non è soltanto guardare al di là della situazione presente,
ma è una forza vitale,
la forza di sperare quando gli altri si rassegnano,
la forza di tenere alta la testa
quando sembra che tutto fallisca,
la forza di sopportare gli insuccessi,
una forza che non lascia mai il futuro agli avversari,
il futuro lo rivendica a sé».
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa.
Avant propos.
Ricordare vagamente Machiavelli e approssimativamente Max Weber può servire ad avere un’idea di Amministrazione Pubblica ovvero di Burocrazia.
Non vorremmo che scomodare Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) l’eroico teologo luterano tedesco, che ebbe il coraggio di opporsi platealmente al Nazismo, fosse un pretesto per giustificare la nostra difficoltà a prendere il capo del filo narrativo sulla costruzione del servizio di salute mentale nel territorio di una Circoscrizione del Comune di Roma. Un racconto rievocativo, in apparenza, difficilissimo, ma in realtà bisognoso di laboriosità e pazienza oltre che memoria. Senza corsia ospedaliera, senza posti letto, senza biblioteche, né sale di lettura e neppure alcunché che ricordasse, anche alla lontana, una medicherìa, poteva comportare qualche esitazione. Ma per la verità un oggetto c’era, ed era un lettino metallico polifunzionale sollevabile, finito chissà mai per quali ragioni in quei paraggi, che poi come dirò meglio in seguito era un cantone di una vetrata di una grande palestra, di un collegio periferico di orfani di lavoratori [1].
No! Dietrich Bonhoeffer, dicevamo, è stato citato in esergo, per il suo esempio di coraggio e la sua capacità di non recedere di fronte a qualsiasi ostacolo, soprattutto terreno. Ne avevo sentito parlare, a Bologna, dai miei genitori, che avevo 13 anni e mi aveva colpito [2]. Per di più, lui aveva il nazismo incombente come momento storico che lo teneva prigioniero, e gli avrebbe stroncato la vita a 39 anni, mentre poteva fuggire dalla Germania. Ma rientrò, più volte, da quando Hitler andò al potere.
Io, invece, non avevo nessuno che mi tenesse prigioniero, se non il mio idealismo (o la mia ideologia). Non era niente di speciale questa “conquista del territorio per la prevenzione, la tutela e la riabilitazione della salute mentale”, ma semplicemente qualcosa su cui avevo profondamente ragionato, in cui credevo ed ero convinto di riuscire a realizzare. Chi non ha ideali? Dopotutto si trattava di sostituire un mondo durato anni, con un altro tutto da inventare. Bisognava seriamente cominciare a fare a meno di “Mamma Provincia” come molti pensavano e dicevano a quei tempi di transizione. Orfani certamente! Ma di una matrigna!
Soli, insomma! Ma potenziali artefici del nostro destino! Come avevo sentito dire retoricamente una infinità di volte essendo stato adolescente in una guerra atroce e in regimi totalitari. Sta a vedere che questa volta è vero mi son detto tra me molto sommessamente e una sola volta. Questa è la seconda volta che mi si affaccia alla mente e lo scrivo. Ma quante storie per un cambiamento! Sei lì a Roma. Dovresti sapere che «morto un Papa se ne fa un altro». Si, dicevo sempre tra me, ma qui si tratta di cambiare proprio religione! Non sono proprio storie e neppure piccole. Io che vengo da lontano, nel tempo, ebbi a sentire qualche lamentela circa il cambiamento post-bellico in Italia. Insomma ci fu un grande compromesso (pro bono pacis) – sentì dire – e il mutamento non fu radicale perché almeno la metà e forse più dell’assetto statale italiano continuò come prima [3].
Come che sia, il concorso da primari responsabili territoriali della salute mentale, fu l’ultimo atto amministrativo compiuto dalla provincia di Roma. Da quel momento ci trovammo a percorrere una lunga e faticosa marcia tra una marea di enti pubblici locali, comunali, regionali, statali, nazionali, privati, convenzionati, che, regolarmente preceduti dal magico suffisso semi, immediatamente legato al trattino seguente, rendeva fattibile qualunque intermediazione e perfetta ogni sorta di ibridazione. Ma poiché gli interessi pubblici degli enti locali spesso confliggevano con quelli altrettanto pubblici degli enti nazionali bisognava rapidamente maturare qualche rudimento di diritto (pubblico, privato, amministrativo) come minimo, senza dimenticare quello erariale, i bilanci, la P.A. ed altre difficilissime competenze di cui, almeno io, avendo fatto l’identica scelta Eugenio Borgna ossia “il medico dei matti”[4]
Tuttavia, un pensiero che mi disturbava e mi metteva qualche disagio era la sorveglianza funzionale della struttura di cui ero stato nominato direttore o primario o capo che dir si voglia. Materialmente: l’ufficio, il bureau, il servizio, il dipartimento, le sezioni, gli studi. Insomma, esercitare una specie di controllo – non saprei come altro dire – di tutto il personale dipendente della pubblica amministrazione, del servizio di cui ero responsabile. Ma anche accertarsi di quello che facesse realmente e come. Oddio, a dire il vero, era proprio un malessere mio personale perché eravamo quattro gatti, i locali non erano molti e qualcuno era venuto anche a montare un cartellino marcatempo, segno che il reparto amministrativo funzionava. Anzi, ora che mi ricordo meglio, si trattava di un badge elettronico. In fondo, proprio quattro gatti non eravamo, e i locali non erano molti, erano molto grandi che, per girarli tutti, o per andare dall’uno all’altro un monopattino sarebbe stato utile.
Dunque le persone da controllare erano il mio Aiuto Antonio Marasca, lo specialista SUMAI Dino Ancora, un etnopsichiatra, l’assistente medico Roberto Parravani [5], la sociologa Daniela Leone per l’informatizzatone delle cartelle cliniche, l’infermiera di origine argentina Viviana Arlati per l’etnopsichiatria sudamericana. Lo psicologo Gianni Paciucci, prezioso mentore delle priorità da svolgere e l’infermiere Renato Aloisi, responsabile delle attività sportive e dei regolamenti interni della Comunità terapeutica “Mario Gozzano”, chiudono questa lista sommaria e frettolosa. [6]
Ecco, senza tanti giri di parole, si trattava, per l’appunto, della mia burocratizzazione. Una trasformazione alla quale non avevo mai pensato era proprio quella di attrezzarmi a diventare un burocrate. Come Servizi di Salute Mentale, l’unica immagine che mi tornava gradevolmente alla memoria – operativa e concitata allo stesso tempo – era una visita, anni prima, che avevamo fatto al Servizio di Trieste, ai tempi di Basaglia. C’ero andato in treno, con Nando Agostinelli, [7] l’assessore provinciale al manicomio di Santa Maria della Pietà. Doveva essere il 1974, se la memoria non mi tradisce, e a pranzo fummo ospiti di Tommaso Losavio e Paola Tulli che già si erano trasferiti da Roma a Trieste. Ebbene, la cosa che mi aveva più colpito era il traffico sul piazzale dell’ospedale, di macchine e di persone, tutti molto indaffarati. Per esempio, intorno a un paziente che era incerto se tornare a casa a Basovizza – sull'altopiano del Carso – accompagnato subito da un infermiere e un autista, oppure se ritardare qualche giorno, si faceva un gran discutere. Chiunque passasse nelle vicinanze, partecipava e dava il suo consiglio. A colpirmi non furono tanto le difficoltà del paziente a prendere la sua decisione ma il numero di automobili di servizio in dotazione alla struttura triestina. «Certo che per fare un buon servizio territoriale di salute mentale ci vogliono molte macchine» – esclamò Nando Agostinelli, ma non so quello che avesse in mente – «l’esatto contrario di prima ovverosia stare chiusi dentro per anni!» – Fu, comunque, la sua conclusione.
A togliermi d’imbarazzo da queste pruderie tutte borghesi, si, diciamo pure, ad allontanare dalla mia figura di “Primario Capo Servizio” questa petite honte di apparire troppo burocrate, ci pensò un amico carissimo, che ho perso ormai da 12 anni: Benigno Ansanelli.(1936+2006). “Il Dott. Ansanelli” fu tra i primi funzionari dirigenti della costituenda USL a farmi da guida e a spiegarmi tutto quello che riuscivo a comprendere nei termini più semplici possibili. Persona più preziosa non avremmo potuto trovare, né la USL né io. Benigno, uomo di legge e d’organizzazioni sindacali agricole (C.I.A.) veniva da Via Mariano Fortuny. Ufficio lontanissimo, questo suo precedente, all’altezza di Piazzale Flaminio: sede regionale della Confederazione Italiana Agricoltori [8]. Credo che a quei tempi si occupasse di agricoltori pensionati, ma non so come, forse per sua scelta, preferì venire a Torre Spaccata.
Su questo fatto della lontananza dell’abitazione dalla sede di lavoro, ora che ci ripenso, mia madre, (Giovanna Zannoni 1901-2000), sempre concreta, era intervenuta con qualche velata critica. «Scusa tu abiti qui, in zona universitaria e prima per salire al manicomio di Santa Maria della Pietà facevi 17 chilometri, perchè te l’ho gia chiesto. Ora per andare in questa via di Torrespaccata quanti ne fai?» – «15 mamma» – mia madre conversava volentieri, amava rendersi conto delle cose e confrontarle fra loro. «Scusa! Potevi fare qualche chilometro in meno, ma va bene lo stesso. Pensa che Marco Sasso (1896-1917) da Oliero di Valstagna, medaglia d’oro degli alpini, al valor militare, sul Monte Fontanel – Val Calcino, nella “Grande Guerra”. Tutte le mattine quand’era studente, faceva 13 chilometri a piedi per andare da Valstagna a Bassano del Grappa e altri 13 per tornare a casa… tu almeno hai la macchina… non ti costa farne 2 di più».
1. 3 ■ Via di Torre Spaccata 157. Il bureau.
Fu così che andai a finire in via di Torrespaccata 157 (o più esattamente scelsi di andarci) all’Ottava Circoscrizione del Comune di Roma. La struttura, che avrebbe ospitato il cuore pulsante, l’ufficio del nostro SDSM era allocato presso il collegio (ex-ENAOLI) e l’istituto di Arti Grafiche “Bruno Buozzi” per l’appunto sulla via di Torrespaccata, con l’ingresso al civico 157. Si trattava di un Ente dismesso: l’Ente Nazionale per l’Assistenza agli Orfani dei Lavoratori Italiani (ENAOLI) il cui collegio era stato realizzato e destinato ad accogliere e istruire gli orfani assistiti dall’Ente medesimo. Il complesso era stato inaugurato ufficialmente il 29 ottobre 1965 dal Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Una delle prime riflessioni che mi venne da fare era l’assoluta inutilità dell’opera costruita appena 15 anni prima. Va bene che si era in piena guerra alle istituzioni, ma perché dismettere un collegio di orfani di lavoratori? Era per caso un luogo violento o forse che non c’erano più orfani e nemmeno più lavoratori? Per le istituzioni di ogni genere e grandezza era veramente un momentaccio [9].
I ragazzi che avevano alloggiano nell’istituto e vi avevano frequentano le scuole grafiche erano stati tutti dismessi. C’era solo un direttore e qualche sorvegliante in attesa di collocazione.
L’enorme complesso collegiale periferico comprendeva una grande palestra con vetrata, un capiente teatro, un campo sportivo regolamentare e una direzione con uffici per il governo delle attività didattiche, dove furono impiantati i primi uffici amministrativi della nuova struttura politico-socio-sanitaria (ASL o USL o ULSS) e del Comitato di Gestione: struttura politica elettiva con tanto di Presidente e Consiglieri.
Ricordo di aver conosciuto – nella qualità di consigliere del PCI – “dom” (dominus titolo equivalente a vescovo) Giovanni Battista Franzoni un benedettino nato a Varna, la perla bulgara del Mar nero, da genitori italiani, nel 1928 e cessato a Canneto Sabino (RI) nel 2017. L’ex Abate dell’Abbazia di San Paolo fuori le mura [10], fu uno dei primi regali del territorio. La conoscenza di un intellettuale religioso, in contrasto con la chiesa cattolica da cui proveniva, un cattolico del dissenso poi ridotto a divinis infine cacciato dalla chiesa (1973) [11], per le sue idee innovative o dissidenti: divorzio, aborto, votare il comunista Enrico Berlinguer (1922-1984), eutanasia passiva, fu per me un’esperienza irripetibile. Non doveva convertire nessuno. Bastava parlare con lui, ascoltarlo. Anche lui ascoltava te, noi. Gli argomenti in comune non mancavano: la povertà, la sofferenza mentale, le ingiustizie sociali. La negazione della parola e l’inascolto. “L'abate rosso” della basilica di San Paolo fuori le mura, che si definiva «un cattolico marginale», aveva fondato con un discreto seguito: la Comunità di basa di San Paolo. Teologo mai pedissequo né banale, ascoltato anche da Paolo VI, ammiratore di Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Aveva partecipato giovanissimo alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II, risultando il più giovane tra i padri conciliari. Iniziò i suoi studi di storia e filosofia nel collegio benedettino dell'abbazia di Farfa, dei quali divenne docente. Ordinato sacerdote nel 1955, fu eletto abate dell'abbazia di San Paolo fuori le mura a Roma nel marzo 1964 e, in tale veste partecipò al Vaticano II.
Non sempre era dato incontrare personaggi così eccezionali, ma l’ufficio di direzione, quando ci venivo convocato per rappresentare le necessità del mio Servizio – soprattutto l’organico perennemente carente e la previsione di spesa un po’ complicato a dire il vero – dava l’occasione di parlare con persone del territorio che avevano interessi politici, intellettuali, commerciali o universitari. Dunque tutto sommato il nuovo lavoro che mi presentava la direzione del servizio non era senza sorprese né interessi e abbastanza distante da ciò che io ritenevo una noiosa burocratizzazione.
Sul lato opposto, superato un vasto giardino c’era un altro fabbricato per le camere del collegio e, dopo la sala dei sorveglianti e del direttore, all’estremità nord/ovest, c’era anche un “Centro Anziani”, dove ogni tanto eravamo chiamati per qualche soccorso medico. Invece, sempre nei locali a piano terra di questo secondo fabbricato della ex direzione scolastica di codesto ex-ENAOLI, dove si teneva l’ufficio di direzione, erano allocate le pertinenze amministrative della USL, ma anche quelle del SDSM. Il servizio farmaceutico. Gli uffici amministrativi dedicati, per il controllo del personale, la compilazione delle turnazioni (mattina e pomeriggio), la richiesta delle ferie, l’avvertimento per un eventuale stato di malattia, ecc. La timbratura del badge per attestare la presenza, l’autorizzazione per gli straordinari, la “guardiola” della caposala con qualche farmaco d’urgenza, di cui controllare la scadenza, l’archivio delle lettere col protocollo, il garage per l’automobile di servizio e la documentazione relativa, le tessere dell’ATAC per circolare coi mezzi pubblici, l’archivio delle cartelle dei pazienti (documenti pubblici e atti ufficiali da custodire responsabilmente).
C’erano poi da fare le visite domiciliari al quartiere di Tor Bella Monaca dove la precedenza per l’assegnazione della casa toccava a quella famiglia che poteva presentare il maggior numero d’invalidi a carico, per la parte sanitaria e quello di maggiori problemi con la giustizia, per la parte giudiziaria. Per questo una puntatina successiva a Via delle Alzavole, sede del commissariato di PS di zona e a Torre Maura era quasi sempre inevitabile. Per quello il nostro territorio fu poi rinominato Municipio VI delle Torri [12].
Non era tutto. Il pezzetto ospedaliero del DSM dell’Ottava Circoscrizione – i fatidici 15 posti letto per l’SPDC – era sempre una questione aperta ed entrava in trattativa con le istituzioni ospedaliere del territorio. Quella con maggiori possibilità di successo era l’Ospedale Generale Madre Giuseppina Vannini – Istituto Figlie di S. Camillo di Via di Acqua Bullicante, 4 Roma, fondato e gestito, che io sappia, da suore cattoliche indiane che alla serietà e al rigore indiano, aggiungevano l’inflessibilità inglese. Non se ne fece nulla, anche perché loro volevano che l’ASL mettesse tutto il personale di guardia H24 e in aggiunta un primario stabile con un solido curriculum di OPP, mentre noi non eravamo d’accordo e dovetti spiegare chiaro e tondo all’Ufficio di Direzione per quali fondati motivi [13].
Cito così a casaccio quello che mi torna alla mente dopo una quarantina d’anni e che mi preoccupava grandemente perché non ero preparato a farlo. Se però avessi dovuto dire sinceramente non avevo idea di come e dove s’imparasse, quale fosse la scuola più adatta, chi fossero i maestri. Più in la degli studi giuridici, non andavo.
2. 3 ■ Scrittori e impiegati. Teoria e prassi. Tra il dire e il fare.
Fra me e me riflettevo. Ma tu guarda, da medico specialista e libero docente in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, da idoneo ai vari concorsi nazionali per i titoli di “Aiuto” e “Primario” di “Neurologia” e di “Psichiatria” (conditio sine qua non per accedere a qualsiasi carriera ospedaliera, fosse anche ambulatoriale o dispensariale), da iniziatore e primo Responsabile del SPDC del “San Giovanni” di Roma (1978); da Primario Capo Servizio del SDSM dell’VIII e successivamente anche del X Municipio di Roma (1980-1999), a sentirmi inadeguato per la funzione di burocrate. Semplicissimo! Sono due carriere differenti. Eppoi perché tutti quei concorsi? Semplicissimo! Lo dico io ora. «Il potere andava preso da dentro, per cambiare, per fare la rivoluzione manicomiale». Erano all'incirca i tempi di Michel Foucault (1926-1984), in cui le sue tesi, molto teoriche, avevano gran credito. Ma erano anche i tempi che i basagliani diffondevano i suoi motti antistituzionali come obici antimanicomiali: «… e mi no firmo!»
Ma, nonostante le visite a Villa Gentile, la Clinica Psichiatrica di Tor Vergata diretta da Nicola Ciani, dove svolgevano la funzione di “Aiuto” Alex Rubino e Bianca Pezzarossa, per qualche scambio d’informazioni e di materiale clinico per svolgimento di tesi, questo difetto/rifiuto di competenza burocratica continuava a frullarmi nella mente. Mi torna in mente quella volta che Ciani invitò a Villa Gentile il presbitero e scrittore modenese Gabriele Pietro Amorth (1925-2016) noto esorcista della diocesi di Roma e altrettanto noto frequentatore di psichiatri, coi quali a volte collaborava, per tenere una lezione sull’esorcismo. Ci vennero molti studenti e persone, come del resto ad ogni iniziativa di Ciani, e la discussione che seguì fu vivace.
Non riesco ad immaginare quale tasso di burocrazia avessero taluni noti scrittori a me familiari, e da me apprezzati, eppure il «bureau» l’avevano frequentato onorevolmente e senza lamentarsi. Se non volevano più andarci si licenziavano. Il ragionamento era abbastanza insulso, ma tenere in mano questa traccia di pseudo-pensiero durante quei 30 chilometri di guida per andare e tornare dal lavoro a Torre Spaccata mi teneva sveglio e mi distraeva molto, almeno per i primi tempi.
Il bilingue e biculturale triestino Italo Svevo, per esempio, al secolo Aron Hector Schmitz (1861-1928), dopo il fallimento dell’azienda paterna, era entrato a lavorare nella filiale triestina di una banca viennese dove rimase per circa 20 anni. Successivamente, cambiò ufficio per entrare, sempre come impiegato nell'azienda del suocero (1899). Ma anche questa fallì. Meglio dedicarsi alla letteratura. Poco importa che dubitasse di essere uno scrittore. La fama lo raggiunse dopo la morte a seguito di un incidente automobilistico. Senilità e La coscienza di Zeno avranno ampia diffusione nel mondo. In vita era curioso. Andò a cercare Freud (di cui tradusse L'interpretazione dei sogni) provando interesse per la psicoanalisi e nel 1911 trovò Wilhelm Stekel (1868-1940). Conosce e frequenta Joyce (1882-1941).
Il milanese Carlo Emilio Gadda (1893-1973), per la verità un po’ succube di una madre asfissiante, fino al 1940 aveva fatto l’ingegnere elettrotecnico girando anche parecchio per il mondo. Poi, stabilitosi a Firenze, smise con l’ingegneria elettrotecnica e continuò a fare lo scrittore di professione. Aveva perfino scritto un manuale di regole per chi doveva parlare alla radio
Il ceco Franz Kafka, scrittore di lingua tedesca e d'origine ebraica nasce a Praga nel 1883 e muore a Kierling (una collina viennese) nel 1924. Nell'estate del 1908, si trovava impiegato in un'agenzia d’assicurazioni boema. In tale sede compì una carriera di funzionario coscienzioso e apprezzato, che chiuse nel 1922 con richiesta di pensionamento. Il bacillo tubercolare aveva assalito gravemente i suoi polmoni nel 1917, senza possibilità di scampo. A Pavia, Carlo Forlanini (1847-1918) aveva inventato lo pneumotorace artificiale nel 1882, ma non era ancora così diffuso e praticato da raggiungere e guarire Franz Kafka. La tubercolosi, lo uccide nell'estate del 1924, poco più che quarantenne in una clinica nei pressi di Vienna,
Piero Jahier (1884-1966), di famiglia valdese originaria di Pramol in Val Chisone, nacque a Genova, dove il padre si trovava in missione pastorale, fu a lungo e più volte impiegato con ruoli ispettivi e dirigenziali nelle Ferrovie dello Stato. Già però da ragazzo, fu assunto come bibliotecario dal conte Piero Guicciardini e inviato a fare studi di teologia a Ginevra. Le vicende della vita ma soprattutto la “Grande Guerra” influenzarono grandemente le sue convinzioni religiose, le sue decisioni e il suo lavoro. Per chi non avesse confidenza coi suoi scritti citiamo qualche titolo fra quelli che a me sono piaciuti. Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (Firenze 1915), Ragazzo (Roma 1919), Con me e con gli alpini (ibid. 1919). Fu amico e commilitone di mio padre. Intellettuale e indipendente come lui sensibile alla sofferenza umana. Difficilmente classificabile come “burocrate”, analizza profondamente nel personaggio “Gino Bianchi”, impiegato, delle “Resultanze” dove mette in luce nel suo comportamento e nella sua esistenza dei tratti caratteriali che divengono prototipi dell’abbrutimento burocratico. Tali condotte negative, dall’ufficio, dove si generano, travalicano nella vita personale del protagonista, contagiandone i sentimenti religiosi, inaridendo quelli affettivi, spegnendo quelli emotivi, passionali, politici e così via. Non solo quelli della propria vita, ma anche quelli di colleghi superiori e inferiori. La forma narrativa dello Jahier, a quanto rammento, è progressiva, avvolgente, radicale (Lettere dalla Beozia) di talché l’abbrutimento burocratico, sotto forma di abbrutimento caratteriale, finisce col divenire generale, per diffusione endemica. L’intonazione pedagogica e la spinta a discostarsi dall’egoismo, attraverso una ironia graffiante ed un’aperta critica antiborghese, si traduce in una narrazione che ci solleva – senza quasi che ce ne si renda conto – dalla relazione d'ufficio a quella intersoggettiva, dalla "pratica", a un libro di cui fare una recensione.
A dire il vero, non è che fossi il solo a sentirmi in difficoltà. Il collega Fausto Antonucci (1939-2008) del V Municipio, dunque accanto al mio, già ricordato precedentemente in questo lungo e accidentato racconto sul passaggio dal manicomio al territorio, scrisse un saggio intitolato “Fra il dire e il fare”. Lo ha ricordato un tweet su aresam.it del 18/03/2018 di Girolamo Digilio, un altro collega legato alla battaglia che da anni sostengono i familiari dei pazienti psichiatrici per i loro diritti rammentandoci che Fausto Antonucci «Nel suo libro “Tra il dire e il fare”, del 1983… descrive “una situazione di grande cambiamento, caratterizzata da: eterogeneità dei gruppi e degli orientamenti, precarietà ed episodicità dei rapporti con il corpo sociale, diversità dei modelli di intervento e della cultura dei singoli operatori, dipendenza per la formazione scientifica e culturale dalle strutture universitarie e private, ancora rigidamente separate dalla rete dei servizi dell’assistenza pubblica”… inoltre si pone l’obiettivo di “rendere direttamente gli operatori socio-sanitari soggetti di ricerca, di sperimentazione e di produzione culturale facendoli diventare veicoli di scambio culturale, individuale e di gruppo e facilitare le possibilità del cambiamento” facendo emergere attraverso i momenti partecipativi (Consulta socio-sanitaria, Comitati di quartiere, Collettivi e Cooperative) “i bisogni della gente e la formazione di una cultura dal basso”».
3. 3 ■ Costruire il SDSM dell’8^ e del 10^ Municipio di Roma.
Dunque, per una serie di motivi storici, ideologici sociali e congiunturali, le vecchie istituzioni manicomiali erano divenute anacronistiche, disumane e violente. Erano comunque l’ultimo posto in cui si sarebbe potuto “curare” un disturbo mentale, posto che fosse una “malattia”, questione sulla quale ancora la polemica talvolta si riaccende e si riprende a discutere. Intanto – sia pure con una serie di dubbi esagerati, di tentennamenti eccessivi e di sottigliezze infinite da sfiorare la “resistenza” bella e buona – siamo giunti alla costruzione del SDSM della “Roma 5”. Questa occupazione de territorio per farsi carico della salute mentale, non è assolutamente da prendersi né come esempio, né come la migliore possibile, anzi, una fra le tante. Essa, però, certamente riferisce, o meglio racconta, il ricordo della mia personale esperienza, nel mio personalissimo linguaggio, secondo il mio particolare punto di vista, codesta vicenda del passaggio dal manicomio al territorio, dopo la Centottanta. Più o meno a distanza di quarant’anni.
Come ho già più volte detto, non essendosi mai verificato al mondo l’abolizione del manicomio per legge, c’era un’aria di pionierismo per cui era facilissimo prendere delle cantonate. D’altro canto non c’era nessun precedente. Dunque bisognava inventare tutto partendo da zero. Nel mondo ma soprattutto in Europa c’era di che ispirarsi. Ci siamo guardati intorno a lungo e ci siamo anche spostati tanto in Europa (Svizzera, Francia, Inghilterra) quanto negli Stati Uniti e in Africa, per raccogliere suggerimenti.
La linea tracciata in Francia dalla cosiddetta “psichiatria di settore” intorno ai nomi di Louis Le Guillant (1900-1968), Lucien Bonnafé (1912-2003), Georges Daumézon (1912-1979), François Tosquelles (1912-1994), Sven Follin (1911-1997), Philippe Paumelle (1923-1974), Pierre Bailly-Salin, Hubert Mignot. ed altri, sembrava la migliore e la più efficace per il territorio. La psichiatria di settore [14] partiva da una semplice circolare ministeriale (la “Circulaire Chenot”). Essa s’ispirava ai principi della lotta antitubercolare, per cui il responsabile dell’assistenza, era unico e, praticamente ubiquo. Egli, questa sorta di plenipotenziario, doveva rispondere sia del trattamento dispensariale, sia di quello sanatoriale, che di quello farmacologico, interventisti e così via. Naturalmente poteva delegare.
Ma la psichiatria di settore non era tutto e non esauriva il tema della psichiatria rivoluzionaria. Altro bolliva in pentola oltralpe. Venne il maggio parigino del 1968 e lo psicoanalista e psichiatra Pierre-Felix Guattari (1930-1992), allievo di Lacan attivo curator d’istituzioni nella prestigiosa clinica avanguardista di “La Borde” e militante politico dell'estrema sinistra stringe la sua alleanza col filosofo Gilles Deleuze (1925-1995) scrivendo due libri a quattro mani che faranno scalpore soprattutto per la critica radicale alla psicoanalisi: alle istituzioni psichiatriche e alla tradizione marxista: L'Anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia (1972) e Millepiani: capitalismo e schizofrenia) (1980). Peraltro anche Felix Guattari a La Borde si dava da fare nella psychothérapie institutionnelle insieme a Jean Oury (1924+2014). Non v’è chi non veda in questi due testi di Deleuze e Guattari i fondamenti della “schizoanalisi”. Una specie di critica radicale e sistematica rivolta a tutte le istituzioni in generale, secondo “i rapporti di potere da esse istituito e sviluppato tra gli individui e la società“ Vale a dire una nuova materia di studio da elevare a livello accademico.
Forse era molto utile per ragionare sul “fuori manicomiale”, ma ormai nella pratica territoriale l’analisi antistituzionale era ormai divenuta superflua [15]. Al “Municipio delle Torri” in particolare e a quella “Spaccata” sicuramente Dopo tutto sul territorio, meglio sul Municipio comunale, si andava costituendo una nuova struttura amministrativa, quella della ULSS o USL o ASL, gli acronimi come s’è già detto, si rincorrono, giocando a rimpiattino tra le cose aziendali quelle azzistenziali, frammentate, unitarizzate, socializzate e sanitarizzate.
In Inghilterra, c’erano a Londra, da prima della seconda guerra mondiale, al Belmont Hospital (esattamente in alcuni come isolati del Downs Hospital e in altri come parte dell'ospedale di Sutton) la “comunità terapeutica” (CT) di Maxwell Jones (1907-1990), al quale fu intestata la celebrità per averne creata una nel 1952; e subito dopo la guerra, a Northfield, intorno al 1946, quella di Thomas Main (1911-1990, al quale fu intestato l’eponimo). Entrambi lavoravano sul reinserimento dei reduci della seconda guerra mondiale gravemente traumatizzati dal punto di vista psichico. Sempre nel Regno Unito, c’erano quelli dell’antipsichiatria, una corrente molto radicale che contestava una “disciplina” in toto come la psichiatria, ma assai poco proponeva, dal punto di vista clinico e terapeutico. Il sudafricano David Cooper (1931-1986), lo scozzese di Glasgow Ronald David Laing (1928-1989) e il corregionale Aaron Esterson (1923-1999), erano radicalmente anti- (anche troppo), probabilmente molto visionari. Non andavano oltre un’impeccabile e coinvolgente indagine sociale. Chi non ricorda il Film Family Life? [16] . L’ungherese budapestino Tomás István Szász anglicizzato Thomas Stephen Szasz (1920-2012), era una mente raffinata che denudava le ipocrisie degli esseri umani, non solo quelle “borghesi” e diceva cose dirette sulle esperienze nevrotiche e psicotiche con calambour fulminanti e metafore magistrali. Fu scambiato per un “anti-psichiatra”. Fece bene ad andare a chiudere la sua esistenza, novantaduenne, a Manlius (NY). Questi ungheresi di Budapest, parlo per quanto mi riguarda, quando li incontri no puoi certo ignorarli. Angelo Brelich (1913-1977), storico delle religioni, scomparso sessantaquattrenne e Sándor Ferenczi (1873-1933), sessantenne,tanto per rammentarne solo due.
4. 3 ■ Benigno Ansanelli. Tacito, Claudio e l’ENA. Cambiare mestiere
Avevamo lasciato in sospeso il discorso sulla burocrazia. Vediamo ora di riprenderlo per dargli almeno una conclusione provvisoria.
Benigno Ansanelli era un personaggio favoloso, non solo per me, che mi forniva i primi rudimenti basilari, della burocrazia elementare, come ho già detto, ma addirittura per altri che un paio di mattinate la settimana venivano a trovarlo dal contado, non so come altro dire, in processione fino a Via di Torre Spaccata 153. Riceveva un pubblico variopinto di persone che lo venivano a visitare dalle campagne per avere un consiglio, farsi scrivere una lettera, per farsi risolvere un piccolo dissidio o farsi aggiustare una faccenda. Era evidentissimo a cosa servisse la penna e a cosa la zappa, a cosa la carta scritta e a cosa la promessa. Benigno da un lato e i suoi postulanti dall’altro, per quello che ho potuto vedere, erano la rappresentazione plastica, di quanto fosse stato pernicioso il latifondo (le paludi malariche, soprattutto) e di quanto fosse stata lungimirante la riforma agraria.
Ma quello che aveva Benigno di veramente speciale era la capacità di scomporre i problemi in tanti piccoli pezzetti e ridurli ai minimi termini. Quando non erano scomponibili o frantumabili li aggrediva con l’acqua saponata e anche un po’ corrosiva dell’ironia, cosicché gli ostacoli progressivamente si sgretolavano o scivolavano come ciottoli in un fiume alpino.
Sentite cosa mi disse un giorno, a proposito della mia preoccupazione/rifiuto di salire i gradini della burocrazia territoriale. – «Se ti puoi accontentare ti racconto come si racconta storicamente sia nata la burocrazia». Avevamo un po’ di tempo e la proposta mi parve vantaggiosa. – «D’accordo! Sentiamo la parte storica» – questo è più o meno quello che ricordo.
«Sappiamo da Tacito (Annales) – iniziò “il Dott. Ansanelli – che dopo l’assassinio di Caligola (12-41), i pretoriani andarono a scovare Claudio (10-54) per acclamarlo imperatore. Tiberio Claudio Druso, figlio di Druso maggiore e Antonia minore. Era un gallico di Lione, che se n’era stato tranquillo immerso fra i suoi studi di storia e di filologia, fino all’età di quasi 50 anni. Un po’ perché non era prestante per la vita militare, un po’ perché non era neppure molto portato per la politica e molto anche perché pare soffrisse pure di blesità, che vinceva recitando poesie o cantando, come spesso capita. Sembra non fosse nemmeno un bel vedere, come s’usa dire da certe parti, quest’imperatore, a giudizio anche di altri storici, ch’ebbero a rappresentarlo come zoppo, violento e gobbo [Svetonio (Vite dei Cesari). Seneca (Apokolokyntosis)]».
– Benigno andava giù sicuro e documentatissimo, tanto che cominciavo a provare un po’ di compassione per il meschinettu Claudio, come dicono dalle parti di mia moglie. Ma aspettavo la sorpresa, perché il suo eloquio era sempre efficace e interessante –
«Si rivelò, invece, un erudito e sagace princeps – continuò Ansanelli – anche perché delegò i propri “liberti” a governare fermamente i vari “uffici” dell’Impero, affidati loro arbitrariamente. Questa mossa, non so quanto studiata, o casuale, di scegliersi i propri collaboratori tra i “liberti“ anziché tra i senatori e i cavalieri, com’era sempre accaduto, fu determinante in quanto costoro, ossia i nuovi governatori, gli dovevano gratitudine, oltre che la loro personale fortuna».
«Ecco – Sergio – questo panorama a volo d’uccello, puoi ritenerlo la prima traccia di organizzazione burocratica ante letteram. Di fatto il governo dell’imperatore Claudio – in nuce un embrione di burocrazia – fu salutato come il ripristino dell’autorità senatoria, dell’ordine dello status imperiale, e del controllo censorio. Praticamente un ritorno alle tradizioni repubblicane, alla restaurazione del costume e delle religioni. Ma siccome nessuno è perfetto, Claudio, invece, fu incauto nella vita domestica e ciò gli risultò fatale. Fra le quattro mogli che gli capitò di sposare, l’ultima, Agrippina minore (15-59), che divenne sua moglie (48 d.C.) lo avveleno, pare coi funghi (Amanita phalloides). intanto, nel frattempo gli aveva portato in dote un figlio undicenne di nome Nerone (37-68)».
Questa parte storica, nei confronti di tali “burocrati ante litteram”, come diceva lui, designati direttamente dall'Imperatore, Ansanelli la fece concludere a Tacito, il cui giudizio non fu certamente positivo «esercitavano poteri regali con animo di schiavi"» [17].
A questo punto insistetti perché il mio amabile interlocutore, che, in quella sede e a quell’epoca svolgeva la funzione di capo del personale, continuasse la sua lezione. «Senti Benì ora devi continuare e dire anche il resto» – dissi io – «Scusa, – fu la pronta risposta – ma per svolgere la tua mansione di funzionario del DSM, qui a Torre Spaccata, visto che lo psichiatra lo sai fare (com’è attestato dal concorso vinto), mica pretenderai di essere un énarque o non vorrai certo conseguirne il titolo?».
– Sicuro dell’effetto prodotto si mise in attesa. – «Non ho capito quello che hai detto Benì – io, di rimando – eppure il francese l’ho studiato» –
«Vedi Sergio – fu la spiegazione – l’énarque è uno studente, anzi un allievo, o meglio ancora, un ex-allievo dell’École nationale d'administration (ENA). La maggiore scuola francese creata nel 1945 per democratizzare l’accesso alla funzione pubblica dello Stato» – rimasi senza parole, cosicché la conclusione di Benigno Ansanelli, segno che mi conosceva bene, fu: «Se vuoi saperne di più, ho pane per i tuoi denti» [18].
La dotta lezione del “Dott. Ansanelli”, più che bastevole, mi rendeva del tutto inutili le mie fantasie iniziali di riprendere in mano Nicolò Machiavelli (1469-1527) o di andarmi a studiare Max Weber (1864-1920). D’altro canto avevo sentito dire da mio padre, fin da quando ripassava i compiti di mio fratello maggiore in Va ginnasiale al liceo Galvani di Bologna, che aveva perfettamente ragione Benedetto Croce (1866-1952) a ritenere che “le scienze umane e sociali” fossero materie prive di qualunque validità e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Credo che analoga stima riservasse alla “psicologia”, il filosofo e storico di Pescasseroli.
5. 3 ■ La Vlora, Scandenberg e gli immigrati sul nostro destino.
L’8 agosto del 1991, in piena vacanza estiva, quando solitamente i ministri dell’interno andavano (in favore di telecamera) al Viminale a visitare le forze dell’ordine per far intendere, al colto e all’inclita, che il governo vigilava mentre tutti noi si stava al mare o in montagna, fummo svegliati da tutti i canali televisivi puntati sulla nave Vlora, nel porto di Bari, carica fino all’inverosimile. Era entrata all’improvviso, senza chiedere il permesso a nessuno. Proveniva da Durazzo. Era un cargo da zucchero costruito anni prima in Ancona e venduto infine agli albanesi. Rientrava da Cuba aveva scaricato lo zucchero a ed era stato preso d’assalto da una turba di Albanesi spinti dalla disperazione che fuggivano dalla fame. Si parla di ventimila, attratti dalle immagini televisive (commerciali) del benessere italiano, già declinante. Una marea umana pendeva dalla nave, molti erano in acqua, moltissimi già sul molo. Il miraggio e la disperazione del popolo albanese, era impietosamente ripreso dalle televisioni. Noi già sapevamo da Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) che “il medium è il messaggio”. Ma sapevamo anche che il benessere italiano era posticcio. Aveva cominciato a declinare col "delitto Moro" il 9 maggio 1978, esattamente 4 giorni prima che noi della salute mentale festeggiassimo la centottanta.
Un solerte cronista chiedeva ad un Agente della Protezione Civile (un uomo di mezza età che si prodigava sulla banchina per recare aiuto e sollievo agli stranieri sbarcati o tratti dall'acqua) quale fosse la sua opinione su questo fenomeno migratorio così minaccioso, così imponente, così straccione. L'Agente si fermò, restò pensoso un attimo, poi guardando fisso "in camera" disse con un sospiro dolente, quasi sfuggito da un archetipo collettivo del Mezzogiorno d'Italia, due semplici parole: – «Come noi!» -.
Straordinaria efficacia di queste parole, praticamente una sintesi della continuità di tutte le nostre e le altrui migrazioni. Quell'Agente italiano si era riconosciuto in loro e probabilmente "loro" intuivano di essere pensati come esseri umani, di essere riconoscibili come persone, nel disprezzo generale, da almeno uno di noi Italiani che, probabilmente, era stato "come loro".
Ma v’è qualcosa di più, almeno per me. Al contrario dell’università, non sono mai stato brillante nelle scuole primarie e secondarie, «perché c’era le guerra», mi scusava mia madre. Ma io so che le ragioni erano altre, tuttavia alle medie dove fui anche bocciato e ripetente, mi colpì la figura di Scanderbeg condottiero, diplomatico e patriota albanese. La prima cosa che andai a vedere quando "immigrai" da Bologna a Roma, sedicenne, fu la statua a cavallo di Giorgio Castriota (1405-1468) a Piazza Albania. È vero appena tre anni prima era scoppiato il finimondo e l’atomica, ma ai tempi in cui sentivo presentarmi questo eroe nazionale albanese come «Atleta di Cristo e Difensore della Fede» (Papa Callisto III), salvatore dell’Europa cristiana per essersi opposto all'avanzata dei turchi-ottomani, c’erano Mussolini e Pio XII, ma la fantasia di un’adolescente era plasmabile e ricettiva, come ho capito anni dopo studiando approfonditamente con grande passione. Non m’era mai venuto in mente prima d’ora, che tra questa vicenda della Vlora, dei profughi albanesi, di Scandenberg e dei miei studi etnopsichiatrici vi fosse un sottile file rouge.
Questo fu lo spunto iniziale, anche perché nella “Roma delle torri” c’erano molti immigrati di varia provenienza, a darmi l’idea di lavorare anche su queste persone. Noi eravamo stati un popolo di migranti, dunque l'esigenza di formare (e informare) correttamente non solo l'opinione pubblica, ma tutte le persone che per obbligo istituzionale sono preposte ad affrontare questa nuova//vecchia realtà migratoria, era divenuta utile e necessaria. Da qui un progetto di formazione/aggiornamento per operatori della salute mentale che vengono a contatto con soggetti immigrati, da me disegnato e proposto alla Regione Lazio circa quattro anni fa. Ebbene, l'Assessorato alla Scuola, Formazione e Politiche del Lavoro (pur fra le inevitabili lentocrazie di prammatica, che in questi casi allungano ogni fase di passaggio dal momento progettuale a quello esecutivo), con grande sensibilità, lo ha accolto e finanziato, corrispondendo anticipatamente alle varie UUSSLL competenti i fondi necessari.
Note
1. Come dirò meglio in seguito, si trattava dell’ex-Collegio ENAOLI nella periferia est di Roma, ormai semi-abbandonato. La questione che più mi aveva colpito in questi primi contatti di occupazione del territorio per stabilire la sede del DSM erano le difficoltà che quasi tutti i miei interlocutori comunali, mi frapponevano per “la mancanza di giardini”, “viali alberati”, “panorami edificanti”, “orizzonti aprichi”, testualmente, probabilmente anche in buonafede, ma assolutamente niente di meno bucolico. Chiunque ci contattasse per incarico del Municipio era assolutamente convinto che per “curare la pazzia” ci volesse “molta verzura”, ambienti appartati, silenziosi, ovvero assolutamente simili a quelli da cui noi fuggivamo: il manicomio. Non raramente si dava il caso che qualcuno dei nostri interlocutori di questa difficilissima impresa di conquista del territorio, ci chiedesse di avere un incontro privato e a quattrocchi. La richiesta era sempre dello stesso tipo. «Professore… io avrei un caso veramente grave… ora me lo dimettono… non si potrebbe fare qualcosa?»
2. Quella primavera del 1945 era stato un momento eccezionale per me. Non credo che fossi in grado di capire molto, ma ero contento di avere la certezza che la guerra fosse finita, perché in via Rizzoli sfilavano i soldati dell’8a Armata Britannica. I miei ne invitarono in casa un paio. Allora, essendo sfollati dentro le mura, abitavamo all’inizio di Via Zamboni. Uno dei due voleva parlare in latino con me, ma invece di dire Cesare pronunciava “Sisar”. Voleva dire che anche i bombardamenti erano cessati e “i Tedeschi erano scappati. Voleva però anche dire che tutte le più feroci vendette avevano avuto inizio.
3. Mazziniani, azionisti, unionisti, idealisti, teorici, lasciali stare, non concluderanno mai nulla! Guarda i Francesi: politique d’abord! Mi fu detto. Ma nel 1942 – quando fu fondato il Pd'A, (Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi) – avevo 10 anni e pensavo a giocare al calcio e a provare al Bologna F.C.
4. Eugenio Borgna. Diventare medico dei matti. Canale telematico youtube di Giuseppe Bollorino Psychiatry on Line Italia.
5. Roberto Parravani era (è sempre, perché vive tuttora, gode di ottima salute ed ha felicemente raggiunto la pensione) un giovane medico, capitato a Torre Spaccata perché in attesa di specializzazione aveva chiesto di prestare servizio da me. Lo avevo accettato come un caveau del destino per due motivi. Il primo perché era simpatico, prestante, sportivo e praticava la pallamano, uno sport di squadra a 7 (indoor) che si dice sia il più veloce tra quelli di questo genere con la palla. Il secondo perché era un abile motociclista e andava benissimo a “presidiare” il territorio e a far le visite domiciliari veloci. Credo di ricordare che all’epoca fosse dotato di una grossa Moto Guzzi da appassionato collezionista e molto comoda per Primari di salute mentale del territorio.
6. Renato Aloisi lo ricordo con commozione, perché era schietto e generoso. Anche lui era sportivo. Da ragazzo aveva tirato di boxe. Ci eravamo conosciuti al manicomio perché fu alle mie dipendenze in reparto. Mi aveva colpito il fatto che fosse ostile alla psicoanalisi e favorevole agli psicofarmaci (‘a terapia). Svolgeva attività sindacale (DC) ed era molto svelto. Quando seppe che andavo a Torre Spaccata mi chiese se poteva venire a lavorare con me «ar Municipio de ‘e Torri». Lo accettai volentieri e trovai che era la persona ideale per organizzare gruppi, comunità terapeutiche, attività ludiche ed ergoterapiche. Non solo era protettivo e rassicurante coi pazienti ma era un leader coi colleghi. Mi ricordo una volta un piccolo battibecco (illuminante) con qualcuno della comunità “Mario Gozzano”, di cui Renato era responsabile, che rimproverava un operatore terzo perché portava in gita programmata un paziente lungodegente da riabilitare, essendosi dimenticato di somministrare “la terapia”. Un sibilante «Ma perché ‘o guarisci tu ch’e pasticche!» Di Renato giunto a destinazione del pedissequo osservatore d’a terapia come un uppercut fulminante mi fece comprendere che Renato aveva veramente capito quello che stavamo facendo e me ne dava una prova come nessun altro avrebbe potuto fare più esplicitamente. Peccato che non arrivò alla meritata pensione. Ce lo portò via un infarto micidiale contro cui non fu possibile fare nulla. Una perdita incolmabile per tutti.
7. Nando Agostinelli nato nel 1928, dunque oggi novantenne. All’epoca, era assessore provinciale comunista della giunta di sinistra. Tra i più attivi del suo partito per l’applicazione della 180. Sapevo delle sue vivaci discussioni con Sergio Scarpa [1917-2007] eroe partigiano, deputato e per anni Presidente della Commissione Sanità presso la Direzione del Partito comunista italiano. A questo proposito, la cosa più divertente che ricordo di quei giorni, è una riunione in assessorato di una commissione per stabilire con Franco Basaglia, consigliere speciale della giunta per la “determinazione di apertura” di tutte le strutture religiose convenzionate con la Provincia di Roma, che ospitavano malati mentali. Oltre ad Agostinelli, che l’aveva convocata ed io e Lo Cascio, chiamati in qualità di esperti, aspettavamo Franco Basaglia e due inviati: uno della Caritas diocesana e uno del PCI. Ad un certo punto entrò una persona cordiale, disinvolta, subito a suo agio che si sedette e si accese una sigaretta, offrendone agli altri. Immediatamente dopo fece il suo ingresso un tipo in nero con aria dimessa e silenziosa che si accarezzava lentamente le mani socchiuse; un gesto a metà strada tra chi se le vuole lavare o le vuole nascondere ma non sa dove metterle. Poiché il “fumatore”, era venuto subito al sodo dicendo apertis verbis “bisogna che qui si passi rapidamente ai fatti, e chi ha privilegi a cominciare da quelli religiosi, come le suore, per esempio, collaborino fattivamente». Io e Lo Cascio ci demmo di gomito concordando: quello che si accarezza le mani vestito di nero è della Curia, il “fumatore” viene da “Botteghe Oscure”. Macchè! Quando arrivò Basaglia, si presentò, lasciandoci di stucco: «Io sono Don Luigi Di Liegro (1928-1997) della Caritas». Personaggio eccezionale e indimenticabile. Lo inviteremo e verrà più volte a Torre Spaccata per aiutarci con gli immigrati stranieri.
8. Prima ancora veniva – voglio dire che da ragazzo era cresciuto in posti incantevoli – da un pittoresco comune della Costiera Amalfitana che credo di ricordare si chiamasse Cetara e di cui mi raccontava che fra le delizie che si potessero desiderare di mangiare in tutte i piatti erano le famosissime «alici di Cetara». Guarda – mi diceva Benigno e qui si faceva serio – ti posso assicurare che le tanto vantate «acciughe del Mar Cantabrico», sì, quelle del golfo di Biscaglia, per quanto trasformate, soprattutto in Cantabria, non possono nemmeno alla lontana reggere il confronto con le nostre. nostre alici».
9. Attualmente ospita una delle 4 Case di Riposo capitoline che accolgono anziani autosufficienti e non. La sua capienza è di 33 posti letto.
10. «Il 2 settembre 1973, don Giovanni Franzoni, da poche settimane ex abate di san Paolo fuori le Mura, celebrava la prima messa – che per il Vicariato di Roma “non era né autorizzata né proibita” – nel salone, spoglio e un poco sconnesso, di Via Ostiense 152/B, a mezzo chilometro dalla basilica. Questo piccolo evento rappresenta simbolicamente l’atto costitutivo della Comunità cristiana di base di san Paolo, formata da quelle persone che, nel vivace clima del post-Concilio, negli anni precedenti avevano attorniato l’abate Franzoni nell’abbazia e nella basilica, con lui riflettendo sulla realtà sociale ed ecclesiale. Da allora sono passati quarant’anni e, come abbiamo fatto dieci e vent’anni fa, abbiamo pensato di fermarci un momento a guardare indietro per poi meglio guardare avanti e proseguire il cammino». La Comunità di base di san Paolo festeggia i 40 anni. 25 settembre 2013. Confronti. Mensile di Religioni Politica Società – Fedi – cdb2
11. www.repubblica.it/cultura/2017/07/13/news. Muore dom Franzoni, l'ex abate delle Comunità di base che votava Pci. Fino al '73 era un ascoltato benedettino della basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, con le omelie contro il capitalismo. Poi la cacciata dalla Chiesa, dopo le denunce delle collusioni fra Vaticano e poteri forti, il favore a divorzio e aborto e l'adesione al partito di Berlinguer. Teologo ascoltato da Paolo VI, poi si definì "un cattolico marginale". Paolo Rodari. “Fino al 1973 era abate nullius, cioè non dipendente da nessun vescovo ma solo dal Papa, alla basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma. Teologo ascoltato da Paolo VI, il più giovane italiano al Concilio Vaticano II. Poi l'estromissione, arrivata dopo la denuncia delle collusioni fra Chiesa e poteri forti, la presa di posizione a favore del divorzio, la dichiarazione di voto per il Pci. Le sue omelie erano come fuoco, a favore della Chiesa dei poveri e contro il capitalismo. Allora era una voce che non si poteva ignorare”.
12. Roma delle Torri. Il Municipio “Roma VI” è la sesta suddivisione amministrativa di Roma Capitale. Gli abitanti erano 257 534 nel marzo 2013. È stato istituito dall'Assemblea Capitolina, con la delibera n. 11 dell'11 marzo 2013, sostituendo il precedente municipio Roma VIII (già "Circoscrizione VIII"). La sua estensione in superficie è di km2 2.261. Prima che fosse costruita l’Università di tor vergata non c’era alcuna struttura sanitaria, se si fa eccezione per “Villa Gentile” la clinica psichiatrica della seconda università romana e per “Villa Irma” poi divenuto “Policlinico Casilino”.
13. Per una serie di motivi che ora mi sfuggono, nella trattativa comparve il nome del Prof Giuseppe Cozzi un ex-primario dell’ex manicomio Santa Maria della Pietà, che si dava il caso fosse il marito della Professoressa Anna Maria Tarantini, titolare della struttura territoriale del X Municipio (Cinecittà). Ma è semplicemente un dettaglio. Inutile dire che l’iniziativa morì com’era nata. Soltanto 10 anni dopo, credo di ricordare, quando i municipi V, VII, VIII e X, divennero ASL Roma B aprì l’SPDC dell’Ospedale regionale Alessandro Pertini, tuttora funzionante.
14. La psichiatria di settore nel XIII Arrondissement di Parigi, si può far risalire al 1957, quando Georges Daumezon (1912-1979) era médecin chef all’O.P. Saint-Anne e praticamente sotto il suo consenso in quella zona di Parigi entrò in funzione il “Settore pilota” gestito da Serge Lebovici (1915-2000) e Philippe Paumelle (1923-1974). Purtroppo Paumelle si spegnerà anzitempo a 50 e il suo necrologio vergato autorevolmente da Daumezon comparirà su Le Bulletin d’information de l’Evolution psychiatrique n. 3. 1974; 99-101.
15. Cfr Leonardo Montecchi da Bollorino. Intervista a Georges Lapassade.
16. Il film Family Life, Inghilterra (1971), diretto da Ken Loach e presentato al 25º Festival di Cannes, s’ispira alle teorie di Ronald Laing. Tratta la storia di Janice, una ragazza rimasta incinta, costretta ad abortire dalla madre autoritaria contro la sua volontà. Descrive le difficoltà di una famiglia borghese tradizionale di affrontare le dinamiche psicopatologiche che ne conseguono. Il passaggio da una terapia con elettroshock prescritto da un medico tradizionalista ad una comunità terapeutica dove il Dr. Donaldson (interpretato da Michael Riddall) che, nella finzione, presta l’immagine a Ronald Laing, è fin troppo esemplare. Il film, a suo tempo, girò parecchio nei DSM a scopo didattico. Si dà il caso che chi scrive, abbia prestato la voce, nella versione italiana, all’attore Michael Riddal interprete del Dott. Donaldson alias Ronald Laing.
17. Il discorso sui liberti, schiavi resi liberi, elevati al rango di ministri – da cui secondo Ansanelli sarebbe principiata la modernizzazione dell’impero, ma anche una corruzione dilagante – avvenne proprio assegnando a ciascuno di loro una funzione specifica e autonoma di cui dovevano rispondere esclusivamente al princeps. Gli Esteri, per esempio, ovvero la corrispondenza con tutto l’impero (Ab epistulis), le Finanze (A rationibus), le Tasse (Aerarium), gli Interni, ossia le postulazioni rivolte all’imperatore (A libellis), la Presidenza del Consiglio, vale a dire l’archivio di materiale per discorsi ed editti del princeps (A studiis), la Giustizia cioè le inchieste giuridiche sottoposte all’imperatore (A cognitiones), era un discorso appassionante, certamente una prolusione accademica da tenersi in qualsiasi università e, per quello che ricordo, mi fu di grande insegnamento.
18. «L’ENA – a quanto ne so, mi spiegò Ansanelli – al momento è incaricata di assicurare la selezione e la formazione iniziale e continua degli alti funzionari dello Stato. Sappi, però, che le selezioni sono durissime e fanno tre concorsi più un reclutamento internazionale. Sono anche molto criticati, perché pare che la spesa non valga l’in presa, almeno a giudicare dai presidenti francesi». – Siccome ormai avevo mostrato interesse all’argomento – «Se poi vuoi approfondire la questione, ti posso aggiungere che, a seguito della pubblicazione del libro intitolato “L'Enarchia o i mandarini della società borghese” (titolo originale, L'Enarchie ou Les mandarins de la société bourgeoise), uscito nel 1967, con la firma di Jacques Mandrin (in realtà, pseudonimo di tre autori: Jean-Pierre Chevènement, Alain Gomez, e Didier Motchane) la parola ebbe carattere offensivo. Tutti i guai furono attribuiti all’incapacità pratica dei grandi burocrati formati a spese dello Stato francese per affidare loro il governo della nazione. Basterebbe guardare i loro presidenti di questi ultimi anni!». Credo che a quell’epoca si riferisse a Valéry Giscard d'Estaing. «Ah! Credo che la parola enarca o énarque sia semplicemente un sincretismo di due termini: l’acronimo “ENA” (ossia l’École nationale d'administration) che altro non è se non il potere dello Stato francese, e la congiunzione con la radice della parola greca arkhos, che rafforza il potere dello Stato col suffisso «-arque». L’incastro dell’acronimo e della radice dovrebbe rappresentare una sorta di oligarchia dove ogni posto chiave è detenuto da tutti i membri, a cominciare dai più anziani, che hanno frequentato questa scuola. Hai mai pensato alla parola «monarca»
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