Il benessere psichico della persona risiede allora, in generale, nel riuscire a stabilire un equilibrio funzionale complesso, tra la propria vita interiore e la realtà esterna, tra individualità e collettività, tra autonomia e dipendenza. Abbiamo bisogno di relazioni intime e di un contatto profondo con l’altro, e al tempo stesso non vogliamo rinunciare alla nostra personalità e alle nostre specificità individuali. Il desiderio di fusione relazionale che si fa troppo pressante, porta alla negazione di parti di sé, e a un’accettazione incondizionata di realtà spesso intollerabili da un punto di vista logico, pur di mantenere intatta una certa relazione. E viceversa, legami che avvertiamo come pericolosi per la nostra integrità, inducono a una chiusura dell’organismo su se stesso, a un suo distanziamento e isolamento.
In sostanza, i bisogni e gli istinti che ci legano all’insieme dei fattori organici, genetici e relazionali della nostra specificità organismica, confliggono con la possibilità di soddisfazione, scarico e articolazione etica e psicologica, di questi stessi bisogni e istinti, all’interno della realtà sociale e relazionale che ci circonda.
Ora, considerando la variabilità e l’interdipendenza di tutti questi elementi, possiamo dire che le emozioni rappresentano quelle funzioni psicofisiche dell’organismo, capaci non solo di fare da filtro tra i bisogni interni dell’individuo e la realtà esterna. Ma anche di renderci consapevoli sia dei processi interni, che delle situazioni esterne, e del rapporto che intercorre o può intercorrere tra le due realtà, in relazione alla nostra persona, e al proprio senso di identità.
In quanto eventi psico-fisiologici naturali, le emozioni rappresentano un aspetto fondamentale essenziale della persona, e di essa in relazione al mondo. Il piano psicologico, fisiologico ed esistenziale, si fondono tra loro all’interno della sfera emotiva dunque.
Nel corso della storia della cultura umana, tuttavia, sono state investite di tali significati morali, a partire dai quali sono state considerate piuttosto come fonte di disturbo e di disagio.
Il bambino cui non è stato consentito di esprimere la propria dimensione emozionale, cresce con la sensazione di essere sbagliato, perdendo il contatto con la propria interiorità profonda. In questa maniera, si distacca da se stesso, e non riesce più a rapportarsi in questo modo agli altri. Essendo le emozioni il punto di contatto non solo con noi stessi, ma con il mondo dei rapporti interpersonali che ci circondano, l’alienazione emozionale produce una incapacità empatica rispetto agli altri, che non permette più di rapportarsi in modo appropriato. Viceversa, come insegnano gli innumerevoli studi degli Infant Research, è solo una sintonizzazione emotiva adeguata tra madre e bambino a far si che si sviluppi in lui quel senso di autoefficacia e di autostima che, come dice la Miller, si può fondare unicamente sul riconoscimento interno dell’autenticità dei propri sentimenti.
Se le emozioni permettono dunque di stabilire un contatto empatico con gli altri, è necessario un contatto sufficientemente empatico da parte dell’altro importante, viceversa, affinché il bambino costituisca al proprio interno un senso di sé stabile radicato nelle emozioni.
Le emozioni hanno una loro carica trasformativa, e non solo potenzialmente distruttiva, come a volte si tende a pensare. Non esistono emozioni positive o negative a prescindere.
Anche la rabbia, il rancore, la vendetta o l’invidia, possono dare luogo a evoluzioni funzionali positive, rispetto alla situazione cui si rivolgono, e viceversa rispetto alla propria interiorità. È solo attraverso una certa aggressività, infatti, la quale scaturisce da una emozione di rabbia, che posso incidere in modo profondo su una situazione che evidentemente non accetto. Se il mio capo continua a esercitare su di me una certa pressione ingiustificata, la quale mi costringe a fare cose che non mi competono, è mediante una certa carica aggressiva che posso essere assertivo, quel tanto che mi permette di farmi rispettare, affermando in questo modo i miei diritti. Nel caso dell’invidia, dall’altra parte, possiamo dire in generale che rappresenta una emozione volta all’autodistruttività rancorosa, la quale porta la persona al rimuginio mentale, che tende a ruotare attorno a ciò che non ha. L’invidia è l’emozione della mancanza. Essa mette l’individuo a contatto col proprio senso di vuoto, e lo spinge a vedere l’altra persona attraverso uno sguardo carico di frustrazione e scontento. Sopprimere l’invidia, tuttavia, porta a negare il bisogno che l’invidia stessa, come mancanza di tale o talaltra cosa, sta a indicare. Accettare l’invidia, viceversa, spinge al riconoscimento consapevole delle proprie fragilità, e dei desideri di realizzazione sottesi a questa emozione. In sostanza, accogliere la carica energetica dell’invidia, può portare a un automiglioramento della propria condizione esistenziale.
Le emozioni scandiscono il senso del nostro tempo interiore, del tempo vissuto.
La nostalgia si riferisce solitamente a un certo passato verso il quale vorremmo ritornare, e che sommerge il presente cancellando la dimensione del futuro. La capacità progettuale cioè della speranza e dell’attesa. Nella nostalgia si vive in una condizione di esilio, di sradicamento dal qui ed ora, che congela la persona in un silenzio carico di ricordi vaghi e indistinti.
Viceversa l’ansia ci lega, spesso drammaticamente, a un futuro che temiamo, e che vorremmo non sopraggiungesse mai, o dal quale vorremmo rifuggire. Nella dimensione emozionale ansiosa la persona anticipa continuamente un futuro angosciante, rispetto al quale teme il fallimento, come succede spesso nella cosiddetta ansia da prestazione. Tuttavia, l’anticipazione fa si che il futuro sommerga il presente e la realtà delle proprie risorse attuali, saturando lo spazio interiore dell’anima che si popola di fantasmi. Nasce come tentativo di compensazione, come reazione alla paura, ma spesso, se non parte da una focalizzazione sui dati di realtà presenti, si rivela peggiore del male temuto.
Nella noia viviamo il tempo infinito, immobile, di un presente rappreso, congelato, nel quale non c’è differenza tra un prima e un dopo, e all’interno del quale le esperienze si contraggono sotto il segno della ripetitività e al tempo stesso dell’anonimità: come dice Cioran, “Nella noia il tempo scorre ma non passa.”
Interessante a questo proposito, la sottile differenziazione fenomenologica del tempo vissuto proposta da Jankélévitch, rispetto al rimpianto e al rimorso:
"[…] il rimpianto vorrebbe prolungare; il rimorso, invece, vorrebbe annientare; l'uno deplora un passato assente, l'altro, invece, un passato che è fin troppo presente. L'uomo, talvolta, è lacerato tra il rimpianto del piacere disdegnato e il rimorso della colpa commessa, senza che l'uno consoli l'altro: l'occasione perduta, infatti, e il peccato compiuto non ammettono altra misura comune che la temporalità […] nel primo caso, si tratta di un passato infinitamente caro e che vorremmo eternizzare, nel secondo, invece, ci distogliamo con orrore da un passato abominevole e che non
dovrebbe mai essere esistito."
Ma è anche lo spazio vissuto che viene a conformarsi a seconda dello stato emotivo presente.
Nella malinconia, ad esempio, la persona abbisogna di uno spazio di riflessione adeguato che possa ospitare il suo senso di smarrimento, la sensazione di perdita, di assenza di intenzionalità. Il suo spazio interiore diventa impalpabile, frammentato. La persona si isola in geometrie ristrette, contenute, private, e al tempo stesso anche le persone della sua vita, le sue relazioni, si fanno distanti. Quando siamo melanconici, abbiamo bisogno di rientrare in noi lasciando il mondo esterno fuori, a distanza. O meglio, in una lontananza non invasiva. Nella malinconia a volte c’è bisogno infatti di una presenza quasi inumana, che possa fare da “stimolo” al riapprendimento del nostro mondo interiore. Una buona musica, un bicchiere di vino, il fuoco. La solitudine diviene lo sfondo esistenziale dell’esperienza melanconica.
Nella nostalgia, paesaggi consueti si contornano di estraneità, divenendo inconoscibili, stranianti. Siamo altrove, sradicati dal presente, perduti in quei luoghi interiori dell’anima, che si effondono in sfumature di ricordi affastellati tra loro senza soluzione di continuità. I territori interiori della nostalgia, sono luoghi senza contorni definiti, intermittenti: vengono lasciati e ripresi continuamente, a seconda di quanto si riemerge o ci si inabissa nelle profondità del proprio sentire.
Nella tristezza vera e propria, è difficile che, si da subito, si abbia voglia di condividere i propri vissuti dolorosi con qualcuno. C’è necessità di isolamento, perché è lo spazio interiore vissuto ad essersi ristretto radicalmente. Coagulatosi in modo improvviso attorno a ferite sanguinanti, a lacerazioni e cicatrici interiori, invisibili agli occhi. I luoghi aperti, solitamente, ci appaiono troppo sconfinati per poter contenere il nucleo fragile della nostra tristezza. Meglio la nostra camera, o comunque uno spazio conosciuto, tale da sintonizzare una certa “comprensione spaziale” con il senso di una interiorità raccolta in se stessa.
Nella gioia e nella sorpresa, viceversa, si ha solitamente bisogno di esprimere in modo aperto i propri vissuti, e quindi anche uno spazio angusto, chiuso, compresso, viene vissuto come inospitale dal punto di vista di una emozione di gioia, che spinge all’apertura e alla condivisione. Nella sorpresa e nella gioia il corpo stesso tende all’apertura, poiché l’entusiasmo che l’accompagna spinge alla accettazione, alla comprensione e all’incontro con gli altri. Nella tristezza ci ritiriamo dal mondo; viceversa nella gioia ci apriamo ad esso. Abbiamo più motivi per intrecciare relazioni, stabilire legami, fare progetti. In sostanza, per vivere in modo intenso e pieno.
Oltre alla attivazione di questi vissuti fenomenologicamente descritti, tuttavia, c’è da dire che le emozioni sono anche dei processi neurali e corporei, degli eventi dunque psico-fisiologici come abbiamo detto.
Sono cioè dei meccanismi neurofisiologici di tipo evolutivo, strutturatisi a partire da una necessità di sopravvivenza dell’individuo rispetto agli input ambientali. Ma anche, e soprattutto, degli elementi interni a uno sfondo condiviso, costituito dalla corrispondenza isomorfica esistente tra struttura cerebrale, funzioni mentali e vita di relazione.
Le neuroscienze a questo proposito hanno confermato gli studi effettuati sulla percezione dalla Gestalt, rispetto alla unità organismo-ambiente come sfondo che precede la distinzione del sé, attraverso una unità di funzionamento tra due strutture: quella fenomenologica e quella neurale-cerebrale. Quando siamo consapevoli di qualcosa, qualcos’altro sta accadendo simultaneamente all’interno del nostro sistema nervoso centrale.
Questo non significa altresì, come spesso intende qualche teoria riduzionistica, che ci sia una causalità biologica dei fenomeni emozionali psicologicamente e fenomenologicamente intesi. Ma che non è possibile riferirsi solo all’uno o all’altra in modo escludente. A dimostrazione di ciò, banalmente, potremmo riferire quei casi in cui in apparenza un emozione può “provocare” una sensazione, come nell’ansia, che fa accelerare il cuore o fa aumentare la sudorazione, e viceversa la stessa sudorazione e accelerazione cardiaca promuovono l’ansia.
L’emozione, secondo la griglia di riferimento gestaltica, rappresenta la consapevolezza integrativa del rapporto tra l’organismo e l’ambiente, la figura in primo piano di varie combinazioni di propriocezioni e percezioni. È cioè essa stessa una funzione del campo, inteso come l’insieme degli scambi tra interno ed esterno, rispetto alle altre funzioni e agli elementi interni all’organismo. Come infatti sostiene la psicologia della Gestalt, le emozioni sono degli strumenti di cognizione.
Esse cioè ci aiutano a farci comprendere di cosa abbiamo bisogno, di come reagiamo a una determinata situazione o persona, dove ci dirigiamo o dove vorremmo andare.
Il desiderio in questo senso è l’intensificazione dell’appetito di fronte a un oggetto distante, in modo tale da superare la distanza o gli altri ostacoli. Il dolore mentale è la tensione della mancanza o del difetto nell’accettazione dell’assenza dell’oggetto dal campo, in modo tale da ritirarsi e recuperare; l’ira è la distruzione degli ostacoli che si frappongono all’appetito; il rancore è un attacco contro un nemico opprimente e inevitabile, in modo da non capitolare completamente; la compassione è l’allontanamento o il disfacimento della propria perdita per mezzo dell’atto di aiutare un’altra persona. E così via.
L’importanza delle emozioni, e allo stesso tempo la loro ambiguità, si rivela all’interno della classica dicotomia ragione-sentimento nelle scelte che compiamo ogni giorno.
Ogni scelta, per quanto consapevole e razionalmente programmata, deve avere come spinta di base una emozione di partenza prevalente, capace di orientarci verso ciò che ci piace o non ci piace, verso ciò che desideriamo o non desideriamo, che ci appassiona, entusiasma e ci da gioia. Oppure ci rimanda a una condizione di noia, paura, disagio.
Dall’altra parte vero è anche che non solo per compiere una scelta c’è bisogno di una base emozionale di partenza. Ma è lo stesso metterci di fronte alla possibilità di fare una scelta, a produrre in noi una serie di emozioni, le quali ci danno la misura, la cifra, di quanto una scelta, piuttosto che un’altra, fa al caso nostro.
Questo perché di fronte a una emozione significativa, vi è il rilascio da parte delle ghiandole surrenali del neurotrasmettitore dell’adrenalina, la quale, attraversando l’amigdala e l’ippocampo, fissa diversi “compiti mnemonici” sedimentandosi nelle lesioni amigdaliche, le quali attivano a loro volta dei recettori β-adrenergici.
Damasio ha messo in evidenza a questo proposito, come i pazienti con lesioni al circuito neurale che collega l’amigdala, e cioè la centralina emozionale cerebrale, ai lobi prefrontali, quella zona del cervello che raccoglie le funzioni corticali superiori che stanno a fondamento del pensiero razionale, non riescano a prendere decisioni banali come stabilire un semplice appuntamento.
La loro intelligenza rimane intatta, e tuttavia le scelte riguardanti la professione o le relazioni private sono disastrose.
Non avendo più la possibilità di accedere alla memoria emozionale contenuta nell’amigdala, la neocorteccia, per quanti input riesca ad elaborare, non riceve più quelle reazioni emotive capaci di indicare quali preferenze o avversioni, un determinato evento passato, ha tracciato nei circuiti cerebrali. Di fronte a un evento similare, il soggetto percepisce una neutralità emozionale che pone una equivalenza tra le differenti scelte possibili. Le reazioni emotive, legate al ricordo di una esperienza passata, infatti, restringono il campo decisionale razionale rispetto a un determinato evento o scelta possibile nel qui ed ora, perché quello stesso evento risuona nella memoria emozionale, rammemorando gioie, dolori, gratificazioni, paure. In questa maniera, la scelta delle opzioni si restringe drasticamente, permettendo di uscire dalla indecidibilità che porta alla inazione, come nell’esempio paradossale dell’asino di Buridano, morto di fame di fronte a due identiche ciotole di cibo. Oppure, possiamo dire altresì che gli input emotivi inducono a scegliere in modo etico e personale, al di là della neutralizzazione emozionale data dalla equivalenza del puro intelletto.
Oltre alle funzioni cognitive coscienti dunque, e alle manifestazione fenomeniche mentali, le emozioni sono legate a doppio filo alle sensazioni corporee, agli stati somatici e muscolari.
Le emozioni esprimono una tensione sollecitata da un bisogno, la quale spinge il soggetto a produrre un movimento o a negarlo (ex movere, muovere da, muovere verso). Bloccare un’emozione significa dunque soffocare l’intenzione orientata all’azione che essa rivela, cioè misconoscere ciò che nel profondo di noi stessi desideriamo. In questo senso, un’emozione negata o inibita viene a depositarsi nelle strutture muscolo-scheletriche del corpo, strutture attraverso le quali tratteniamo o esprimiamo, appunto, l’energia dinamica delle emozioni, predisponendo così le condizioni elementari per le cosiddette patologie psicosomatiche.
L’analisi della corazza muscolare fatta da Reich, viene ripresa da Lowen ed estesa come principio fondamentale a tutta la psicosomatica (che prende in considerazione anche la cosiddetta dimensione d’organo, e cioè la malattia come metafora, la quale sintetizza la predisposizione da parte della persona a somatizzare un disagio psichico, che viene a localizzarsi in uno più organi).
Queste analisi hanno messo in evidenza come ci sia un rapporto di interdipendenza funzionale, tra le emozioni interne che vengono sperimentate e rimosse, e gli irrigidimenti muscolari corrispondenti, messi in atto per esprimere o viceversa per bloccare quelle stesse emozioni. In altre parole c’è una interdipendenza tra emozioni e corazza muscolo-scheletrica, tale per cui a una determinata tensione muscolare corrisponde un blocco emozionale, e viceversa a un blocco emozionale corrisponde una tensione somatica. C’è cioè una medesima esigenza difensiva, la quale connette emozioni e apparato muscolo-scheletrico.
Quanto maggiore sarà l’irrigidimento muscolare, tanto meno le emozioni trattenute in esso saranno consapevoli. Questo perché le abitudini, i condizionamenti e le memorie di tipo motorio, cioè corporee, appartengono alla cosiddetta memoria procedurale. La memoria procedurale è automatica, poiché coinvolge il sistema nervoso vagale, la produzione ormonale, il sistema PNEI, e le modifiche somatiche. Tutto ciò che va a depositarsi nel corpo, diviene pressoché inconsapevole.
Come sottolinea Marchino, “[…] i blocchi psicosomatici, infatti, ci dicono chi siamo, come dobbiamo essere e come muoverci nell’ambiente, ma noi non siamo più padroni di questa consapevolezza. Quindi, paradossalmente, l’armatura è una consapevolezza inconscia: una consapevolezza del Sé, inaccessibile però all’Io."
Al di là della dimensione psicosomatica, possiamo semplicemente dire che ad ogni emozione corrisponde una sensazione di un qualche genere, e che ad ogni sensazione corporea può corrispondere una emozione o stato d’animo.
La paura, mediante l’attivazione del sistema talamo-amigdalico, si esprime attraverso una scarica di adrenalina (la quale viene prodotta dalle ghiandole surrenali), che a sua volta produce la costrizione dei vasi sanguigni, un aumento del battito cardiaco, la contrazione dei muscoli appendicolari e sottocutanei, facendoci drizzare i peli dell’epidermide. La tristezza ci fa piangere, ma al tempo stesso le lacrime degli altri, quindi la percezione sensoriale delle stesse, produce in noi un senso di malinconia o tristezza, che ci fa commuovere a nostra volta, facendoci sentire “scossi”, abbattuti fisicamente.
Il corpo si ripiega nella tristezza, si chiude su di sé, come nel caso del lutto, quasi a proteggere ed elaborare il proprio dolore, che è effettivamente la funzione della tristezza. E dall’altra parte nella gioia il corpo si allarga, si eleva verso il cielo, tentando di esprimere l’entusiasmo che lo percorre. Nella gioia la persona non si sente fragile come nella tristezza, per questo le è più facile aprirsi agli altri, piuttosto che cercare di contenersi. Nella rabbia il mio corpo si tende come una corda, pronto a scattare per aggredire e difendersi dal pericolo. A ogni emozione provata interiormente, corrisponde una espressività corporea di un qualche genere, carica di sensazioni.
Le neuroscienze hanno mostrato come sentire una emozione in prima persona, o addirittura vedere quella stessa emozione nel volto degli altri, attiva le regioni cerebrali che vedono il coinvolgimento dell’insula e delle cortecce prefrontali e premotorie, come nel caso del disgusto. Queste aree sono capaci a loro volta di attivare una modificazione delle differenti mappe corporee corrispondenti, che in questa maniera simulano quella stessa emozione, “come” se fossimo noi stessi a provarla.
Come mostrano questi esempi, lo stretto legame tra la nostra parte razionale, fatta di pensieri consapevoli, giudizi e critiche su noi stessi e sugli altri, le immagini fantasiose, progettuali o mnemoniche, la fenomenologia del nostro specifico modo di vivere gli stati d’animo, e le nostre emozioni viscerali e il senso del corpo vissuto, si rivela altresì evidente sia nel momento in cui viviamo il nostro mondo interiore in solitudine, sia quando compiamo scelte più o meno importanti rispetto al mondo che ci circonda.
Pensieri, immagini mentali, sensazioni e movimenti corporei, si affastellano in un continuum psicofisico e ambientale così complesso e multistratificato, all’interno del quale diventa un lavoro molto complesso quello di discernere e stabilire in modo netto, assoluto, le emozioni e gli stati d’animo che vi sono implicati.
Senza contare che le emozioni vagamente accennate qui, si riferiscono a descrizioni pressoché didascaliche, classiche, probabilmente schematiche, che riducono enormemente la varietà praticamente infinita delle diverse “sfumature emozionali” possibili.
Borgna parla ad esempio di una tristezza intenzionale, la quale porta al di fuori del proprio io mettendo la persona in contatto con gli altri. Di una tristezza psichica, in cui la persona è trafitta dalla sofferenza e dalle lacerazioni interiori, al punto tale da far collassare la mente all’interno di un nucleo interiore indicibile e insostenibile. E anche di una tristezza vitale, che esula dai contorni psichici del disagio, perché il dolore dei sentimenti si traduce nella sofferenza alienata del corpo, il quale viene vissuto attraverso modalità distorte, in un disorientamento fenomenologico che ipostatizza l’individuo all’interno delle ferite del proprio cuore.
Anche il passaggio e le sfumature tra una emozione e un’altra, complessificano ancora di più la labilità eterea dei confini esistenziali, psicologici e somatici. La gioia di un incontro, può tramutarsi in una felicità che perdura lungo i giorni o addirittura nei mesi, come quando si è innamorati; oppure può diventare euforica, in una esaltazione dell’ego, facendosi così autotrofica e declinando inevitabilmente in un certo sconforto, quando l’emozione scema, ripiegando ineludibilmente la persona nella ripetitività delle sue occupazioni quotidiane.
Infine, lo accenniamo, le emozioni possono ammalarsi e far ammalare, sconfinando nella dimensione psicopatologica. Così la malinconia può declinarsi nella depressione; la gioia nella maniacalità esaltata; la vergogna può trasformarsi in fobia sociale.
Ma forse è nelle emozioni più violente che i confini tra Io e Mondo, tra sé e gli altri e tra psiche e soma, tendono ad assottigliarsi, a infrangersi, e a volte scomparire totalmente. Altre volte addirittura a invertirsi rispetto a una certa consuetudine.
Nella vergogna ad esempio, vita interiore e manifestazioni somatiche si sovrappongono senza soluzione di continuità in modo evidente e lacerante.
La vergogna provoca il rossore del volto al quale si accompagna il silenzio della parola, l’irrigidimento corporeo, lo sguardo piegato a terra. Ma a queste manifestazioni corporee fanno da contraltare i vissuti dell’anima estraniata rispetto agli altri, smarrita, isolata in se stessa, a partire dalla interruzione della comunicazione con il mondo.
I sensi di colpa invadono l’interiorità, facendo sorgere idee mortifere di autodistruzione.
Chi è oggetto di vergogna, non si sente tale in quanto viene osservato solamente nel suo stesso corpo, ma anche rispetto a caratteristiche psicologiche e spirituali di cui gli altri si fanno giudici spietati. In questo senso, la vergogna può partire da una certa azione effettivamente compiuta, da un certo fare, per poi riferirsi all’essere stesso della persona. Per questo è così straniante. Perché coinvolge qualcosa di irreparabile, e cioè la totalità del mio stesso essere. Come dice Sartre, è all’interno della metafisica della intenzionalità degli sguardi che io divengo quell’oggetto impotente, degradato e cristallizzato, che viene a dipendere dagli altri per essere ciò che è. Gli altri, attraverso la trascendenza del loro sguardo, mi alienano dalle mie stesse possibilità facendomi ricadere drammaticamente nel mondo, in mezzo agli altri oggetti.
Nella vergogna, l’altro può vedere cose di me che non sono disponibili alla mia osservazione. In questo modo io mi alieno. Divento cioè consapevole di me stesso dall’esterno: ma non a partire dalla mia propria osservazione, bensì attraverso lo sguardo estraniante della mia esperienza di me stesso da parte dell’altro.
Tuttavia, qui non vengono aboliti solamente i confini tra diverse coscienze, e invertite le reciproche intenzionalità.
Nella vergogna io “sento” effettivamente gli occhi degli altri sulla mia pelle, sul mio volto, sui miei occhi. Cosicché è il mio stesso corpo a diventare un “occhio che vede”, e che percepisce il “giudizio” degli sguardi altrui su di sé. Quando provo vergogna, non basta che io chiuda gli occhi per non essere più visto-e-giudicato. Difatti, si dice che si vorrebbe “diventare niente”, “scomparire”, scappare da tutti e da tutto portando via il proprio medesimo corpo. In questo senso la vergogna non può essere considerata semplicemente come un fenomeno mentale di autogiudizio, né l’espressione di un fenomeno meramente somatico. Ma può essere giustificata solo come la consapevolezza di una coscienza incarnata, la quale si sente alienata nel proprio essere, nella esposizione disgregante di fronte allo sguardo altrui.
Gli attacchi di panico, a loro volta, vengono rappresentati come un grave disturbo psicologico.
Tuttavia, come dice Recalcati, il merito della psicoanalisi consiste nel ritenere che le cosiddette “malattie mentali” rivelino non delle anormalità, ma bensì delle verità esistenziali. In questo senso il panico non rappresenta una emozione in senso stretto, ma l’esperienza di un disagio esistenziale dell’anima, il quale tuttavia si incardina radicalmente all’interno di una duplice dimensione emozionale. Le emozioni sono, difatti e principalmente, una delle grammatiche fondamentali dell’esistenza. Come aveva intuito Heidegger, esse rappresentano la dimensione radicale dell’esserci (Dasein).
L’attacco di panico dunque, a mio parere, rappresenta una manifestazione emozionale intermedia tra la semplice paura, che di solito è diretta verso un oggetto particolare percepito, e l’angoscia. La quale può essere definita come l’esperienza dello sprofondare dentro se stessi di fronte a “nulla” di particolare.
L’angoscia infatti non è la paura di questo o di quell’oggetto. Coinvolgendo in modo integrale la persona, sradicandola, l’angoscia è quella emozione che, di fronte all’assenza di fondamento di ogni essente, mette allo scoperto la fragilità intrinseca della nostra esistenza nella sua totalità. Essa rende manifesta la labilità ontologica di ogni cosa. L’angoscia si rivela cioè come l’appercezione di sé di fronte alla possibilità di non esserci.
Nel panico, l’esperienza del proprio corpo si sgancia dall'esperienza e dal contatto con il mondo, a partire dall'angoscia della morte, e cioè del nulla.
Percepisco la galleria, so che se mi introduco in essa posso entrare nel panico: è quello l’oggetto del mio terrore. Eppure, alla cognizione dell’oggetto si accompagna l’angoscia di essere nulla, il sentimento di divenire nulla. Il panico si dirige così verso un oggetto, per poi deviare radicalmente da esso. Di fronte all’angoscia di morte, l’io si sfalda, e il mondo diventa il mio stesso corpo, il quale viene a coestendersi ad esso in un dilagare incontenibile e destrutturante. La persona, strappata a se stessa e al proprio legame con il mondo, viene ricondotta drammaticamente alla propria nullità potenziale di fronte all’angoscia di morte. Non essendoci più alcun argine dell'io che fa da contenimento, né un corpo che-agisce-nel-mondo come insieme delle sue possibilità concretizzabili, ciò che rimane è solo la proliferazione sensoriale incontrollabile di un corpo che aderisce alla realtà esterna, senza più alcun confine tra l'uno e l'altra.
Psiche, soma e mondo, in questo senso, perdono i reciproci confini.
Le emozioni dunque nascono come strutture neurofisiologiche e muscolari all’interno della evoluzione umana, ai fini della sopravvivenza della specie e del singolo. E dall’altra parte rappresentano delle funzioni di senso complesse, che riannodano le trame della nostra vita in una coerenza narrativa densa e stratificata, la quale tiene insieme la nostra intenzionalità, il senso delle nostre relazioni, la teleologia generale della nostra esistenza, e la visione del mondo che fa da substrato a tutto questo.
In questo senso le emozioni fanno da ponte non solo tra l’interno e l’esterno e tra l’Io e il Mondo. Ma anche fra mente e corpo e tra la dimensione psicologica e quella esistenziale, rappresentando così quella cifra di senso, capace di restituirci la natura dei rapporti intrapersonali e interpersonali. Di quei rapporti cioè che intratteniamo al nostro interno, con le differenti parti e funzioni che compongono la nostra interiorità, e al medesimo tempo con gli altri. Laggiù, nel mondo.
Il problema della consapevolizzazione, del contatto e della gestione delle emozioni, sta allora nel fatto che, essendo legate alle sensazioni corporee da una parte, e dall’altra ai processi cognitivi di pensiero che la mente non smette di produrre, così come ai vissuti esistenziali e ai nostri modi di esserci, rappresentano un qualcosa di opaco, e spesso di indiscernibile, di inestricabile.
È dunque importante a questo proposito, innanzitutto, consapevolizzare le emozioni attraverso una loro definizione cognitiva e verbale.
Dare un nome alle emozioni è importante, poiché tutto ciò che all’interno della interiorità non ha nome, tende ad alimentare il caos, l’oscurità, e l’azione inconsapevole. Spesso le emozioni che non vengono riconosciute, vengono “agite”. Tendono cioè a scaricarsi, invadendo la stessa persona, non tenendo conto del contesto in cui essa è inserita. Nominarle già rappresenta un primo passo, rispetto a quella che Goleman chiama intelligenza emotiva. E cioè l’insieme delle capacità dell’organismo, che ci permettono di gestire le emozioni, tenendo conto non solo della dimensione intrapersonale, ma anche etico-sociale e relazionale, nella quale necessariamente viviamo.
Tuttavia, renderci cognitivamente e dialogicamente coscienti delle emozioni che proviamo, secondo quanto detto sulla molteplicità fenomenica di esse, non è sufficiente per divenirne pienamente consapevoli. Per ottenere la piena consapevolezza emotiva, occorre veicolarne il potenziale intrinseco attraverso la propria espressione corporea, così che le emozioni possano ottenere quello scarico emozionale minimo, capace di creare una certa distanza interiore che faciliti l’ascolto, indicando così pienamente il senso di esse.
Se mi trovo in una situazione emotiva soltanto vaga, dice la Gestalt, l’emozione non viene percepita totalmente se non accetto il comportamento corporeo corrispondente. Non posso essere consapevole dell’ira solamente quando mi sale il sangue alla testa.
Ma è solo nell’atto di stringere i pugni che comincio a sentire veramente l’ira.
In questo senso, ulteriormente, se da una parte è vero che stringendo la mandibola o i pugni io posso provare vagamente una emozione di ira frustrata, aggiungendo a questi movimenti la consapevolezza ambientale di qualche oggetto con cui posso essere irato, questa emozione esplode completamente. Non solo devo rendermi consapevole di essere arrabbiato dunque: ma occorre che senta dentro di me questa rabbia, la esprima fisicamente, e sappia contro chi è diretta, e cioè qual è il suo oggetto. In questo caso la rabbia verso qualcuno, scaricata fisicamente contro un cuscino, aiuta a far scendere il “picco emozionale” rabbioso del momento. Il famoso “sequestro neurale”. Di modo che, successivamente, possiamo almeno ragionare e riflettere sulle motivazioni della nostra aggressività, e parlare di ciò che proviamo con la persona interessata con un certo equilibrio.
Essendo le emozioni una combinazione di percezioni e propriocezioni, il bisogno di combinazioni integrative di questo genere diventa dunque fondamentale per comprendere quali sono i rapporti all’interno del campo organismo-ambiente. Le emozioni rappresentano la conoscenza motivazionale che permette a un individuo di sperimentare, in modo più o meno funzionale, il proprio ambiente, di sentirlo o meno come proprio, di proteggersi da esso, di crescere.
Diventa un compito fondamentale della nostra esistenza dunque, quello di riuscire a dare “un nome” alle emozioni che proviamo, senza appiattire la dimensione emozionale in una continua categorizzazione e astrazione raziocinante. E dall'altra parte esprimere liberamente e spontaneamente le emozioni, senza rischiare di venirne travolti o di travolgere gli altri.
Come abbiamo visto rispetto all’analisi della corazza muscolare di Reich e la fenomenologia esistenziale, le emozioni si radicano profondamente sia nel corpo sia nella dimensione più puramente cognitiva del senso. Ed è dunque attraverso l’intensificazione corporea da una parte, e la verbalizzazione e l’articolazione ermeneutica dall’altra, che è possibile richiamare a sé la consapevolezza delle proprie emozioni e stati d’animo, all’interno della propria vita.
È luogo comune pensare che esprimere le emozioni liberamente dia necessariamente vita a un processo interiore liberatorio ed evolutivo. Niente di più sbagliato a mio modo di vedere.
Lasciare che le emozioni si esprimano a “briglia sciolta”, non implica altresì un processo catartico funzionale e necessario. Far “esplodere” le emozioni in modo inconsulto, totalmente aperto, o addirittura amplificare forzatamente fino alla commozione – come ho visto accadere in alcuni setting – l’intensità emotiva, non equivale a produrre un cambiamento. Anzi. Può accadere che la persona venga spaventata dall’erompere improvviso delle proprie emozioni, ottenendo l’effetto contrario rispetto a quello auspicato. Dopo la paura emozionale seguita alla espressione convulsa, può accadere esattamente una nuova inibizione: forse peggiore di quella precedente. Oppure può verificarsi il caso che la persona si concentri in modo egocentrico e in preda a una specie di delirio di onnipotenza emozionale, solo su ciò che prova ed esprime in un determinato momento, senza preoccuparsi minimamente degli effetti sugli altri e su di sé. Alla esplosione rabbiosa, allora, spesso fa seguito l’invasione nella persona di forti sensi di colpa.
La razionalizzazione non deve necessariamente escludere l'espressione emotiva, ma solo modularla in vista di un senso esistenziale ed etico, sia personale che sociale. Così come l'espressione emozionale non deve spazzare via necessariamente le categorie razionali e di senso, ma può convivere con esse elicitando la sua forza esplosiva in modo contenuto, ma dando comunque alla persona la possibilità, attraverso il pathos emozionale, di aprirsi a nuove dimensioni dell’esperienza.
È importante non inibire le proprie emozioni, consapevolizzarle, e provarle fino in fondo, sperimentarne cioè la pienezza nella presa di contatto. Ma ritengo altrettanto necessario “sussumerle” dentro di sé – interrogarne le radici, comprenderne la teleologia e l’intenzionalità che le sottende.
Ma anche, infine, imparare a “disciplinarle”, in funzione del proprio sé più autentico, e dei propri valori e significati esistenziali profondi: i quali includono necessariamente non solo il rispetto per se stessi, ma anche per gli altri. Riannodare quindi le fila cioè, che ci permettono di collegarci, tramite le emozioni stesse, ai rapporti fondamentali della nostra vita, ai nostri bisogni autentici e veri, mettendone così allo scoperto la “natura” e quindi il senso per noi stessi e per le nostre relazioni.
Se è vero che non siamo responsabili di ciò che proviamo, vero è anche, come dice Salvatore Natoli, che dobbiamo renderci responsabili di come esprimiamo ciò che sentiamo. Abbiamo cioè il compito, se vogliamo raggiungere una autenticità personale e relazionale, di comprendere quali emozioni rappresentano per noi qualcosa di importante per la nostra identità e maturità, e quali sottendono bisogni che siano ecologici. E che vanno realizzati all’istante quindi, oppure no.
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