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“Lazzarelle” addio … L’evacuazione del Carcere Femminile di Pozzuoli 20 MAGGIO 2024

23 Mag 24

A cura di Gilberto Dipetta

“Abbiamo perso tutto” è il laconico e disperato messaggio dell’agente di polizia penitenziaria Angela, la mitica “Barese”, che mi arriva all’alba.
E’ il 20 maggio 2024, dopo una notte di sussulti della terra, di cui uno di 4,4 Richter, e di angoscia insonne tutte ammassate in un cortile a celle aperte, tra mura crepate e calcinacci crollati, tutte le donne detenute nel carcere femminile di Pozzuoli sono state evacuate, tradotte altrove. Smistate dove la ricezione era possibile in altri istituti penitenziari della Campania e fuori.
Si lacerano così legami ricostituiti sempre in maniera precaria, ma proprio per questo più intensi; si lacerano le vite delle agenti e degli operatori costretti a seguire il destino delle detenute. Legami tra il “dentro” e il “fuori” si lacerano, e si lacerano gli speciali legami di dentro, intimità forti, che superano le differenze individuali, l’omertà, le corazze caratteriali e restituiscono la solitudine di ognuna di loro al ritmo del mondo. Legami che, guardati solo da “fuori”, sono difficili da capire, ed anche da portare alla luce del sole. Legami che la libertà scontata e ovvia del quotidiano trasforma in polvere, ma che la privazione della libertà, come un sottovuoto, consegna al sogno, alla speranza, all’eternità. Domani è giovedì. Io non andrò più da loro, come nella consuetudine dei miei giovedì, dopo una notte di guardia, ad incontrarle nell’atmosfera crepuscolare del gruppo, che ormai andava avanti da più di un decennio, compreso il terribile periodo del COVID. Il nostro dialogo, l’ultimo dramma tra un eroe solitario ed un coro greco che veniva evocato da queste parti millenarie, si è così interrotto. Non sentirò più la voce stentorea dell’altoparlante che gridava rimbombando tra le entiche mura “Corso Gruppo Di Pettaaaa!”. E una dopo l’altra, alla spicciolata, si riunivano nello spazio che di volta in volta ci veniva concesso. Donne sempre le stesse e sempre diverse, alcune silenziose come statue di pietra, altre vibranti come canne al vento. E il vento era la melodia che prendeva corpo quando il dolore e la rabbia si intonavano sullo sfondo del silenzio. Negli ultimi due anni la prima a scendere era Gisa, che offriva a tutte lo stelo tagliato della sua vita. Ciao Gisa, sei stata espulsa dalla tomba che è diventata la tua culla. La caldera dei campi ardenti, pur non avendo ancora ingoiato umani e case, ha ingoiato così un intero mondo. Domani dimetteremo anche la detenuta che abbiamo ricoverato in TSO una settimana fa. Una delle tante che abbiamo ospitato in questi anni. In SPDC avevamo ricavato una stanza, ci eravamo abituati anche al drappello di guardia. Non so se e quando ne ospiteremo più un’altra. Indipendentemente dalle condizioni in cui arrivavano in SPDC, mi ha sempre colpito il fatto che queste donne volevano essere dimesse al più presto. A loro mancava proprio quella “communitas” che, anche se può sembrare incredibile, in carcere si era creata. Anche per merito del tatto della polizia penitenziaria femminile. In questi anni sono state diverse le agenti, tirocinanti ma non solo, che hanno preso parte all’esperienza del gruppo, mescolandosi alle altre signore, e mettendo tra parentesi la divisa, con un gesto più unico che raro. Le ho viste sorridere e piangere, come tutte le altre. A volte al pari, a volte più delle altre, riconoscendosi, unicamente, come donne tra donne. Un’esperienza, quella del gruppo con le Lazzarelle, per me straordinaria, indimenticabile, insostituibile. Mi hanno condotto per mano, come un bambino, gradino dopo gradino, ad esplorare un mondo femminile infinito di sfumature e di forme, popolato di figure arcaiche di grandi madri e di figlie ribelli, di tossiche perdute e di truffatrici incallite, di assassine e di paranoiche, di amanti e di vittime. Ho incontrato occhi, pelli, unghie, capigliature di tutto il mondo, dall’Africa all’Oriente, e soprattutto dalle viscere di Napoli. Mi sono sentito, come uomo, ogni volta, al loro cospetto, come il persecutore, il miserabile, l’indegno. A volte il salvatore. Per tutto quello che gli uomini hanno commesso su queste donne, ogni volta che le ho incontrate, dentro di me, ho chiesto loro perdono. Vergognandomi dei miei simili. Il Carcere femminile di Pozzuoli, cioè tutto questo e molto altro ancora, adesso non esiste più. E Pozzuoli ha perso un indescrivibile patrimonio immateriale di umanità. “Lazzarelle” è il nome di una cooperativa di detenute attiva da alcuni anni all’interno del carcere nella lavorazione del caffè, il cui buon aroma riempiva, rianimandoti, nei giorni ariosi, il cuore fino a dentro le mura. Qui il nome “Lazzarelle” lo ho usato per estensione. Come un vezzeggiativo dell’essere queste donne una somma estrema di spregiudicatezza e di tenerezza, di femminilità e di mascolinità, di rabbia e di dolcezza, di dolore e di amore. La lunga coda di convogli blu della Penitenziaria che le hanno tradotte via, “deportate”, e per forza di cose “smembrate”, certo a salvaguardia della loro incolumità, non so quanto si siano resi conto di stare portando via un valore inestimabile : i loro corpi, le loro storie, le loro vite, i loro occhi, le loro speranze, la loro dannazione, il male fatto e il male subito. Ed ora il maniero è vuoto. Con i suoi camminamenti, le sue segrete, i suoi archi, i suoi corridoi e i suoi cortili, i suoi soffitti screpolati di giallo come i dipinti di Schiele. Vi immagino all’interno sopravvivere, nel crollo di tutto, sola, l’ “anima bianca”: Lina Stanco, un sorriso dolcissimo vestito di nero, la sorella del dolore di tutte, il genius loci della fortezza. Antica dimora che fu convento, in cui morì giovane Pergolesi di tisi sulle carte dello “Stabat Mater”, poi manicomio criminale femminile, dove morì arsa Antonia Bernardini e dove scontò la pena Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, e poi, infine, carcere femminile. Con le sue antiche scale, il suo affaccio sul mare, la sua adiacenza a residui di mura romane; con i suoi fantasmi, le sue presenze, la sensuale e vertiginosa atmosfera di zona di transito, di tempo fermo, di vita sospesa tra la perdita e la rinascita: senza tutto questo, senza le Lazzarelle, la città di Pozzuoli non sarà più la stessa. Ed io neanche. Rimango un piccolo clown, senza più il suo amato pubblico di bambine. Senza più il dolore della bellezza.

Solo la goccia di una lacrima, disegnata sotto gli occhi.

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