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LA CRISI DEL DSM: UN’OPPORTUNITÀ PER LA RIFONDAZIONE METODOLOGICA ED EPISTEMOLOGICA DELLA PSICHIATRIA?

15 Giu 23

Di FRANCESCO BOLLORINO

Introduzione

L’attuale impostazione del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), fin dalla sua terza edizione, ha come caposaldo quella che viene definita un’impronta prettamente ateoretica (American Psychiatric Association, 1980, Introduzione) basata sulla descrizione dei molteplici quadri nosologici in singoli punti di carattere descrittivo [sintomi], volti a fornire una maneggevolezza e un imparzialità che permettano al suo utilizzatore una quanto più possibile ampia libertà da qualsivoglia pregiudizio teorico, volendogli fornire un ruolo super-partes sganciato dal vasto mondo multi-teoretico della patologia psicologico-psichiatrica (Wilson, 1993). Tale modalità vuole garantire un approccio puro, ma il rischio di deriva verso un contesto di inaridimento teorico-clinico ne sta aprendo una profonda breccia.

Tale tipologia di sistema classificatorio fonda le sue basi sull’attuale contesto storico-culturale, le cui influenze si estendono alla scienza moderna palesandosi in un empirismo meramente tecnicistico: l’uomo appare asservito e soggetto alla téchne, non più strumento realizzatore soggetto alla creatività bensì cornice limitante definente l’agire umano (Galimberti, 1999). Il DSM risulta il prodotto di una necessità sociale: l’efficienza e la velocità diagnostica rilevano maggiormente rispetto alla ricerca e all’impiego di un’adeguata epistemologia.

Il problema è piuttosto radicale: affinché qualunque sistema classificatorio risulti coerente ed efficace nella sua attuazione è necessario che vengano puntualizzate fin nei minimi dettagli le caratteristiche essenziali dei fenomeni che compongono le categorie contemplate nel sistema stesso. Nel DSM persiste, invece, una grande variabilità all’interno di stesse categorie classificative, implicando dunque la perdita di una diagnosi circoscritta e definita, nonché caratterizzata in senso idiografico (Aragona, 2013). La componibilità criteriale adottata dal DSM finisce infatti per racchiudere sotto stesse etichette entità cliniche che -pur (ma non sempre) condividendo caratteristiche similari- si discostano ampiamente in termini di significato psicopatologico e conseguentemente nell’impostazione terapeutica e prognostica (Allsopp, 2019).

Si possono bene immaginare i rischi intrinseci di qualunque sistema che non contempli una strutturazione ben chiara, ed è forse ancor più evidente come non soltanto non possa derivarne un reale beneficio per clinici e pazienti, ma anche l’impossibilità di fondarvi una scienza solida e dunque un reale progresso di prassi e conoscenza. La stessa ricerca clinica ne appare inficiata, in quanto da assunzioni incoerenti non possono certamente derivare risultati scientificamente validi (Mahoney, 1977); come un simbolo è tale solamente se ad esso si associa una caratteristica precisa e costante che permette a chiunque di coglierne il significato, così affinché la diagnosi abbia valore, è necessario che la categoria che sottende abbia la minore variabilità intrinseca possibile.

Intenzione di tale articolo è esporre l’influenza dell’attuale contesto storico-culturale sul modello DSM, le ripercussioni che la sua adozione comporta, trascurando il ruolo del clinico nella diagnosi e scotomizzando gli sforzi storico-nosografici della psichiatria del ventesimo secolo; lo scopo della nostra indagine è inoltre denunciare il paradosso logico-conoscitivo dell’impostazione ateoretica del DSM, ipotizzando come alternativa un sistema diagnostico fondato sull’adozione della metodologia fenomenologica.

DSM: un prodotto della società della tecnica

L’influenza della società della tecnica approda anche nel mondo della psichiatria e della patologia mentale (Galimberti, 1999). Fruibilità ed efficienza assurgono a valori sociali cardinali, implicando una ricerca spasmodica di risorse utili a raggiungere via via nuovi obiettivi, nell’angosciante timore di un fallimento significante sconfitta ed esclusione sociale, e dunque totalizzante nella nullificazione esistenziale che comporta (Galimberti, 1999). In questa cornice, il DSM appare fin dal suo concepimento un prodotto storico-politico piuttosto che uno strumento di supporto alla sofferenza emotiva del malato, anteponendo le necessità sociali a quelle umanistiche della pratica clinica (Kirk, Kutchins, 2017, p112). Nella formazione dello psichiatra il tempo necessario all’apprendimento della psicopatologia viene ridotto al minimo e inquadrato primariamente nei termini dell’acquisizione di una metodologia clinica funzionale ad una prassi medica aziendalizzata, dove l’estrema semplificazione categoriale propugnata dal DSM permette una comunicazione meno articolata e dunque più rapida e facilmente fruibile (Wilson, 1993). La psicopatologia, complessa ed esigente, viene quindi semplificata, banalizzandone le sue potenzialità di scienza sistematizzabile e circoscrivibile (Jaspers, 2000a) nonché svuotandone di significato la semantica, altrimenti inefficiente da un punto di vista meramente prestazionale. L’approccio relazionale col paziente si volge all’identificazione di pochi tratti diagnostici salienti, relegando a minuzie inutili le ulteriori qualificazioni psicopatologiche, dispendiose in termini informativi e sovrabbondanti rispetto alle necessità del Sistema (Freckelton, 2018). L’incontro con l’Altro finisce anzi con l’esaurirsi in un tempo funzionale e aprioristicamente determinato e non più modulato sulla base delle necessità del paziente e della valutazione clinico-diagnostica dello Psichiatra. La dialettica clinica, fondata sul reciproco scambio tra teoria e prassi, finisce dunque per risentire di uno scostamento a vantaggio della prima, espressa in un tecnicismo solo fintamente empirico in quanto permeato da pregiudizi teoretici. Né si ottiene uno schema preconfezionato che pur nella sua idea originale di rilevare l’obiettività ha invece sancito attraverso sé stesso l’impossibilità di conoscere attraverso-il-percepito, forzando a conoscere attraverso-il-filtro (protocollo).

È fondamentale comprendere che non è la complessità intrinseca alla conoscenza psicopatologica a renderne apparentemente inattuabile l’utilizzo clinico, quanto piuttosto la sua difficile spendibilità all’interno di una società che impone la ricerca ripetuta di scorciatoie che permettano una risoluzione celere e proficua dell’incontro: dev’essere formulata una diagnosi, sulla base della quale somministrare una terapia. Se questo può risultare accettabile per le branche della medicina organico-internistiche, non appare né auspicabile né realizzabile in un ambito come quello psichiatrico, volto all’indagine di fenomeni che si declinano secondo caratteristiche individuali non sempre conoscibili aprioristicamente attraverso la letteratura e la didattica, differentemente da quanto avviene per altre discipline mediche.

Osservatore e osservazione: l’oggettivazione pregiudizievole

Non è possibile trattare il disturbo mentale alla stregua della patologia organica, poiché quest’ultima è quasi sempre caratterizzabile secondo matrici biochimiche e fisiopatologiche distintive che non sono state ancora identificate nelle malattie psichiatriche -e né è detto che lo saranno, totalmente o in parte (Schramme, 2013). Così, se l’oggettivazione della diagnosi organica è attuabile sì componendo sintomatologia con semeiologia ed analitica biochimico-strumentale, la Psichiatria basa ancora inevitabilmente la propria metodologia sull’osservazione clinica. Si potrebbe obiettare che -entro un certo margine- anche sintomi e segni possono comporre quadri sindromici patognomonici e dunque diagnostici; ma se la consistenza di una massa, l’intensità di un soffio, l’ottusità o il timpanismo di una percussione semeiotica condividono un certo grado di oggettivabilità e datità fattuale, l’esplorazione clinica psichiatrica mira a cogliere sfaccettature dell’Essere dell’Uomo nel Mondo di sicuro più complesso inquadramento.

Karl Jaspers, con l’audace testo Allgemeine Psychopathologie, diede inizio ad una prima sistematizzazione di ciò che la coscienza manifesta nella sua presenza psico-patologica attraverso un approccio di tipo fenomenologico-descrittivo (Jaspers, 1913). Nelle sue parole, grande rilevanza viene data al connubio tra la Psichiatria in quanto professione pratica (“conoscenza per esperienza ed arte trasmissibile mediante rapporto personale a persone capaci di accoglierlo”) e la Psicopatologia in quanto scienza (“che vuole ciò che può essere espresso mediante concetti, che è comunicabile e può essere fissato in regole e in cui può riconoscersi un qualche rapporto”) (Jaspers, 2000a). La scissione tra prassi e conoscenza e l’assunzione di un orientamento volto in esclusiva direzione empirica causerebbe infatti la perdita della peculiare componente di irriproducibilità intrinseca all’incontro con l’Altro di cui lo Psichiatra si deve invece fare interprete, coniugando esperienza e conoscenza nella formulazione di una sintesi terminologica psicopatologico-fenomenologica coerente, significativa e informativa. L’onerosità di tale approccio, apparentemente inadeguato alle mutate esigenze di una pratica clinica sempre più prestazionale, ha però indotto la Psichiatria a rifugiarsi nella confortevole illusione di una semplificazione diagnostica che potesse governare la complessità umana con rassicuranti elenchi puntati: il DSM.

L’impalcatura del DSM si sostiene sulla tipizzazione patologica in termini sintomatologico-descrittivi, attraverso la formulazione di liste di sintomi finalizzate a rendere possibile una quasi-automatica diagnosi per corrispondenza operazionale (Aragona, 2013). Il linguaggio psicopatologico viene così spogliato da qualsiasi traccia formale-eidetica, finendo per assumere paradossalmente caratteristiche polisemiche all’interno di una nosografia predefinita (Aragona, 2013). La terminologia adottata dal DSM racchiude infatti sotto stesse etichette entità cliniche che -pur (ma non sempre) condividendo caratteristiche similari- si discostano ampiamente in termini di significato psicopatologico. Tale approccio, ateoretico nelle intenzioni, appare nei fatti interpretativo; la vaghezza descrittiva e la bassa specificità semantica esita in una lettura intellettuale-diagnostica di forzatura, da cui non possono che derivare diagnosi incorrette: in sostanza, l’assenza di punti cardine inequivocabili porta ad una interpretazione personale e discrezionale del lessico descrittivo impiegato, col potenziale rischio di patologizzare anche le comuni esperienze umane e quindi determinare una vera e propria “epidemia diagnostica” (Paris, 2015).

Si potrebbe asserire che la direzione intrapresa dal DSM garantisca una comunicazione maggiormente aperta, affidabile e comprensibile, fornendo al clinico una terminologia comune (Whooley, 2014; Kelly, 2020); questo appare parzialmente vero sul piano nomotetico, dove lo scambio di informazioni avviene tramite l’utilizzo di categorie (Stein, 2012), ma se si considera la valenza polisemica del lessico impiegato è presto evidente come questa comprensibilità sia un’apparenza che non sottende una reale congruenza e dunque non sia realmente né affidabile né informativa. Pertanto, l’impiego delle categorie che ne discende non può che essere superficiale, limitando drasticamente le possibilità descrittive necessarie a cogliere e comprendere anche solo una minima parte della complessità dei fenomeni psicopatologici. Invero, a fronte dello svuotamento concettuale della terminologia psicopatologica, non vi sarebbe neanche necessità di essere psichiatri, per attribuire un’etichetta diagnostica desunta semplicemente dalla presenza/assenza di sintomi elencati. La perdita dei significati coinvolge così anche quello del clinico, che abdicando al pensiero critico oblia la sua natura di Uomo e medico e diviene contribuente attivo alla realizzazione di quella crisi della conoscenza a cui Husserl dedicò un saggio proprio alla fine della sua vita (Husserl, 1954).

In un modo o nell’altro, sia che si analizzi il piano pragmatico che quello logico, si delineano aporie di natura epistemologica, con ripercussioni importanti anche nella pratica clinica. L’ottica sintomatologica, espressa in termini operazionali e basata su criteri minimi di corrispondenza, rischia di trasformare infatti l’incontro diagnostico in una semplice prossimità spersonalizzante finalizzata all’inquadramento e alla categorizzazione di ogni potenziale quadro psicopatologico in un contenitore distaccato ed estraneo all’Uomo, alienando il malato alla malattia e al proprio vissuto esperienziale, in taluni casi alimentandone persino una certa deresponsabilizzazione. Abbandonare una terminologia qualitativo-essenziale a favore di un lessico quantitativo-polisemico rende inoltre inesplorabile la peculiarità esperienziale del singolo, impedendo una precisa e veritiera tipizzazione non efficacemente vicariata dall’adozione di irrealistici ed insoddisfacenti quadri clinici, come quelli provvisti dal DSM.

In definitiva, l’impiego di sintomi ateoretici, nell’annullamento di ogni sfumatura descrittiva psicopatologica – nonostante non sia mai possibile conoscere l’omnicomprensivo coscienziale (Jaspers, 2000b) – delinea uno scenario ben distante ed anzi opposto all’umiltà jaspersiana, incastonando i pazienti in quadri cristallizzati e invarianti. Il rifiuto della teoria diviene così esso stesso dogma teorico, annullando il valore imprescindibile che la significazione esperienziale ha per l’Uomo nella conoscenza del mondo.

Il ruolo del clinico

La problematica di fondo che sorge dall’empirismo positivista e neo-positivista è l’assimilazione della mente umana a qualunque altro oggetto descrivibile secondo un’ottica in terza persona: poiché misurabile e dunque quantificabile e quantizzabile oggettivamente, la psiche diviene conoscibile scientificamente. Eppure qualunque tentativo di comprendere la mente umana giungerà sempre, prima o poi, a doversi confrontare con la coscienza e la soggettività, dal momento che gli eventi psichici, per loro stessa natura, sono vissuti da qualcuno e dunque non possono essere trattati alla stregua di meri accadimenti fattuali svincolabili dall’esperienza individuale (Thompson, 2007, p.16). Il clinico psichiatra è dunque condannato ad operare al di fuori dell’alveo della scienza, vittima dell’ineffabilità del proprio oggetto di studio? Ma soprattutto: è possibile studiare scientificamente la mente umana senza perderne il carattere di soggettività fenomenica?

Il metodo fenomenologico rappresenta sicuramente un valido approccio alle problematiche qui presentate. Anch’esso, come del resto il metodo scientifico ordinario, fonda la validità delle proprie asserzioni su spiegazioni scevre da pregiudizi (Jaspers, Psicopatologia Generale). Le scienze ordinarie, tuttavia, adottano quello che Husserl definisce atteggiamento naturale, assumendo tacitamente che vi sia una realtà indipendente da mente, esperienza e teorie degli osservatori e che sia scopo della scienza trarne una conoscenza rigorosa ed oggettiva (Husserl, 1911, p.18). Ne deriva implicitamente una scissione tra realtà dell’oggetto e le sue modalità esperienziali, ritenute irrilevanti ai fini delle scienze naturali. Affinché scienza e metodologia fenomenologica possano giovarsi l’una dell’altra nello studio della mente umana, è quindi di fondamentale importanza superare in primo luogo la distinzione tra apparenza fenomenica e realtà oggettuale considerandole non più due entità distinte o subalterne, bensì due facce di una stessa medaglia, ovvero distinzioni interne al Fenomeno, nella sua interezza (Gallagher, Zahavi, 2008, p.34). Ciò presuppone in definitiva la sospensione di un atteggiamento dogmatico nei confronti della realtà (epochè), rendendo possibile porre maggiore attenzione direttamente sul modo in cui essa è data e si manifesta a noi nell’esperienza (Husserl, 1913, pp. 928-929; 1954, p.183). E’ però necessario sottolineare come la nozione di esperienza non debba essere erroneamente interpretata in termini esclusivamente mentalistici, a guisa di semplice e puro accadimento mentale. Gli atti mentali, infatti, “non appartengono ad un regno interiore chiuso, a cui solo l’introspezione può accedere” (Welton D., 2000 p.17), bensì si sostanziano ontologicamente in ragione della relazione che intrattengono con ciò che li trascende (Gallagher, Zahavi, 2008, p. 38). Pertanto una riflessione sulle condizioni che una qualunque cosa deve soddisfare per poter essere definita “reale” -e dunque essere oggetto di scienza- non può non tener conto del contributo della coscienza. Gli oggetti del mondo vengono infatti esperiti e appaiono per come sono proprio grazie al modo in cui la coscienza stessa è strutturata, ovvero “si costituiscono in ciò che essi sono e per ciò che essi valgono per noi, in diverse forme di intenzioni oggettuali (Husserl, 1900-1901, I, p.435). La coscienza non può dunque essere considerata come qualsiasi altro oggetto del mondo, in quanto essa è condizione necessaria delle possibilità esperienziali degli altri oggetti mondani (Zahavi, D. 2008b). La strutturazione coscienziale non è però peculiare e distinta, dunque incostante e ineffabile: attraverso la riduzione fenomenologica è possibile infatti analizzare l’interdipendenza correlativa tra strutture specifiche della soggettività e le modalità particolari dell’apparire -datità- (Husserl, 1926-1935). L’“atteggiamento fenomenologico” così costituito, risultante di epochè e riduzione fenomenologica, permette dunque di concentrarsi su come gli oggetti si manifestano senza squalificare – ed anzi, piuttosto valorizzando- il lato soggettivo della coscienza, catturando le strutture stabili ed intersoggettivamente accessibili dell’esperienza che essa compie nel mondo. Affinché si possa parlare però di strutture coscienziali stabili, ne è implicita una caratterizzazione essenziale ed invariante, a guisa di definizione ontologica: in sostanza, è fondamentale rintracciarne l’eidos, di platonica reminiscenza. Questo processo si compie attraverso la spoliazione immaginifica dell’inessenziale, che Husserl definì variazione eidetica; per mezzo di essa è possibile estrarre le caratteristiche essenziali ed invarianti di ogni cosa di cui è fatta esperienza, e non soltanto dunque delle modalità esperienziali della coscienza (Husserl, 1926-1935). Applicando la variazione eidetica ai fenomeni mentali, fisiologici o patologici, sarebbe pertanto possibile qualificare con buon grado di precisione i qualia psichici oggetto d’indagine clinica, permettendo il confronto intersoggettivo tra operatori e la riproducibilità osservazionale, analogamente a quanto atteso da qualunque processo di studio che voglia definirsi “scientifico”.

L’applicazione del metodo fenomenologico alle neuroscienze permetterebbe di porre le basi sulle quali edificare sistemi diagnostici intrinsecamente coerenti, non riduzionistici, restituendo validità epistemologica ad una Psichiatria fino ad oggi priva. In quest’ottica il bagaglio culturale del clinico psichiatra non può circoscriversi alle sole conoscenze biomediche e farmacologiche ma deve essere integrato da una rigorosa formazione metodologica che tenga conto degli insegnamenti derivanti dalla fenomenologia secondo le sue più recenti declinazioni, con particolare riguardo all’epochè e alla variazione eidetica. E non dimenticando che soggetto di studio dello Psichiatra è l’Uomo nelle sue sterminate estrinsecazioni esistenziali, nondimeno auspicabile sarebbe al clinico una forma mentis arricchita dal sapere antropologico e tipologico umano derivante da una buona cultura letteraria, cinematografica, musicale e teatrale e, in definitiva, Umanistica.

Conclusioni

L’evoluzione della pratica clinica odierna è stata fortemente condizionata da istanze di efficienza e rapidità diagnostica, conducendo in ambito psichiatrico alla formulazione del DSM-5. L’attuale impostazione del DSM-5 è basata sulla descrizione dei molteplici quadri nosologici in singoli punti di carattere descrittivo [sintomi], volti a garantire un approccio diagnostico maneggevole e libero da pregiudizi teorici. Tale modalità riduce però l’osservazione clinica del paziente all’identificazione di pochi tratti diagnostici salienti, relegando a minuzie inutili le ulteriori qualificazioni psicopatologiche, dispendiose in termini informativi e sovrabbondanti rispetto alle necessità del Sistema. In questo modo la psicopatologia esige dal clinico un bagaglio culturale più leggero e maneggevole ma inevitabilmente più povero. Ne discende una deriva verso un contesto di inaridimento teorico-clinico e una intollerabile banalizzazione del vasto mondo multi-teoretico della patologia psicologico-psichiatrica.

Ciò non vuole ovviamente significare che la soluzione a tali criticità sia da individuare nella mera formulazione di nuovi criteri diagnostici maggiormente aderenti a più specifici quadri sindromici; le classificazioni formulate da Schneider e Leonhard già nella seconda metà del ‘900 potrebbero infatti vicariare le deficienze del DSM senza necessitare di estensive revisioni. Affinché sia possibile il superamento delle aporie identificate nella prassi in essere è cogente prioritariamente un ritorno ad un’osservazione clinica precisa, metodologicamente fondata sugli insegnamenti e le acquisizioni della fenomenologia, che porti lo Specialista ad essere in primo luogo un fine psicopatologo in grado di distinguere efficacemente le manifestazioni sintomatologiche di base, ricondotte ad entità categoriali complesse solamente dopo una valutazione scevra da qualsivoglia apriori parziale.

Per poter compiere tale processo, è fondamentale riprendere in mano i testi di fenomenologia psichiatrica e rileggerli in un’ottica che declini quanto già descritto in passato alle complesse modificazioni epidemiologiche intervenute nel campo della salute mentale nel corso degli ultimi 60 anni. Ma soprattutto è necessario costruire uno spessore umanistico a complemento della rigorosità scientifica biologistica, così da poter permettere al clinico di valutare l’Uomo non più come semplice meccanismo, ma come entità complessa ed interagente nella Società, cui fa parte. L’antropologia, la sociologia, come d’altro canto la filosofia nelle branche dell’epistemologia, della gnoseologia e dell’ontologia non possono che confluire nel bagaglio teoretico dello Psichiatra, accanto alle conoscenze mediche e psicologiche che già ne sostanziano l’azione clinica. Quanto più ampio sarà il vocabolario psicopatologico in dotazione allo Specialista, tanto maggiore saranno le sfumature ch’egli saprà cogliere nel funzionamento mentale del paziente, derivandone la Forma senza decontestualizzarne i Contenuti, il tutto attraverso un approccio fondato su epochè, riduzione fenomenologica e variazione eidetica. L’atteggiamento fenomenologico non potrà che costituire la vera pietra angolare su cui costruire un nuovo sistema diagnostico -questo sì, epistemologicamente fondato- che si sostituisca definitivamente all’edificio di un DSM sempre più rovinosamente pericolante.

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