Abstract:
Introduction: This paper presents the observations made by the author during a period spent at the Gambo General Rural Hospital and Leprosy center, a healthcare facility located in the small village of Gambo (Shashemane) in southern Ethiopia.
Methods: After a brief geographical and epidemiological introduction, the paper describes the structure and working methods used in this facility. The evaluation and management of mental illnesses, often linked to the ability to recognize these conditions are also treated. Traditional local treatments are also described, particularly in relation to patient compliance with therapy.
Results: The study highlights the challenges in access and use of psychiatric care, considering not only the availability of treatment but also the widespread perceptions surrounding psychiatric illness. This context is examined within the broader framework of Ethiopia’s healthcare situation and, more generally, that of Low- and Middle-Income Countries (LMICs), especially in light of ongoing global institutional efforts (e.g., WHO) to address these issues.
Conclusions: This survey illustrates the difficulties of diagnosis and treating mental health disorders in LMICs, where stigma and inequalities may be exacerbated by the lack of resources. Lack of recognition of mental illness is a key issue. While acknowledging the need for a global strategy to improve current levels of care, the study hopes to stimulate reflection on this significant topic through the knowledge of such a reality.
Abstract:
Introduzione: Il presente lavoro si propone di esporre le osservazioni condotte personalmente dall’autrice durante un periodo trascorso presso il Gambo General Rural Hospital and Leprosy, una struttura sanitaria del piccolo villaggio di Gambo (Shashemane) nel sud dell’Etiopia.
Metodo: Dopo una breve introduzione geografica ed epidemiologica viene descritta la struttura e il metodo di lavoro in essa utilizzato. Seguono considerazioni in merito alla valutazione e alla gestione delle malattie mentali, legate molto spesso alla capacità di riconoscimento delle stesse. Vengono descritte in seguito le cure tradizionali locali, anche in relazione alla compliance terapeutica dei pazienti osservati.
Risultati: Dallo studio emergono le sfide da superare in termini di accessibilità e fruibilità delle cure psichiatriche nelle struttura osservata, tenendo conto non solo dell’offerta terapeutica ma anche della percezione diffusa riguardo la patologia psichiatrica. Quanto descritto viene collocato nel contesto della situazione sanitaria dell’Etiopia e in generale dei PVS (paesi in via di sviluppo)/LMIC (low and middle income countries), anche alla luce del costante impegno delle organizzazioni internazionali (OMS) al riguardo.
Conclusioni: Questo survey mostra le difficoltà di diagnosi e cura dei disturbi mentali nei PVS/LMIC, dove lo stigma e le disuguaglianze sono spesso esacerbate dalla mancanza di risorse. Pur con la consapevolezza della necessità di una strategia globale per migliorare l’attuale livello di assistenza, si auspica che la conoscenza di una realtà quale quella descritta possa stimolare la riflessione su una tematica di così grande peso.
Introduzione: Mai come in questo momento appare attuale proporre una riflessione sulla situazione della salute mentale nei paesi in via di sviluppo (PVS). Il bilancio delle attività dell’OMS svolte negli ultimi anni ha evidenziato come sia aumentata costantemente l’incidenza dei disturbi mentali nel mondo, e come questo sia avvenuto in particolar modo nei PVS, che hanno anche minori risorse per affrontare il problema (Saraceno, 2005)
Il presente lavoro si propone di esporre le osservazioni condotte personalmente dall’autrice durante un periodo trascorso presso una struttura sanitaria di un piccolo villaggio nel sud dell’Etiopia, nel mese di Novembre 2006.
Si tratta del Gambo General Rural Hospital And Leprosy, struttura ospedaliera ubicata a Gambo, nella provincia di Arsi, 245 km a sud della capitale Addis Abeba.
La popolazione che fa riferimento all’ospedale è di 500.000 abitanti e Gambo conta circa 2000 abitanti. Si parla l’Oromo, che è una delle lingue del Sud dell’Etiopia ma è conosciuto anche l’Amharico, lingua d’origine semitica, propria delle popolazioni dell’altipiano etiopico e lingua ufficiale del paese. L’Inglese è la lingua per le relazioni internazionali.
La Missione di Gambo fu fondata nel 1922 dai Padri Cappuccini Francesi; attualmente la struttura è gestita dai Missionari della Consolata di Torino che lavorano sul posto sin dagli anni ‘70. Il personale dell’ospedale è costituito sia da volontari laici, prevalentementeeuropei che da religiosi, nonchè da dipendenti locali di nazionalità etiope, residenti a Gambo o nelle vicine città di Arsi Negele e Shashemane.
Al momento dell’osservazione il personale medico stabile era costituito da tre medici: un chirurgo di origine italiana, un pediatria eritreo e il direttore sanitario missionario, di origine spagnola che si occupava del reparto di medicina generale e occasionalmente del reparto chirurgico. Il numero degli infermieri professionali era estremamente ridotto (non più di 8 in tutta la struttura), erano però presenti 40 paramedici, che svolgevano la funzione di dresser , ossia addetti alle medicazioni, e di traduttori (dalle locali lingue amharico e oromo in inglese, a beneficio dei numerosi medici volontari stranieri ma anche degli stessi medici locali che talvolta potevano avere difficoltà a interpretare i dialetti locali). Erano inoltre presenti 3 tecnici di laboratorio e un tecnico di radiologia.
Malgrado dei progressi continui, l’Etiopia soffre ancora di un carico importante in termini di malattie infettive e malattie non trasmissibili. Malaria, tubercolosi, HIV e altre malattie infettive costituiscono una problematica centrale per il sistema sanitario del paese, cosi come le malattie cardiovascolari, respiratorie, oncologiche e il diabete. La salute materno-infantile e le iniziative di vaccinazione occupano un posto centrale nelle strategie sanitarie (www.who.int).
Spesso i sanitari presente nel paese, sia medici che infermieri, si concentrano nella capitale, dove vive solo il 4% della popolazione (www.itacaddis.org).
Secondo quanto riferito dal Direttore Sanitario dell’Ospedale di Gambo, al momento del survey la spesa sanitaria annuale sarebbe stata di circa di 4,6 dollari a persona; è disponibile un letto d’ospedale ogni 100.000 abitanti e ci sono meno di 10 medici ogni 100.000 abitanti.
Negli ospedali di città i pazienti con patologie psichiatriche vengono ricoverati nella cosiddetta Unità Psichiatrica, dove sono presi in cura da infermieri psichiatrici. Le figure professionali di questo tipo sono circa 30 in tutta l’Etiopia.
La struttura: Il complesso ospedaliero di Gambo è costituito da sei reparti e da un ambulatorio (outcome patient department : OPD) cui accedono i pazienti e dove viene effettuato il triage dal personale paramedico. I pazienti vengono quindi indirizzati ad una visita ambulatoriale oppure ricoverati nei vari reparti ospedalieri (Medicina Generale, Tubercolosi, Chirurgia, Ginecologia e Ostetricia, Pediatria, Lebbrosario).
Ogni anno vengono effettute circa 4000 diagnosi. Ciascun reparto è costituito da un edificio in muratura monopiano, organizzato in diverse stanze che accolgono un diverso numero di letti (135 in tutto) a seconda della necessità: più affollate nel General Ward e nel Leprosary, fino al Children Ward dove ciascun letto accoglie due piccoli pazienti. Gli unici pazienti che vengono mantenuti in isolamento (comunque relativo) sono i pazienti affetti da tubercolosi con test dell’espettorato positivo. I pazienti affetti da lebbra occupano l’edificio più isolato dell’ospedale ma questo non impedisce a loro e ai loro familiari di conoscere e farsi conoscere dagli altri pazienti e dai medici di tutto l’ospedale, a causa anche del fatto che i loro ricoveri sono spesso molto lunghi e sono soliti deambulare nei vialetti dell’ospedale.
Esternamente i padiglioni sono verniciati di bianco o di giallo, internamente fino a 1.50 m da terra di verde, poi di bianco fino al soffitto. La banda verde serve per valutare l’altezza dei pazienti, in particolare delle pazienti che se sono più basse di 1.50 m sono considerate a rischio di travaglio distocico.
Un’equipe specifica si occupa di Vaccinazione ed Attenzione Prenatale in 23 villaggi, per una popolazione di 75.720 abitanti (si svolgono regolarmente le Giornate Nazionali di Vaccinazione contro la Poliomielite e la Deficienza della Vitamina A).
E’ stato istituito un Centro di Sorveglianza Epidemiologica HIV/AIDS come parte della rete nazionale di centri di riferimento. I campioni vengono raccolti tra le donne che attendono alla Clinica Prenatale. Oltre alla sorveglianza si offre anche la possibilità di consulenza e l’esame volontario del sangue che viene richiesto in particolare dalle giovani coppie. L’Ospedale costituisce inoltre il centro di riferimento per il controllo della lebbra nella provincia di Arsi.
Sono presenti la sala operatoria, un blocco dedicato alla diagnostica (radiologia, ecografia ed ECG), la farmacia dell’ospedale e il laboratorio di analisi chimiche.
La mensa dell’ospedale fornisce a tutti i pazienti ricoverati due porzioni giornaliere di enjera, una sorta di focaccia lievitata composta da farina di teff che è molto nutriente. È il cibo tipico etiope che di solito accompagna tutte le altre pietanze. I sanitari dell’ospedale mangiano l’enjera anche durante le pause per il thè e questo costituisce un vero e proprio rito: la focaccia viene servita in un piatto unico da cui tutti si servono e viene utilizzata per avvolgere e portare alla bocca con le mani ciò che con essa viene servito (verdure o carne).
Non esiste salute senza salute mentale (Patel et al., 2006 b); la salute mentale deve essere sempre implicata quando si parla delle priorità della salute globale pubblica, per evitare che una fascia di popolazione non abbia accesso alle cure per i disturbi psichiatrici.
In questo studio è stata valutata l’accessibilità e la fruibilità delle cure psichiatriche nelle struttura osservata, tenendo conto non solo dell’offerta terapeutica ma anche della percezione diffusa riguardo la patologia psichiatrica.
B.Saraceno (2005) ha indicato, fra i fattori che impediscono alle persone con disturbi mentali di ricevere appropriati trattamenti, lo stigma, le discriminazioni e le disuguaglianze esistenti nel fornire loro assistenza. È doveroso premettere che, nella zona presa in considerazione, i pazienti con determinate patologie si presentano solo quando sanno che è presente in loco un medico in grado di risolvere il loro problema, altrimenti si rivolgono altrove, se possibile ad un altro ospedale, sennò ad altro tipo di guaritoriesperti di “local medicine”. Pertanto, quando è presente nell’ospedale uno specialista, anche per un breve periodo di tempo, come nel caso dei volontari, nel giro di pochi giorni si presentano numerosi pazienti che necessitano delle sue cure. Il passaparola è molto efficace al riguardo.
Nell’ospedale di Gambo non è presente un reparto psichiatrico e i pazienti con disturbi psichiatrici vengono ricoverati nel reparto di Medicina Generale (General Ward). Il direttore sanitario, interrogato al riguardo, ha riferito di non ritenere necessario un reparto psichiatrico all’interno dell’ospedale dato l’esiguo numero di pazienti ricoverati con diagnosi di disturbi psichiatrici; sarebbe però utile la presenza di uno psichiatra, almeno fra i volontari.
Senza dubbio il fatto che non sia presente uno specialista in Psichiatria limita l’afflusso di pazienti con disturbi mentali; giungono infatti in ospedale solo i pazienti in condizione di acuzie che non trovano soluzione altrove oppure i casi di pazienti con disturbi cronici i cui familiari nel corso tempo vanno incontro a burn-out.
Quanto osservato è in contrasto con uno dei rilevanti obbiettivi dell’OMS, ossia di combattere l’esclusione delle persone con disturbi mentali dalle cure ed “offrire risposte umane, eticamente accettabili, adattate culturalmente e cost-effective” (Saraceno 2005).
Tuttavia, per evitare di giungere a considerazioni semplicistiche sull’argomento, è necessario parlare della percezione locale della malattia mentale e della sua capacità di riconoscimento che, molto spesso, è legata alla cultura e alla religione.
Per questi aspetti la popolazione che fa riferimento all’ospedale di Gambo è molto eterogenea, anche per quanto riguarda usanze ed abitudini; si può realmente parlare di un mosaico variegato di civiltà. Il livello di istruzione è molto vario, così come sono presenti notevoli differenze religiose (45% musulmani, 45% cristiani copti, 10% altri, per lo più cattolici e animisti).
Una fetta di popolazione è legata alla tradizione della medicina tradizionale locale e interpreta quindi la patologia come espressione della presenza di spiriti maligni nell’organismo; la risposta terapeutica viene ricercata quindi presso guaritori tradizionali. Si era a conoscenza della presenza nella zona del guaritore di Lephis, dal nome del fiume che scorre a Gambo), , sulla cui persona vigeva fra i pazienti il più stretto riserbo.
Anche Coloro che credono nelle religioni tradizionali possono essere influenzati della loro percezione delle malattia, che viene spesso percepita come una punizione divina e la risposta terapeutica in questo caso viene ricercata presso i vari mediatori religiosi nella forma dei più diversi rituali.
Se queste considerazioni sono valide per la patologia organica in generale, lo sono ancora di più per la patologia mentale, che risulta a maggior ragione meno comprensibile perché non direttamente “visibile” e quindi ancor più suscettibile di interpretazioni legate a credenze popolari e religiose.
I CMD, comuni disordini mentali, quali ansia e depressione, raramente vengono considerati problemi di ordine medico, e quasi mai vengono associati alla malattia mentale (Patel, 1996).
Spesso il basso livello di riconoscimento della patologia mentale, soprattutto quando si tratta di ansia e depressione, è legato oltre che alla difficoltà nella diagnosi, anche alla convinzione che siano in gioco fattori di tipo sociale, familiare o spirituale più che di tipo medico-sanitario, e alla convinzione quindi che il trattamento farmacologico offra poche risorse (Patel, 1996).
Sono stati interrogati sia i pazienti che il personale sanitario sul significato di alcune patologie mentali: tutti hanno riferito di conoscere il significato della parola depressione, con la quale viene inteso un periodo di particolare tristezza e sconforto nella vita di una persona. Questo rende necessario un “trattamento particolare” inteso come maggior accudimento e considerazione da parte del nucleo familiare. La depressione però non viene intesa come patologia vera e propria, dal momento che viene comunque sempre identificato un motivo ben preciso che la determina e la giustifica. I motivi più frequentemente riportati come causa di depressione riguardano la perdita di una persona cara, come la morte del coniuge o di un figlio, o del lavoro. Si evidenzia quindi una sovrapposizione dei concetti di depressione e lutto.
Viene presa in considerazione anche la depressione post-partum: gli infermieri del reparto di maternità (tutti di sesso maschile) ritengono che sia uno sfogo delle ansie e delle paure legate al momento del parto che si manifestano però dopo che questo è avvenuto.
Per quanto riguarda il termine psicosi, non sempre viene compreso in senso univoco. Tutti gli intervistati sono a conoscenza del fatto che alcune persone possano andare incontro a “follia”, intesa come modificazione del comportamento, pensieri bizzarri, linguaggio privo di significato. Questo viene accettato cosi come avviene per le altre patologie.
Tuttavia la spiegazione data di questa condizione non è univoca: la maggior parte pensa che tale presentazione sia legata alla presenza di spiriti maligni nel corpo del paziente, altri ritengono invece il paziente stesso responsabile della sua condizione.
Al contrario, nessuno ha compreso il significato della parola ansia e tutti hanno negato di aver mai sperimentato simili sensazioni.
Tuttavia, l’idea che ansia e depressione fossero cosiddette patologie d’importazione (intese come patologie tipiche del mondo occidentale che non ci si aspetterebbe di diagnosticare in un paese in via di sviluppo), è risultata infondata. A detta del direttore sanitario i disturbi d’ansia sono presenti, intesi non solo come disturbo specifico (in particolare il disturbo d’attacchi di panico), ma anche come sensazione di sentirsi sotto pressione, timore di non farcela, di non riuscire a portare a termine determinati incarichi, sul lavoro o in famiglia. Sono relativamente frequenti i disturbi d’ansia, la depressione e i disturbi somatoformi. Forse è il loro riconoscimento sistematico che presenta delle difficoltà.
La presentazione di un disagio psicologico in termini somatici è stata già in passato evidenziata come una causa importante di basso riconoscimento dei comuni disordini mentali (CMD) nei paesi africani. È stato evidenziato infatti come la presentazione di un sintomo somatico venga spesso intesa come un requisito fondamentale per ottenere l’accesso alle strutture sanitarie (Patel 1996).
La situazione è apparsa analoga anche a Gambo; è difficile che la sofferenza mentale venga espressa come tale. Più facilmente il disagio assume la forma del disturbo somatoforme, ad esempio del disturbo algico. Anche la depressione è difficile che venga espressa autonomamente come sofferenza mentale; viene descritta invece come astenia, difficoltà a gestire gli impegni quotidiani, faticabiltà e mancanza di energia.
È molto frequente che un paziente si presenti manifestando sintomi fisici che fanno pensare ad una condizione medico-organica che non trova poi riscontro diagnostico. Sono tanti i pazienti che giungono alla visita ambulatoriale lamentando dolore (dolore addominale, dolore toracico spesso accompagnato da tosse secca, il più delle volte solamente riferita; dolore pelvico o ancora cefalea) e che non rispondono alle terapie, tornano più volte lamentando lo stesso sintomo e si sottopongono agli esami diagnostici senza trovare una causa organica.
Non è infrequente che donne, ricoverate per altri motivi nel periodo successivo al parto, mostrino poi di aver sviluppato una sintomatologia depressiva post-partum.
Infine vissuti depressivi possono essere manifestati anche da altre tipologie di pazienti, come gli anziani e le persone costrette a vivere lontane dal loro nucleo familiare.
Questi casi restano in gran parte irrisolti, sia perché risulta difficile arrivare ad una diagnosi d’esclusione senza adeguate attrezzature diagnostiche ma probabilmente anche perchè non esiste un’adeguata conoscenza della patologia mentale (mental health literacy). Sembra che termini quali ansia, depressione, panico, fobia, preoccupazione non siano considerati validi indicatori di disagio, e quindi non vengano espressi.
Esistono interventi efficaci per la cura dei disturbi mentali che, sebbene non sempre in grado di guarire pienamente, possono migliorare i sintomi in modo sostanziale, diminuire le ricadute e permettere il recupero sociale, migliorando la qualità di vita dei pazienti (Saraceno, 2005). Trials clinici hanno dimostrato l’efficacia e il vantaggio in termini di costo dei trattamenti utilizzabili nei PVS: la malattia mentale può essere curata con trattamenti economici e tecnicamente semplici (Patel et al., 2006 b). Tuttavia, il più delle volte questo non avviene, e molteplici sono le difficoltà che rendono ad una vasta parte della popolazione non accessibili questo genere di cure.
Sebbene l’85% dei paesi sia dotato di una lista essenziale di medicamenti, almeno il 20% di questi non ha incluso almeno un antidepressivo, un antipsicotico e un antiepilettico (Saraceno, 2005).
Nell’ospedale di Gambo venivano utilizzati sia i farmaci forniti dalla farmacia dell’ospedale sia quelli portati di volta in volta dai volontari. Una volta dimessi era previsto che i pazienti ritirassero direttamente in ospedale i farmaci necessari per proseguire le cure, nella quantità strettamente necessaria per la durata della terapia, così come facevano i pazienti ambulatoriali.
Il prontuario farmaceutico dell’ospedale, per quanto riguarda i farmaci attivi sul SNC, prevedeva Aloperidolo, Clorpromazina, Clordiazepossido, Diazepam, Dietilcarbamazepina, Fenitoina e Prometazina.
Grazie alle riserve di farmaci portati dai volontari è stato possibile impostare terapie con farmaci normalmente non in uso nell’ospedale (per esempio terapie con SSRI) ma solo per un numero ristretto di pazienti, specificando e controllando attentamente il dosaggio e la durata del trattamento per evitare sprechi. Questo, evidentemente, incideva grandemente sulla qualità della terapia somministrata.
Quindi, si può dire che il principale limite all’utilizzo di psicofarmaci sia la mancanza degli stessi, e non eventuali remore del personale al loro uso.
Tuttavia, oltre al limite economico all’acquisto di altre categorie di farmaci, quali antidepressivi e neurolettici atipici, esiste un altro fattore conseguente. Il fatto che siano presenti solo tranquillanti maggiori e minori, utilizzati per la sedazione contingente dei pazienti, qualora si renda necessaria durante il ricovero, determina una scarsa conoscenza e attitudine all’uso di farmaci diversi.
I pazienti mostravano nei confronti dei curanti un atteggiamento di vario tipo: alcuni erano molto timidi, avevano difficoltà ad esporre i problemi e chiedevano aiuto all’interprete, altri invece interagivano maggiormente. È probabile che queste differenze fossero legate al grado d’istruzione. La maggior parte dei pazienti, ciascuno a suo modo, esprimeva riconoscenza verso il curante: alcuni apertamente, anche rivolgendosi direttamente al medico (galatooma=grazie) altri chiedendo all’interprete di ringraziare per loro; altri ancora solo con un gesto, come un cenno del capo o congiungendo le mani davanti al petto.
I pazienti di Gambo sono apparsi particolarmente riservati: molti di loro giungevano per la visita, si sedevano e aspettavano in silenzio che fosse il medico a fare domande dettagliate sui loro sintomi. Curiosamente, le loro risposte erano molto brevi, quasi a monosillabi, mentre il traduttore impiegava molto più tempo e più dettagli per riferire quanto detto dal paziente.
Anche il fatto di spogliarsi per la visita causava loro notevole imbarazzo: i pazienti giungevano (nonostante la temperatura fosse apparentemente mite) indossando molti indumenti, alcuni coperti anche con asciugamani, tappeti, coperte di vario genere. Nel momento in cui veniva chiesto loro di scoprire la parte dolente, di farsi palpare l’addome o auscultare il torace, allora, quasi sorpresi, iniziavano lentamente a togliersi i capi di dosso.
Come già detto, spesso la medicina occidentale non costituisce la prima risposta terapeutica a cui fa riferimento l’etiope di Gambo e dintorni.
La tradizione della cosiddetta “local medicine” è molto diffusa; solo un ridottissimo numero di pazienti arriva in ospedale senza prima aver sperimentato un rimedio locale, per lo più nella forma del decotto a base di erbe.
Sono stati osservati anche semplici ed immediati rimedi topici, come nel caso di una fasciatura di foglie in una donna che giungeva per morso di cane.
È stato osservato come le mescolanze di erbe venissero assunte sia prima di recarsi in ospedale che, di nascosto, durante il periodo di degenza. Addirittura alcuni parenti sono stati sorpresi ad introdurre sostanze nel sondino naso-gastrico di un paziente.
La preparazione di questi rimedi è legata a diffuse nozioni di saggezza popolare; in ospedale, nel periodo di osservazione, sono giunti due casi (di cui uno ad esito infausto) di grave intossicazione da sostanze imprecisate. L’intossicazione da rimedi locali è tanto frequente quanto pericolosa, benché ogni tentativo di dissuadere gli abitanti dall’assunzione è risultata finora inutile, così come i tentativi di trovare, tramite ricerche di laboratorio, validi antidoti alle sostanze utilizzate.
A volte sembra che l’assunzione di questi rimedi tradizionali sia da collocarsi nell’ambito degli ultimi tentativi messi in atto per salvare il paziente quando le sue condizioni appaiono ormai critiche, e lo stesso vale per il ricovero in ospedale, che viene spesso inteso come ultimo tentativo di affidamento alla medicina, quando tutti le soluzioni precedenti sono fallite.
Apparentemente, i pazienti hanno sempre mostrato una buona compliance alle cure, non solo accettando, ma anzi essendo i primi a richiedere di ricevere una terapia e di assumere farmaci. Tuttavia è emerso come in realtà vi fosse l’abitudine di sospendere ben presto le cure, una volta dimessi, e comunque prima che fosse il medico a stabilirlo.
Si può pensare al fatto che vi fosse un’aspettativa di guarigione immediata, mancata la quale venisse meno la motivazione a continuare le cure; oppure che proprio la risoluzione dei sintomi inducesse ad interrompere le cure, essendo del tutto assente il concetto di mantenimento e prevenzione. Ancora, e purtroppo questa ipotesi sembrava essere molto accreditata, i farmaci venivano a costituire una ricca merce di scambio, nonostante gli acquirenti difficilmente potessero conoscerne le reali indicazioni.
Un altro tipo di pratica molto diffusa consiste nella bruciatura ripetuta della cute in corrispondenza dei punti dolenti. I pazienti con una patologia localizzata in modo preciso presentavano invariabilmente segni di local medicine. Ad esempio un paziente con una massa addominale palpabile esibiva numerosi esiti cicatriziali da bruciature sulla cute proprio in corrispondenza di tale massa; una paziente con gibbo dovuto a spondilite tubercolare presentava una cicatrice sulla sommità della lesione; un paziente sottoposto ad intervento di resezione intestinale per volvolo del sigma presentava numerose bruciature sulla cute addominale.
I pazienti con patologia sistemica o con sintomatologia algica più diffusa esibivano invece segni meno circoscritti, come nel caso di un paziente con edema diffuso dovuto a sindrome nefrosica che mostrava cicatrici su gran parte della superficie corporea o ancora il caso di una paziente, gravida al momento della visita, che aveva lamentato in precedenza addominalgie e la cui superficie addominale era fittamente ricoperta di segni. Sono presenti tuttavia anche eccezioni a questa consuetudine, come nel caso di un paziente con edema diffuso a mantellina che presentava solo poche cicatrici in sede parasternale.
Nonostante i medici dell’ospedale cerchino di dissuadere i pazienti dal ricorso a tali pratiche, spiegandone loro la pericolosità e mettendo in evidenza la validità delle cure mediche, queste pratiche sono talmente radicate che difficilmente vengono realmente abbandonate. Del resto i pazienti tendono ad essere molto elusivi al riguardo e, se interrogati in merito alle lesioni (oltre alle bruciature sono state evidenziate anche cicatrici e segni di scarificazioni), rispondono con un lapidario: “local medicine” come se il medico non dovesse interferire nelle attività degli altri curanti. Il personale sanitario ha riferito che le bruciature e le scarificazioni avrebbero la funzione di permettere allo spirito maligno che genera la malattia di uscire, liberando così il paziente dal sintomo doloroso. Inevitabilmente, determinano un segno indelebile della patologia sofferta.
Riguardo ai segni presentati sulla superficie cutanea, anche i tatuaggi sono diffusi, come usanza femminile con fine estetico. Le donne si tatuano sul viso e la decorazione più diffusa interessa il mento e l’intera mandibola; si tratta di una consuetudine che viene ripetuta più volte nella vita, forse in concomitanza di eventi significativi.
I parenti dei diversi pazienti sono molto solidali fra loro e si aiutano reciprocamente; anche se difficilmente un paziente viene lasciato da solo, quando questo è inevitabile (perché ad esempio i suoi parenti abitano molto lontano) viene accolto dal gruppo allargato dei parenti degli altri, che fornisce cure e sostegno. Alcuni gruppi di familiari passano tutta la giornata in ospedale e si radunano all’esterno dei vari edifici, dove trascorrono il tempo alcuni cercando di rendersi utili, altri limitandosi ad aspettare. I parenti di religione musulmana ad orari prestabiliti si radunano nel prato centrale per pregare e a loro si uniscono anche i pazienti in condizione di lasciare il letto.
Se un paziente dimostra aggressività auto o eterodiretta è contemplato l’uso della contenzione che viene messa in pratica dagli infermieri o dai parenti. Non c’è un’attrezzatura predisposta, si utilizza quel che si trova, lacci o stracci per immobilizzare il paziente. Spesso si effettua una contenzione ai soli arti superiori o si pratica una contenzione “morbida” che in breve viene vinta dal paziente. Se lo stato di agitazione psicomotoria permane la contenzione viene ripetuta (spesso con ancora meno convinzione). Di solito in questi casi la presenza dei parenti al fianco del paziente si fa più assidua.
In Etiopia è in uso un calendario di 13 mesi di 30 giorni ciascuno: Novembre 2006 corrisponde a Febbraio-Marzo 1999. È un calendario utilizzato solo in questo stato, di cui gli etiopi sono fieri.
Sono stati valutate le diagnosi psichiatriche poste nel corso dell’anno etiope 1998 (equivalente al nostro 2005), grazie alla consultazione dell’archivio dell’ospedale. I dati di ogni anno vengono archiviati e resi accessibili solo durante l’anno successivo, pertanto non è stato possibile valutare dati relativi all’anno 2006.
Le patologie mentali vengono tripartite in nevrosi, psicosi, ritardo mentale o demenza. Vengono citati anche i casi di suicidio, tuttavia non è specificato se si tratti di tentati suicidi o suicidi realmente portati a termine.
Nel corso del 2005 sono state formulate 5 diagnosi di psicosi, una diagnosi di nevrosi, una di ritardo mentale/demenza, cinque casi di suicidio.
L’alcolismo e l’uso di sostanze sono fra le patologie che contribuiscono maggiormente alla disabilità legata ai disturbi mentali, intesa come somma degli anni vissuti in condizioni di disabilità e degli anni di vita persi per la malattia (Prince et al. 2007).
L’alcolismo è fra le principali cause di morte in giovani uomini e donne in molti paesi (Patel et al. 2006 a)
Anche a Gambo sono stati riscontrati casi di alcolismo. E’ difficile formulare una stima precisa del problema dal momento che in ospedale giungono solo i pazienti con le complicanze organiche dell’abuso di alcool.
Il direttore sanitario ha fornito un aiuto importante ad inquadrare il problema; anche se i benestanti hanno più facilmente accesso all’alcool questo non esclude che anche i meno abbienti ne facciano abuso. Il giorno di paga non è infrequente vedere soggetti in condizione di ebbrezza girovagare per le strade e rendersi molesti.
Per arginare il fenomeno ed evitare il dispendio immediato della paga mensile la missione ha ideato il sistema di consegnare nelle mani del lavoratore conosciuto come alcolista solamente metà del salario mentre la parte restante viene consegnata ai familiari (per lo più alla moglie, in modo che possa gestire l’economia familiare). Questo sistema ovviamente coinvolge solamente i lavoratori dipendenti dalla missione.
L’uso e l’abuso di alcool coinvolge prevalentemente il sesso maschile ma sono presenti casi anche fra le donne.
Sembra essere presente un atteggiamento di accettazione e di mancanza di giudizio negativo nei confronti dell’alcolista, se non di indifferenza. L’impressione è che l’alcolismo non venga percepito come una patologia vera e propria ma come un evento della vita che, una volta instauratosi diventa ineluttabile. In questo contesto l’intervento terapeutico diventa molto problematico.
La sostanza stupefacente più comune in Etiopia è il QAT, sostanza ad azione anfetamino-simile tipica del Corno d’Africa. Ha origine da un arbusto sempreverde le cui lunghe foglie vengono di solito masticate fresche, anche se è possibile consumarle una volta essiccate. I principi attivi in essa contenuti sono due alcaloidi, denominati catina e catinone, che determinano un effetto di tipo analogo a quello delle anfetamine.
Il suo utilizzo risultava tollerato in Etiopia, e il qat viene venduto liberamente agli angoli delle strade. Tutte le fasce di popolazione mostrano di conoscerne l’esistenza e considerarne socialmente normale l’utilizzo, in alcuni casi alla stregua di un vero e proprio rito, sebbene sappiano che un uso eccessivo e prolungato nel tempo possa “portare alla follia”. Si suppone quindi che siano noti casi di psicosi dovuta all’uso di tale sostanza psicotropa.
Molto complesso è il problema delle mutilazioni genitali femminili (MGF), termine con il quale s’intendono tutte le pratiche di alterazione e/o asportazione di parti dell’apparato genitale femminile per motivi culturali e tradizionali e comunque senza alcuna giustificazione terapeutica (www.who.int).
Studiare questo aspetto è stato arduo dal momento che riguarda un tema particolarmente intimo e parlarne viene percepito come un tabù; da chi vi si sottopone non viene utilizzato il termine di mutilazione genitale, che implica una connotazione negativa, ma ciascun gruppo usa un termine definito che viene tramandato insieme all’usanza stessa. A Gambo sembra essere una pratica trasversale a tutte le religioni e, anche in questo caso, le culture si sovrappongono e non esiste un’usanza comune. La motivazione più frequentemente addotta è quella del rispetto della tradizione.
Ringrazio sentitamente il Dr Francisco Reyes e tutto lo staff dell’Ospedale e della Missione per il supporto e l’accoglienza offertami durante la mia visita a Gambo nel mese di Novembre 2006.
Genova, Luglio 2007
Post Scriptum: Dedico questo articolo alla memoria della Professoressa Elda Rasore. La sua passione e la sua visione instancabile continueranno a ispirare chiunque condivida l’interesse per una salute mentale equa e attenta ai bisogni di tutti.
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