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JOKER. Anatomia del male assoluto.

13 Ott 19

Di Redazione Psychiatry On Line Italia

Joker uno psicopatico con manie di grandezza? Joker uno schizofrenico paranoide? Certamente sì, almeno un po’ di tutto questo. Ma ciò che non è il Joker di Todd Phillips è l’essere un personaggio fumettistico, appartenente ad un mondo quantomeno al confine tra il reale e l’immaginario, e quindi in qualche modo rassicurante. Il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix in una delle sue migliori performance (forse la migliore in assoluto in termini di intensità ed immedesimazione) è un uomo qualunque, segnato però da una storia terribile. Adottato in età precoce (non saprà mai nulla della vera madre), viene a scoprire solo da adulto di essere stato abusato dai vari compagni della madre adottiva, da cui non si è mai separato e che cura con delicatezza e adorazione avendo rimosso completamente gli atroci fatti della sua infanzia. Unico elemento inconsciamente legato a quel periodo, ma che lui stesso non sa spiegarsi bene e per il quale la madre gli fornisce una spiegazione di comodo (un disturbo dovuto ad una lesione cerebrale, gli dice), è il ridere dissociato e compulsivo che a volte lo prende in alcune circostanze, soprattutto se dolorose. È un aspetto della sua personalità che ingloba il segreto della sua atroce infanzia e che decodificherà solo nella parte finale del film, quando inizia l'evoluzione consapevole del personaggio verso il male. Dunque, quella strana e intensa risata per cui fin da piccolo era stato soprannominato dalla madre adottiva Happy, altro non era che una risposta difensiva e automatica all’orrore della sua infanzia, che si attivava quando subiva o vedeva la madre subire gli abusi. Crescendo in lui non rimarrà nessun ricordo del suo passato (questo Joker è in effetti un uomo senza storia, senza radici) se non appunto, in modo inconscio e potremmo dire quasi corporeo, quella strana risata. Sì, il corpo. Perché questa dimensione gioca un ruolo importante nella vicenda del personaggio. È solo attraverso il corpo che Arthur Fleck (questo il vero nome di Joker) pare recuperare in certi momenti un senso di esistenza. Caratterizzato da una magrezza eccessiva (Phoenix è dimagrito di 25 chili per interpretarlo), Arthur lo sostiene attraverso psicofarmaci, necessari a mantenere in qualche modo integra la sua personalità, lo stimola col fumo di sigaretta, ne intensifica la propriocezione attraverso le contorsioni e le danze durante le sue esibizioni solitarie di attore comico fallito. Il suo corpo poi viene duramente picchiato dal sadico di turno (nel suo passato, ma anche nella sua vita presente); ha inoltre un rapporto corporeo intimo con la madre adottiva anziana e malata alle cui cure quotidiane provvede (guarda la tv assieme a lei dal suo letto, le fa il bagno). Per un soggetto che soffre di un disturbo psicotico come Arthur – si vedano le allucinazioni, la risata dissociata, la stranezza e incongruenza nel modo di pensare e di comportarsi, il senso interiore di non-esistenza – il corpo è in effetti il luogo dove si giocano i principali conflitti, e questo perché le carenze affettive subite da queste persone risalgono ad epoche precoci della vita psichica, ai primi periodi di vita, quando proprio attraverso il corpo passano la cure e l'amore dell'altro, prima ancora che si sviluppi una consapevolezza di sé più compiuta e si possa parlare di individuo. Ed è proprio con queste carenze primitive che Arthur deve confrontarsi. Non è un caso quindi che nella sua evoluzione verso Joker, la sua attenzione si focalizzi sempre di più il suo corpo, in particolare sul suo volto, e che il suo cambiamento definitivo passi per la copertura di una maschera carnevalesca. Infatti, senza quell’identità psicologica che relazioni di cura chiare e buone conferiscono a ognuno a partire proprio dalla cura del corpo, smarrito il contatto con le proprie origini di uomo (con la propria vera storia), sostenuto solo da una terapia farmacologica che lui stesso sembra non ricordare più da quanto tempo assume, Arthur non può che sopravvivere confusamente nel suo presente, barcamenandosi in un lavoro per il quale in fondo non è portato e che costituisce solo un tentativo di dar senso a quel suo ridere compulsivo. 

Ma non c’è solo il dramma di un individuo in questo film. C’è anche il suo rapporto con la società, caratterizzata da un potenziale di violenza molto alto e completamente cieca e sorda nei confronti di chi come lui vive ai margini, in condizioni di povertà materiale e spirituale estreme. Una società in cui vengono tagliati bruscamente i fondi di assistenza socio-sanitaria, che gli consentivano di avere dei colloqui periodici con un assistente sociale (unico rifugio mentale, unico spazio di contatto umano autentico, per quanto limitato) oltre che di ricevere i farmaci che gli erano necessari; in cui i ragazzini di strada lo derubano e lo picchiano per il solo piacere di farlo mentre si esibisce come clown e cerca di sbarcare il lunario; in cui dei giovani di elevata estrazione sociale lo massacrano gratuitamente di botte in metropolitana; in cui un collega si approfitta di lui e della sua incompetenza sociale dandogli la sua pistola per difendersi dai pericoli, ma in realtà con l’intento di metterlo nei guai e in seguito farlo licenziare dal capo; in cui, infine, lo stesso personaggio televisivo che Arthur ammirava si prende gioco di lui, senza conoscerlo, denigrando pubblicamente nel suo programma di successo, davanti a milioni di spettatori, un suo sketch comico della cui registrazione era venuto in possesso. Dinnanzi a questa violenza della società che da sempre si riversa su di lui, senza il sostegno degli psicofarmaci, venuto a a crollare l’ultima certezza, ossia che quella con cui viveva fosse la sua vera madre e che non fosse poi stata così amorevole con lui come gli aveva sempre fatto credere, Arthur si appropria di questa cattiveria attraverso un meccanismo psichico noto alla psicoanalisi (e che caratterizza molti psicopatici) passando dalla parte dell’aggressore per trasformare il suo senso di impotenza e di disperazione in una condizione di potere; emblematico in tal senso il suo appropriarsi del soprannome di scherno, Joker, che gli era stato affibbiato proprio dal suo conduttore televisivo preferito quella volta che lo aveva ridicolizzato pubblicamente. Diventa così l’incarnazione del male assoluto, un individuo che uccide a sangue freddo chiunque rappresenti quella società che lo ha ghettizzato e violentato. Una trasformazione che però non è solo subita ma, nel corso del tempo, sempre più voluta, e per mezzo della quale egli riscopre, in questo potere di vita e di morte sugli altri, un'arcaica bellezza. Diventa in sostanza un esteta del male, volendo fare (parafrasando Oscar Wilde) della propria vita un’opera d’arte, seppur in un senso distorto e malvagio; significativo in tal senso la sequenza in cui Arthur, preso dall’ebbrezza della sua personale rinascita, modifica la frase scritta nel cartello posto sulla scala del suo luogo di lavoro da “non dimenticare di sorridere” a “non sorridere”. Ovvero: rifiuta l’apparenza e la falsità della società e realizza la tua natura profonda, sii te stesso. Attraverso questo processo mentale Arthur acquisisce finalmente un’identità (diventa Joker), dà un senso più compiuto alla propria esistenza, si sente vivo e riconosciuto, incarnando improvvisamente il grido di tanti altri reietti come lui silenti fino a quel momento. La sua è pur sempre una maschera (l’identità infatti non può nascere solo da una reazione ad una condizione di sofferenza), ma una maschera funzionale, che lo aiuta a sopravvivere. È una vicenda tragica quella di Arthur che però non riguarda solo lui come individuo ma l’intera società in cui vive (quella americana, sempre più quella nostra). Una società che valorizza l’immagine, il successo economico, la forza e che non ha occhi per i più deboli, per i diversi come lui, per le minoranze. Non credo sia un caso che nel film le persone che provano ad ascoltarlo con più attenzione, quelle da cui lui si sente più capito e che spesso occupano posizioni sociali medio-basse sono degli afroamericani. Nel film c’è anche un forte messaggio di critica sociale: una società che non si cura dei più deboli, che alimenta diseguaglianze, che trascura l’interiorità delle persone e i loro bisogni più profondi in nome del successo economico e del potere, è una società solo apparentemente sana ma che invece genera dei “mostri”, individui alienati che non hanno niente da perdere e minacciano di distruggerla dall’interno (potrebbero rientrare in questa categoria anche i vari estremisti violenti, i radicalizzati, i “lupi solitari” della contemporaneità). Si può capire quindi la preoccupazione di alcuni apparati di sicurezza al momento della proiezione del film, dato il messaggio che può potenzialmente lanciare a molti soggetti socialmente borderline proprio per il carattere reale e non fumettistico del protagonista e la violenza della storia narrata (il film infatti è indubbiamente molto crudo in alcuni passaggi, ma la violenza che lo pervade non è mai gratuita o banale, è sempre inserita in un contesto di senso più ampio e in qualche modo sublimata). 

Questo Joker è in fondo un film di rivolta verso la società esistente, e il protagonista è talmente bello e ben riuscito che potrebbe diffondere questo messaggio – in tempi di globalizzazione, di crisi di valori, ambientale ed economica – con grande capacità persuasiva. Un messaggio che andrebbe colto, finché si è in tempo, prima che ognuno di questi reietti della società possa dire “ormai non ha più importanza”, proprio come fa Arthur ghignando alla fine del film, quando, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, sta per commettere l’ennesimo omicidio. Solo una società attenta può far sentire importanti le persone, evitando che per una quota più o meno grande di esse niente abbia più importanza, che non abbiano più niente da perdere (altra frase di Arthur). 

Che dire, ancora, di questo film? Forse che quando una qualunque creazione dell’intelligenza umana riesce a scavare tanto profondamente non solo nei drammi soggettivi ma anche nella condizione universale degli esseri umani, quando il suo significato si stratifica su più livelli e l’insieme dei suoi componenti risulta curato e integrato con così grande attenzione (i dialoghi, stringatissimi e drammatici; la musica ossessiva, che sostiene con forza le vicende narrate; la cupezza estrema delle ambientazioni, che rispecchia l'angoscia della condizione esistenziale del protagonista), non si può che parlare di vera opera d’arte, e perfino di capolavoro.

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3 Commenti

  1. admin

    la cosa straordinaria è la
    la cosa straordinaria è la coerenza narrativa del film: nessuno è esente da abuso e in perfetto stile presule pure Batman (Bruce Wayne) è un cavaliere oscuro che è stato un bambino abusato dall’omicidio dei suoi genitori in sua presenza.
    Per non parlare delle citazioni cinefili: IL CORVO, C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA, L’ESORCISTA, SPYDER per citarne alcune

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  2. giulia.gnatta

    Complimenti per la recensione
    Complimenti per la recensione e splendido film, di quelli che si spera inducano, anche nei più giovani, una riflessione data la profondità dei temi trattati e i diversi ambiti toccati.

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