali. A dispetto dei tentativi di standardizzazione e razionalizzazione, ispirati al modello ‘diagnosi precisa/terapia specifica', negli interventi che di fatto si realizzano vengono attivati i più vari criteri e atteggiamenti; i criteri sono tuttavia spesso destinati a restare impliciti e gli atteggiamenti ad essere del tutto inconsapevoli. Gli interventi si ispirano inoltre a orientamenti e riflettono linguaggi che non è facile integrare fra loro, nonostante che l'istanza a favore di un intervento integrato sia oggi divenuta una sorta di parola d'ordine fin troppo condivisa da molti psichiatri e ammessa senza difficoltà anche da molti psicoanalisti. La complicata questione investe anche il ‘combined approach”, dove si coniuga terapia psicofarmacologica e trattamento psicoterapeutico, o terapia psicofarmacologica e cura psicoanalitica (Schachter. 1992).
Su tutto questo vorrei esporre alcune brevi riflessioni molto generali, dettate soprattutto da una considerazione delle pratiche realmente attuate. La riflessione non riguarda l'atto terapeutico specifico che si produce ogni volta che una certa specifica valutazione diagnostica lo richiede, quanto piuttosto la forma complessiva degli interventi. Un conto è una tavola mali–rimedi che giace in un libro, e altro conto è la sua applicazione clinica concreta, che passa necessariamente attraverso discorsi, rapporti umani e giochi relazionali. La questione non investe soltanto il rapporto psicologia/psichiatria, o il conflitto tra “psychoanalytic psychotherapy” e “medication”, ma l'essenza stessa dell'atto psichiatrico in generale.
UNA GRANDE CONFUSIONE
Dirò subito che si ha l'impressione che vi sia verso tutto il problema una grande confusione. Basta pensare che quando si parla di risposta terapeutica si pensa in genere sempre e solo al paziente, alla sua risposta clinica valutata in termini di efficacia nell'eliminazione dei sintomi; si tace invece facilmente la risposta del medico o dell'istituzione curante, che è fatta di atti, di parole e di scelte che eccedono ampiamente la semplice prescrizione o somministrazione di farmaci: questi aspetti eterogenei sono facilmente sottovalutati, ritenuti aspecifici” e spesso trattati, a mio avviso del tutto erroneamente, come qualcosa da mettere fra parentesi in quanto poco rilevante: o per un eccesso di variabilità di tali elementi, che li renderebbe imponderabili; o perché al contrario si considera che gli atteggiamenti terapeutici possiedano un'uniformità, che di fatto non esiste. In ogni caso mi sembra del tutto evidente che negli atti terapeutici complessivamente considerati si metta in opera un insieme molteplice di elementi extrafarmacologici che tendono a sottrarsi a ogni concettuatizzazione. Dietro l'imperturbabilità dell'atteggiamento scientifico ed empirico del clinico orientato verso l'oggettivazione, in realtà esistono molte differenze effettive e una grande varietà di atteggiamenti e stili terapeutici. Ritengo questi aspetti solo apparentemente accessori: essi sono invece importanti e talvolta decisivi nella costituzione e caratterizzazione dell'atto clinico complessivo e in ultima analisi essi risultano addirittura essenziali per la valutazione corretta dell'efficacia di un farmaco.
Il diagnosta-prescrittore, che sembra procedere mediante un protocollo standardizzato e sicuro, o che perlomeno si presenta sicuro egli stesso dei suoi strumenti e dei suoi linguaggi, ottiene per esempio con facilità il risultato di apparire all'utente” (ma non altrettanto facilmente al collega!) come una figura demiurgica potente e capace. Ciò può ottenere effetti che nulla hanno a che vedere col farmaco in quanto tale. Ma poiché demiurgo e ciarlatano sono purtroppo pericolosamente vicini, nello stesso modo in cui le concezioni monolitiche e unilaterali sono prossime alla paranoia, conosciamo anche con quale facilità le prescrizioni psicofarmacologiche, pur così richieste e attuate, promuovono svalutazioni e risposte terapeutiche negative. Risposte che testimoniano, più che l'inefficacia del farmaco impiegato o l'errore diagnostico, una disfunzione e un'inadeguatezza dell'atto terapeutico nel suo insieme.
L'angoscia, il dolore morale, la depressione esigono risposte risolutrici, che tolgano il soggetto da un vissuto insopportabilmente penoso. Rispetto all'urgenza e all'istanza di uscire in fretta dal tunnel depressivo o dalla morsa dell'angoscia, l'approccio psicologico e psicoterapeutico sono sempre apparsi alquanto inadeguati. Troppo tempo richiesto per spiegarsi, troppa incertezza circa l'utilità del dialogo o dell'incontro, troppo fragile l'efficacia della parola. così facilmente avvertita come insufficiente per arginare la situazione dolorosa o almeno ottenere un sollievo. Da qui l'idea di un primato del farmaco, la speranza in un'azione chimica sulle fonti somatiche della sofferenza, speranza divenuta in molti casi una realtà con la moderna psicofarmacologia.
RIFIUTARE L'INTEGRAZIONE?
E' noto che Freud stesso si pronunciò a favore del progresso scientifico che avrebbe condotto ad eliminare o ridurre per via chimica la sofferenza psichica, sino a porre una sorta di alternativa tra l'efficacia dell'intervento farmacologico, che prima o poi si sarebbe raggiunta, e la strada tortuosa e problematica che la psicoanalisi propone per il superamento dell'angoscia.
Chi infatti percorrerebbe una strada irta di ostacoli e dall'esito incerto, se per raggiungere la stessa meta fosse disponibile una via breve e veloce? Ovviamente quasi nessuno o pochi temerari masochisti.
Quanto a brevità e a un'azione che aspira ad essere efficace e che prescinde da qualsiasi riferimento al soggetto, azione magica e azione psicofarmacologica si assomigliano stranamente. E' inevitabile cogliere un'alternativa, o addirittura la divergenza, tra l'uso dl composti psicofarmacologici e il tentativo di attivare, mediante un mossa puramente psicologica, posizioni personali che consentano di superare più o meno consapevolmente le difficoltà. Ma come pensiamo questa divergenza? O si tratta piuttosto di due modi paralleli, che non hanno alcun punto di contatto? E se pure non l'avessero, non potremmo pensare a una forma di armonizzazione fra queste modalità diverse, che talvolta – ora nel bene, ora nel male – si rinforzano reciprocamente?
Quale terapeuta medico o psicologo si rifiuterebbe del resto oggi di prescrivere (o far prescrivere) uno psicofarmaco in nome del rigore psicoterapeutico affidato a una parola risanatrice? Certamente non si sarebbe comportato nel senso di rifiutare uno psicofarmaco Freud, che pure concepì la psicoanalisi in un'epoca nella quale non esistevano veri rimedi farmacologici per le malattie mentali. Sappiamo infatti che Freud, nella sua concezione delle nevrosi e delle psicosi, affidò una parte importante dell'etiologia a fattori d'ordine costituzionale sui quali la psicoanalisi nulla poteva fare e che erano responsabili degli orientamenti energetici sfavorevoli presenti nei disturbi psichici. Per questi fattori quantitativi d'ordine pulsionale si poteva, mediante il lavoro psicologico dell'analisi, cioè mediante un'azione in gran parte solo indiretta, ottenere un diverso e più favorevole orientamento, distribuzione, mobilitazione, articolazione o legame. In funzione di ciò, Freud poté affermare nel 1938:
“Può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell'apparato psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che per adesso non possiamo neppure sospettare; per ora non abbiamo nulla di meglio a disposizione che la tecnica psicoanalitica; per questo, nonostante i suoi limiti, non dovremmo disprezzarla”.
Altrove (1932) egli poté tuttavia anche dire che, al di là dell'efficacia della cura analitica, che non era diversa da quella di altri trattamenti e che poteva vantare successi e insuccessi come ogni altra terapia, la psicoanalisi doveva essere considerata anche e soprattutto per il suo contenuto di verità, per ciò che essa faceva conoscere dell'esperienza umana. Personalmente anch'io condivido questo valore di verità della psicoanalisi e posso pensare dl assegnare addirittura alla verità un valore terapeutico. Tuttavia non c'è bisogno di riferirsi a Nietzsche per sapere quanto la verità possa risultare anche dolorosa, al punto da non poter essere sopportata dallo spirito, producendo un effetto che è l'opposto del sollievo che dà talvolta la menzogna.
In ogni caso va poi considerato che per i non ancora numerosi fautori della terapia farmacologica come trattamento esclusivo e sufficiente – l'unico ritenuto “scientifico” e a cui dare credito – la “verità” della malattia mentale è di ordine psicobiologìco o addirittura genetico. Per chi pensa in questo modo, ogni sguardo rivolto ad altre componenti e in altre direzioni è una pura digressione e infine una perdita di tempo. E' comune esperienza rilevare che una simile posizione del medico può avere come effetto una deresponsabilizzazione del paziente verso il proprio soffrire in nome dell'impersonalità della malattia. E questa deresponsabilizzazione “biologistica”, che assegna ogni peso causale alla “malattia”, svolge, quando la svolge, una funzione paradossalmente psicoterapeutica. Ciò accade in determinati casi con molta evidenza e tipicamente in certe forme di depressione, dove la responsabilizzazione personale e i sentimenti di colpa raggiungono livelli devastanti sino all'assurdo.
I PRESUPPOSTI DELL'INTEGRAZIONE
La necessità dell'integrazione fra trattamenti farmacologici e trattamenti psicologici o psico-sociali, per chi ha posizioni unilaterali intransigenti, sia “biologistiche” sia “psicologistiche”, può non avere alcun senso. Ma per la maggioranza degli operatori questo problema esiste e si richiede che venga pensato correttamente.
Dal momento in cui si è iniziato da un lato ad allargare l'indicazione del trattamento psicoanalitico a forme di nevrosi gravi, a organizzazioni psicotiche del carattere e persino alle forme schizofreniche, dall'altro a disporre di farmaci psicoattivi che potevano essere efficacemente prescritti a questo tipo di pazienti, il problema dei rapporti concettuali e operativi fra i due ordini di interventi, così diversi tra loro, ha cominciato a porsi concretamente.
Esaminiamo più dappresso quest'idea di integrazione degli interventi, che ha nel nostro campo un significato piuttosto ampio e che tocca le radici stesse della sofferenza psichica.
La malattia mentale si presenta, dal punto di vista dell'integrazione psichica, sotto la forma della perdita o del difetto di tale integrazione, quindi come scissione fra parti, dissociazione, frattura o frammentazione. Sembrerebbe ovvio quindi che l'intervento terapeutico debba svolgere funzioni reintegratrici per chi quest'integrità ha temporaneamente perduto o favorire lo sviluppo di un'unità personale che non si è mai sufficientemente costituita: favorendo in qualche misura la maturazione o la crescita. Se proposizioni descrittive così generali possono forse trovare d'accordo molti, le difficoltà incominciano quando si vogliono precisare meglio queste immagini, fornendo loro lo spessore di concezioni scientifiche, ipotesi di lavoro, modelli interpretativi e operativi. Si verifica facilmente che alla dis-integrazione del paziente corrisponda nel campo dell'intervento un insieme teorico-clinico esso pure disgregato e travagliato da impostazioni e concezioni diverse.
E' evidente che non si può veramente prescrivere a qualcuno di “fare un intervento integrato”, così come non si può dire “fai un transfert analitico”. Ma penso anche, in polemica con chi sostiene il contrario, che non si possa veramente dire neppure: ‘Limitati a prescrivere uno psicofarmaco”. Eppure proposizioni simili a queste le ho proprio sentite dire nel corso degli anni, anche recentemente e anche da clinici illustri.
Vorrei brevemente illustrare perché ritengo scorrette queste formulazioni.
a. Il “transfert” non può essere “fatto” volontariamente, perché si tratta di un fenomeno che si sviluppa nei rapporti umani in modo automatico e inconsapevole. La nozione di transfert ci aiuta a coglierlo e quindi a regolare i rapporti con il paziente alla luce del tipo di valutazioni che scaturiscono dal vedere le cose in questo modo. Alla luce della nozione di transfert colgo cioè certi movimenti affettivi, comportamenti, eccetera, senza necessariamente sviluppare i numerosi giochi interpersonali e linguistici che si possono attivare a partire dalla considerazione più o meno condivisa di questo modo di vedere. Grande parte della discussione clinica fra psicoanalisti riguarda le forme che è opportuno assumano tali giochi in ciascun caso e in funzione di ciò che si vuole ottenere. Inoltre, da quando il fenomeno del transfert è stato messo in evidenza, cioè dal caso freudiano di Dora, esso ha sempre posto simultaneamente il problema della risposta ad esso, risposta essa stessa implicata con fenomeni transferali sul versante dell'osservatore clinico. Tutto lo sviluppo incessante di interrogativi che ne è scaturito è forse sintetizzabile in un'unica domanda generale e fondamentale che il clinico dovrebbe porsi di fronte al paziente: “Chi sono io per lui e chi è lui per me?” Una domanda difficile e amletica , fastidiosamente complessa e comunque incompatibile sia con l'azione sicura di sé, sia con un atteggiamento che aspira a essere puramente prescrittivo. Essa è invece la domanda tipica di un campo congetturale specifico, quello della psicoanalisi. Il campo congetturale specifico della psicoanalisi gestisce tale interrogativo praticamente nella relazione terapeutica e concettualmente mediante la mobilitazione della teoria psicoanalitica e delle riflessioni a cui si ispira e che si producono da essa. E' evidente, mi pare. che la domanda “Chi sono io per lui e chi é lui per me?” possa avere comunque un suo valore generale anche in medicina e in psichiatria: non porsela affatto ha sicuramente effetti importanti sull'atto medico . Quali? I più diversi. Certamente l'effetto di semplificare la relazione terapeutica nella direzione di una riduzione del ruolo medico a pura funzione tecnica impersonale. Un conto è comunque non porsi la domanda perché deliberatamente, “per metodo”, non le si vuol dare corso, e un conto è non porsela per superbia, megalomania, cecità o scotoma, o perché la si ritiene concettualmente improponibile. Non mi interessa in questo momento dire come sia meglio secondo me procedere fra questi vari modi, ma sollevare una questione che ritengo fondamentale, e alla quale ciascuno può rispondere a suo modo.
b. Quanto a un intervento psicofarmacologico che aspira ad essere solo tale, cioè quello di una molecola che si inserisce nel gioco della trasmissione sinaptica entro sistemi neurali funzionalmente definiti, è evidente che siamo di fronte a un'astrazione schematica, che può essere idealmente perseguita con vari espedienti e indagini in situazioni sperimentali sull'animale o sull'uomo. Ma, non appena si entra nella dimensione clinica concreta, una modellizzazione di questo tipo, soprattutto se oggetto di un'applicazione esclusiva, conduce a posizioni aberranti e a un certo tipo di alienazione dei rapporti umani. Ciò che così si tenta di cacciare dalla finestra – l'elemento personale e interpersonale, il linguaggio, la dimensione simbolica, sociale e affettiva dell'esperienza – fa subito sentire i suoi effetti potentemente. rientrando facilmente dalla porta. Se il bios gioca un ruolo determinante sullo psichico, è anche vero il contrario: la mente, la cultura raggiungono la natura e il corpo nella sua naturalità in termini estremamente concreti (come già nel 1926 M. Mauss aveva acutamente osservato). Anche dal punto di vista neurobiologico Edelman (1989) ha sottolineato decisamente il polimorfismo e la complessità sottesi all'esperienza soggettiva, concludendo che “i tentativi terapeutici di modificare particolari efficacie sinaptiche per conseguire particolari stati o comportamenti devono continuare ad includere comunicazione e scambio verbale”, considerando che nessun farmaco noto, vista la variabilità individuale degli schemi sinaptici, “potrà fornire una selezione efficace di gruppi neuronali isofunzionali, conducendo in tal modo a input e output identici in individui diversi”.
Da una sottovalutazione di questa connessione somato-psichica di fondo, che può avvenire nel due sensi, possono nascere molti equivoci ed errori di valutazione dei fatti. Pensiamo alle “guarigioni” dopo poche ore dall'assunzione di un farmaco, oppure alla consistente nebulosa rappresentata dai non responders e dal fenomeno del drop out. Ma pensiamo anche agli elementi sottesi alla cosiddetta compliance: sia alle sue premesse personali, sia ai fattori interpersonali mobilitati dal medico per ottenerla, sia infine alla selezione che essa opera nella popolazione del pazienti sul piano della ricerca psicofarmacologica.
SOMMINISTRARE "LA GIUSTA TERAPIA"
Ciò che nella prospettiva psicofarmacologica sperimentale costituisce un resto imbarazzante, un ostacolo da aggirare con vari espedienti statistici, metodologici o ancora psicofarmacologici, può assumere in un'altra prospettiva un significato totalmente diverso: quello di mostrare i limiti e l'unilateralità delle presupposizioni di partenza. Gli elementi personali e sovrapersonali, che il lavoro diagnostico, le rating scales, i metodi in doppio cieco avevano cercato di estromettere come fastidioso “effetto persona”, si ripresentano come un imbarazzante ritorno del rimosso, non integrabile e incomprensibilmente enigmatico, proprio nel luogo stesso della rimozione, cioè nell'atto clinico che aspira all'impersonalità. Gli esempi degli inconvenienti e degli errori di giudizio clinico e metodologico che così si determinano potrebbero essere tanti. Ma nonostante tutte queste difficoltà, potremmo dire, rovesciando il senso originario del motto di Charcot: Ca n'empeche pas d'exister!; anzi, l'intervento psicofarmacologico può essere realmente efficace ed è sempre più in auge.
Se in medicina e anche in psichiatria interessa soltanto la somministrazione terapeutica giusta, perché invocare una dimensione psicologica della relazione terapeutica o un livello dell'ascolto clinico che mette in gioco l'interiorità dell'esperienza o il suo intreccio psico-sociale e relazionale? Wittgenstein utilizzò come esempio proprio una tipica situazione medica per circoscrivere in negativo e ironicamente lo spazio dell'ascolto psicologico. Questo spazio virtuale della soggettività, con tutte le sue complicate connessioni, lo supponiamo collocato fra la descrizione del comportamento del malato e la risposta che ottiene. Ma si tratta di un luogo che non necessariamente va pensato e esplorato, perché un certo tipo di risposta medica si produca.
Il medico domanda: “Come si sente il paziente?'. L'infermiera risponde: “Si lamenta”. Un resoconto del suo comportamento. Ma è veramente necessario che sorga la questione se questo lamentarsi sia genuino, se sia davvero l'espressione di qualcosa? Non potrebbero, per esempio, trarre la conclusione: “Se si lamenta dobbiamo dargli ancora dell'analgesico” senza con questo tacere nessun termine medio? Quello che conta non é forse il servizio al quale mettono la descrizione del comportamento? (Wittgenstein, 1953, 238).
Il fatto notevole e istruttivo di questo passo mi sembra questo: esso evidenzia come la sequenza ‘ascolto Æ descrizione Æ risposta' non sia di per sé affatto trasparente né veramente vincolante; essa si dimostra invece asservita a scopi specifici e a presupposizioni tacite: i quali corrispondono al preciso gioco linguistico e sociale ogni volta attivato. Chiedersi il senso di quel lamento e di quel modo di rispondere ad esso introdurrebbe un altro, diverso gioco: scoprire qualche “termine medio”, immaginare anelli mancanti, interrogare ulteriormente il malato e anche il medico.
Ognuno potrebbe facilmente citare degli esempi che mostrano come, in certe circostanze, è opportuno o addirittura indispensabile non rispondere a cortocircuito con l'analgesico, ma procedere diversamente. E' necessario cioè ascoltare di più, indugiare nell'ascolto. Potrebbe non avere alcun senso dare un sedativo a colui che si lamenta; come non lo avrebbe rispondere con uno psicofarmaco ad Arianna, quando ne ascoltiamo il doloroso lamento. Il “lamento di Arianna” va solo ascoltato, almeno dallo spettatore. E le risposte possibili, alcune delle quali risolutive, sono intanto quelle stabilite dal mito di Arianna abbandonata e dalle sue varianti.
In altri casi e per alcuni non avrebbe invece senso indugiare in un ascolto che si dimostra poco produttivo, e converrebbe decisamente “somministrare imipramina”, come sosteneva ragionevolmente Binswanger. Il grande psicopatologo, che pure aveva mobilitato un notevole apparato filosofico e concettuale per accostarsi alla melanconia e alla mania, conservava tuttavia l'idea tenace che l'essenza di queste forme fosse da ricercare in un “esperimento della natura”. Un esperimento decisamente malriuscito dell'essere, che aveva allentato e infine confuso i fili della trama intenzionale dell'esperienza. Come si vede, anche da parte binswangeriana la disintegrazione dilaga: dal malato – dal modo in cui egli è visto – alla forma di intervento che viene prescritto. Poiché ogni ascolto, almeno per lo psicoanalista, contiene qualche ostacolo, sarebbe essenziale sapere come e da chi esso viene concepito, dove esso andrebbe collocato.
c. Infine l'integrazione degli interventi clinico-terapeutici non è un atto che si può decidere di realizzare semplicemente, da un momento all'altro: l'intervento integrato può solo appartenere alle intenzioni di un gruppo o di un singolo clinico ed essere qualcosa che viene auspicato entro un certo “quadro” dello stato di cose. L'integrazione è allora prospettabile come un principio di unità o adeguatezza a cui ricondurre l'eterogeneità degli elementi in gioco. La scucitura dell'esperienza, o la irregolarità della tessitura (immagini che pure Freud ha qua e là impiegato) riguardano comunque anche l'approccio terapeutico sul versante dei curanti. Anche l'insieme curante dà quasi regolarmente prova di essere il prodotto di un esperimento malriuscito d'ordine essenzialmente culturale o gruppale.
TERAPIA INTEGRATA
In realtà la psichiatria in azione si confronta con un'eterogeneità di livelli e fattori tecnici, teorici, istituzionali; l'enfasi posta su un unico livello ne trascura inevitabilmente altri e questo é intanto un primo grado di disarmonia. Non c'è dubbio che chi segue un modello teorico-operativo specifico, quale che esso sia, trascura certi aspetti della realtà e dell'esperienza. Lo scopo di un modello è proprio quello di consentire un'elaborazione di certi fatti, ponendone altri in condizioni di trascuratezza, fuori dall'ordine che il modello istituisce. Da ciò l'utilità e i limiti di ogni modello. L'adesione a un modello preferenziale conferisce una certa sicurezza operativa, e avere a che fare con un operatore sicuro del fatto suo è spesso preferibile al riferirsi a un operatore che oscilla confusamente fra possibili procedimenti diversi.
Potremmo benissimo immaginare una prassi clinicoterapeutica in cui tutti gli operatori sono d'accordo nel mettere tra parentesi ogni riferimento personale e mirano tutti alla realizzazione di una prescrizione psicofarmacologica. Possiamo immaginare, per esempio, che la potenza terapeutica sia concentrata nelle mani di un unico prescrittore, rispetto al quale il resto dell'équipe svolge solo funzioni diagnostiche (o divinatorie: qui l'analogia con le terapie tribali tradizionali si impone). Una simile procedura fa scadere proprio la scientificità del procedimento adottato, ma non necessariamente la sua efficacia. Ci pensa comunque la realtà, cioè i molti scacchi delle nostre consuetudini clinico-terapeutiche e di comprensione, a mostrarci i limiti dei modelli adottati, di ogni modello. D'altra parte non disponiamo di un supermodello che li unifica tutti. I punti di vista neurobiologici, psicologici e sociali possiedono ciascuno una autonomia di metodi e linguaggi, ma non conosciamo una unificazione teorica di queste diverse prospettive, peraltro assai travagliate esse stesse da disomogeneità al loro interno.
In qualche modo una forma di unificazione dei livelli considerati avviene nella pratica, anche inconsapevolmente: ad esempio, dico una parola d'aiuto, insieme prescrivo un farmaco, e intervengo su una condizione economica precaria del medesimo soggetto. Manca una “camera di compensazione' teorica universalmente condivisa per il pareggio dei diversi valori messi così in gioco. La somministrazione di una parola adeguata può valere quanto un farmaco, ma comunque è una cosa diversa, come è diversa da un aiuto in denaro. Se pensiamo che ciascuno di questi momenti può nell'istituzione essere erogato da una persona diversa, con un ruolo differente entro l'istituzione-macchina, ci accorgiamo che la frammentarietà è la condizione ordinaria della risposta clinico-terapeutica standard. I modelli e le concezioni che guidano ciascuno di questi interventi possono essere tantissimi e in netto contrasto fra loro. La combinazione di questi vari momenti rischia dunque non l'eclettismo, ma l'accozzaglia, la confusione sistematica e l'arbitrio.
La parola “integrazione” ha una grande tradizione concettuale nel nostro campo. Penso solo all'integrazione nervosa”: strutture e elementi morfologicamente e funzionalmente diversi concorrono alla costituzione di un'unica funzione, che non può essere localizzata da nessuna parte, se non appunto nell'integrazione del tutto. Monakov e Mourgue (1928) facevano l'ottimo paragone del S.N.C. con un carillon, fatto di tante parti: il rullo, la molla, la manovella, il pettine accordato, i dentini, ecc. E si chiedevano: dove si localizza in questa macchina la melodia? Da nessuna parte e dappertutto, evidentemente. Cioè nel funzionamento integrato delle parti. Se qualche parte non funziona correttamente, la melodia ne risente in vario modo.
Risposte integrate da parte di istituzioni terapeutiche significa risposte melodiche. Ma che dire di un carillon che pretendesse di suonare melodie con ciascuna delle sue parti? Purtroppo i modelli clinico-terapeutici aspirano ciascuno a un certo imperialismo, dove si giocano il potere terapeutico e i conflitti relativi. La soluzione non sta certo nell'eclettismo (per esempio: un sotto-servizio per ogni indirizzo e metodo, per ogni gruppo nosologico e i relativi psicofarmaci), che produce rigidità e un'identità professionale asservita ai modelli e cangiante. Comunque forse le posizioni culturali possono essere eclettiche, ammettere un certo pluralismo di vedute coesistenti; ma al medico si richiede l'integrità personale della presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la responsabilità finale della posizione terapeutica. Questo principio di integrità, che credo anche Jaspers condividerebbe, non va mai dimenticato.
A livello istituzionale il problema diventa culturale: l'integrazione è il risultato di un cemento culturale dell'insieme. Un orientamento del singolo, dell'équipe, dell'insieme deve accompagnarsi a una consapevolezza dei momenti ideologici e parcellarizzanti del lavoro, che rimanda alla necessità di una “metacritica” dei vari modem emergenti e assicuri la costituzione di un continuum, di un'intesa e di un'identificazione reciproca. Ogni cultura psichiatrica deve essere consapevole, cioè attenta al metalinguaggi con i quali descrive la propria esperienza e a come la elabora nel tempo. Il suo compito non è soltanto applicare uno o più modelli, ma rendersi conto di come i modelli vengono via via proposti e impiegati.
Anche il nesso fra tipo di intervento attuato in base a un “modello” e “miglioramento” clinico del paziente è problematico e può fornire indicazioni fuorvianti sulla bontà del modello come tale. Procedure terapeutiche ossessive, oppure di stile paranoico di singoli o di intere équipes possono benissimo registrare successi terapeutici di vario genere, senza bisogno di porsi il problema dell'integrazione. L'integrazione è una questione di correlazioni di ipotesi sul caso e di stili omogenei di comprensione, particolarmente necessari se, per esempio, pensiamo di dover contenere e ricomporre frammentazioni e scissioni del paziente, realizzando dal lato del terapeuta e per Il paziente continuità e una presenza personale e istituzionale che non si distoglie e non si scoraggia.
CONCLUSIONI
Infine un ultima considerazione dà a tutto il problema dell'integrazione una prospettiva diversa e apre un nuovo ambito di importanti riflessioni. Il medico anche più biologisticamente “disintegrato” ha il potere di introdurre e ordinare la sofferenza del malato in un sistema mitico molto potente, che oppone malato e medico a un sistema del male: di un male che il medico conosce e contro il quale gli è offerta l'opportunità di mobilitare uno, due, o più farmaci mirati. La partizione fra bene e male, entro la quale la malattia-che-si-ha è naturalmente integrata, attiva verso la sofferenza tutta una geografia morale con le sue divisioni e i suoi confini, che consentono di combattere la battaglia terapeutica e obbligano Il malato a definire da che parte sta. Questo “gioco”, se vediamo le cose così, mette in atto implicitamente un sistema psicologico assai complicato, che tuttavia si risolve e condensa pienamente nelle mosse localizzatorie e interattive della prescrizione e dell'assunzione di farmaci, dell'assenso o del rifiuto alla cura. Occorre comprendere quanto siano caricate e come concentrate sul medico prescrittore una serie di funzioni che, comunque le si denomini, vanno molto al di là del giudizio tecnico che l'esperto può formulare sul farmaco. Se vediamo le cose in questi termini, ci accorgiamo che l'atteggiamento più impersonalmente “biologico” è in psichiatria già in qualche modo integrato con una visione etica, con un lavoro di definizione e localizzazione del positivo e del negativo e delle forze in gioco, che implica transazioni, prese di posizione e scambi, personificazioni, obiettivazioni alle quali il medico concorre variamente, insieme al paziente, in forme che possono essere le più varie. In questa prospettiva esistono due livelli generali dell'integrazione: un livello generalissimo, che non può non essere attivo in ogni forma di scambio anche più impersonalmente biologizzante, e che fa capo a quella ontologia del male che ogni riferimento alla malattia mette in atto. Una componente che in psichiatria ha potenti effetti simbolici e strutturali su tutta la sua pratica. E un livello specifico, che, rilevando le scissioni entro cui si attua la nostra conoscenza dei fatti, vede nell'integrazione un'aspirazione a un significato unitario del comportamenti.
In conclusione vorrei dire qualcosa sul metodo che ritengo necessario mobilitare. Sul piano clinico il metodo che noi adottiamo (parlo qui a nome del mio gruppo di lavoro) non è quello di una “lettura psicoanalitica” dei sintomi o delle vicende del paziente, che si affianca a altre “letture” possibili.
Si tratta di promuovere attorno al caso clinico una visione condivisa, che includa anche le eventuali divergenze. Per realizzare questa finalità il gruppo di discussione entro un campo istituzionale capace di autorappresentazione e elaborazione della conflittualità emergente mi sembra uno strumento fondamentale. Le singole concezioni e specificità professionali devono qui trovare il loro banco di prova. Diversamente i conflitti fra modelli rischiano di generare delle forme di patologia istituzionale Incompatibili col compito del trattamento di un grande numero dl casi.
Appartengo al tipo di psichiatra che crede molto al fatto che una buona parte del suo lavoro debba essere dedicato alla creazione di un buon osservatorio istituzionale, caratterizzato da una particolare attenzione alla qualità del clima entro cui si svolge il lavoro, con le sue varie proposte e ipotesi. Da qui l'importanza per tutti della supervisione a ciò finalizzata. La tematica dell'integrazione (del paziente, degli operatori) dovrebbe essere trattata entro questa prospettiva gruppale, istituzionale, entro un campo che va costruito attraverso un lavoro comune, con gli strumenti del gruppo e della supervisione. E' la mia formazione psicoanalitica che naturalmente ha determinato quest'impostazione, del resto condivisa da molti, pur con una varietà di accenti che non toglie a questo criterio una sua fondamentale unità. L'inevitabile eclettismo della psichiatria trova in questo modo l'opportunità di perdere i tradizionali difetti dell'eclettismo per diventare un discorso e una pratica adeguata alla complessità del caso. Ritengo questa impostazione una premessa indispensabile del mio lavoro. Ma sono certo che le proposizioni sopra enunciate non necessariamente sono condivise da tutti i miei lettori. Esse mirano in definitiva a tenere aperto e in discussione il problema del potere terapeutico: non aspirano ad abdicare a esso, ma a intenderne la natura e soprattutto la funzione.
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