lì, 26 giugno 2023
Sono un giovane psichiatra di Roma. Come mio primo impiego pubblico, partecipando con l’emergenza Covid ad un concorso per dirigente medico ben prima di concludere la mia specializzazione, ho contribuito in prima persona all’apertura e all’organizzazione di una REMS, struttura nella quale ho prestato servizio per la durata complessiva di circa un anno, sino al giorno in cui ho rassegnato le mie dimissioni. Ho scelto di mantenere questa lettera in forma anonima per evitare qualsiasi personalismo e, parallelamente, per la volontà di intercettare un’esigenza comune ai molti operatori che lavorano oggigiorno nelle REMS, o anche di quelli che operano in altri servizi dei Dipartimenti di salute mentale e che forse potranno riconoscersi in queste parole.
La sera del 20 giugno ho visto un servizio televisivo andato in onda al notiziario serale del canale regionale “Teleuniverso”. Nello stesso servizio, come in molti altri che poi mi è capitato di vedere o come negli articoli letti sui quotidiani web, si faceva riferimento alla questione drammatica dei molti detenuti con patologie psichiatriche attualmente ospitati presso le carceri italiane. Denunciava un problema sicuramente urgente, ma con quelle note di allarmismo di cui si dota spesso la cronaca non appena la psichiatria si ritramuta in un fatto, non appena torna ad essere realtà comune ma solo al prezzo di un’enfasi sul suo aspetto più perturbante. L’oggetto del servizio televisivo, infatti, era proprio l’episodio drammatico di cronaca avvenuto nel carcere di Velletri il giorno precedente, ove un detenuto ha ucciso il suo compagno di cella pestandolo a sangue sino alla morte al termine di una lite. Il racconto del telecronista inviato metteva l’accento sull’elemento psicopatologico del detenuto, servendosi anche di un excursus storico dalla chiusura degli OPG sino all’attuale situazione di carenza delle REMS nel far fronte alla gestione di questi casi.
Nel corso del mio lavoro come medico presso la REMS, l’autore del fatto di cronaca è stato uno degli ospiti di cui mi sono trovato ad occuparmi. Non vorrei fare qui una narrazione contrapposta a quella del notiziario sopracitato, così da mettere l’accento su quanti dei pazienti che vengono ordinariamente ospitati nelle REMS abbiano dei comportamenti che davvero poco riguardano il disagio psicologico. Gli stessi che, infatti, come ormai assodato, si prestano altrettanto poco, per non dire per nulla, agli interventi terapeutico-riabilitativi che siamo ad oggi in grado di offrire. Perché così facendo si ricadrebbe solamente nel fare il gioco delle parti, nel proporre discorsi che sono immancabilmente l’uno il rovescio dell’altro, due condanne speculari che si sommerebbero all’eventuale condanna del fatto, e che continuerebbero inevitabilmente a confliggere senza invece indicare dei possibili strumenti di risoluzione. Vorrei quindi sospendere questo stile del far polemica, perché ciò che credo manchi veramente in tutte queste narrazioni, e che mi ha spinto a scrivere questa lettera, è la testimonianza del vissuto personale di un operatore sanitario in queste situazioni. La sua esperienza psicologica concreta, gli aspetti emotivi, come persona e professionista che si occupa di salute mentale. E da questo, tentare anche di cogliere una cifra del vissuto comune di molti operatori. Mi interessa dar voce a questa angolatura della questione, l’unica che posso davvero testimoniare, senza nulla togliere alla frustrazione più che lecita delle altre categorie professionali che ruotano attorno allo stesso problema. Non ho, infatti, né gli strumenti né la pretesa di addentrarmi in un dibattito invero estremamente complesso, e che tenta di tenere insieme e trovare una possibile sintesi fra dimensioni così diverse e spesso inconciliabili, come la salute mentale e la giustizia. In ultimo, credo che scrivere questa lettera con questo spirito sia il miglior omaggio che si possa fare a colui che è stato il mio responsabile in quel periodo della mia vita, e che ci ha lasciato ormai qualche mese fa. Un collega ed un amico che ho visto a poco a poco consumarsi, e che solo l’occasione di potergli dare l’estremo saluto mi ha portato a rimettere piede in quei luoghi. In questa lettera ci sono in controluce anche gran parte degli elementi che hanno contribuito, se non a determinare, sicuramente a far precipitare il suo progressivo spegnimento.
Entrando dunque nel merito, ricordo molto bene l’estrema complessità inizialmente incontrata nel dover allestire e far funzionare una REMS. Gli sforzi nel reclutare e coordinare i diversi operatori sanitari in un’equipe, mantenerne l’equilibrio spesso precario, ascoltare le loro paure e valorizzarne le risorse, garantirgli una formazione nel mentre andavo formandomi anch’io. Ricordo la difficoltà nell’interagire con quell’universo balcanico costituito dalle Case Circondariali, dalle Forze dell’Ordine, dalla Polizia Penitenziaria, dal DAP, dai Tribunali, dalla Vigilanza ed altri ancora, doverne capire il ruolo e le istanze, e fare tutto questo avendo in mano solamente una preparazione medica insieme a un po’ di buona volontà. Elaborare procedure e modulistiche nel migliore dei modi, familiarizzare con l’enorme burocrazia, confrontarsi con gli avvocati. Racimolare più informazioni possibile una volta ricevuto dalla lista d’attesa regionale il successivo “nominativo utile”, in particolare per i cosiddetti “internandi a piede libero”. Informazioni per lo più mirate a rassicurarsi sui potenziali rischi e pericoli, dall’efferatezza del reato a sincerarsi sulla prescrizione di un’adeguata terapia farmacologica (dove con “adeguata” s’intende sempre leggermente in eccesso). Mantenere il più possibile pacifici i rapporti con l’ospedale in caso di invii per urgenze psichiche o fisiche, cosa che alcune volte ci spingeva a lasciare la struttura per accompagnare i pazienti in ambulanza o a raggiungerli in pronto soccorso con la macchina aziendale. Ricordo le molte volte in cui squillava il telefono di guardia e mi veniva richiesto di gestire delle pretese insistenti, episodi di scontro verbale o fisico fra i pazienti o con gli operatori, danni materiali alla struttura e agli oggetti in dotazione, rifiuto di assumere la terapia farmacologica, o ancora di ispezionare le stanze a seguito di movimenti ritenuti sospetti, e molto altro. Ricordo la solitudine, ogni volta, salendo le scale verso il piano superiore destinato alle degenze; la solitudine che prova colui che è chiamato a dover rispondere sempre di tutto. E ricordo ancora la frustrazione che accompagnava ogni richiesta avanzata di dispositivi anche minimi per svolgere le attività riabilitative, o anche più semplicemente di requisiti per rendere l’ambiente più “umano”, perché dovevamo per ognuna delle stesse richieste sempre e comunque vincere lo stigma e l’indifferenza di tutti, compreso di coloro che occupavano gli uffici della ASL. Il pregiudizio su un “folle reo” o un “reo folle”, e che si sente totalmente legittimato nella sua furia.
Ciononostante, eravamo riusciti tutto sommato a far funzionare la struttura. Eravamo consapevoli che il tutto sarebbe stato parte del gioco, che l’ambiente – lo sapevamo già – sarebbe stato duro, e ci avrebbe richiesto sforzi anche di questo tipo. Fin quando l’autore del fatto di cronaca sopracitato non è stato accolto nella nostra struttura. È stato come un secondo tempo del lavoro, uno spartiacque, un cambio di volto della REMS e di noi operatori, tutti. Sicché tutte le nostre attenzioni e sforzi hanno iniziato a concentrarsi su di lui, sulla sua gestione a tutti i livelli, al fine di evitare escalation anche repentine e di salvaguardare l’incolumità di ognuno. Interi giorni in cui mi sono sentito non più solamente il medico dei miei pazienti, ma che la mia responsabilità principale era ormai divenuta soprattutto quella di prevenzione della salute di tutti i miei collaboratori. Era diventato il nostro unico argomento, l’unica preoccupazione, anche compromettendo in modo decisivo l’assistenza agli altri pazienti, oltre che consumando la quasi totalità delle nostre risorse. Ricordo l’impotenza che sentivo, tutta l’insufficienza della mia formazione professionale e dell’umanità che provavo a mettere in ogni colloquio, perché incontravo immancabilmente un uomo che aveva unicamente la violenza come codice relazionale, se di relazione si può ancora parlare. Non quella violenza che occasionalmente si può incontrare lavorando in particolare con i pazienti gravi. Quella che, checché se ne dica, traspare in tutta la sua innocenza. Quella mossa, per esempio, dalla disperazione di non riuscire a far tacere le voci nella testa, o dalla paura paranoica di sentirsi minacciato ovunque e cercare una via di fuga. E nemmeno quella di chi, suo malgrado, è la prima vittima delle proprie lacerazioni emotive. Sono uno psichiatra che sempre nel proprio lavoro, in ogni sintomo e comportamento rilevato, anche in quelli più abnormi, cerca di ricostruire un senso, di restituire dignità ad una vita ormai sconvolta. E lo stesso ho fatto anche con i reati più raccapriccianti di alcuni pazienti, senza mai biasimare, perché quello è il mio ruolo, perché stare in relazione significa abitare un’etica. Ma qui parliamo piuttosto di un’espressione di violenza che cerca unicamente sé stessa, quella violenza che se ne fotte, che prevarica, che schiaccia. Parliamo di una violenza che ci riguarda tutti. Un uomo pronto a provocare chiunque, per poi assumere la postura del pugile per mostrarti quanto è davvero “uomo”, quanto è più “uomo” di te, quanto un “uomo” si misura da questo, quanto il rispetto sia questione di muscoli, canottiere e nocche. Che passava le ore ad allenarsi da solo sferrando pugni al vento, tale da farsi trovare pronto alla prima occasione, chiunque spettasse. E se è vero, come ancora credo, che un uomo non può mai solamente ridursi a questo, come mai può essere meramente ridotto al proprio disturbo mentale, è altrettanto vero che chi ha fatto della cura dei pazienti il proprio credo di vita forse non dovrebbe mai attraversare tutto ciò che vado raccontando. Perché si apprende dall’esperienza anche quando sentita come ingiusta, ma l’esperienza può anche traumatizzare.
Ricordo ancora il sentirsi colpevolizzati dai familiari per ogni accaduto, sempre pronti a giustificare l’ingiustificabile perché “questo non è il posto dove dovrebbe stare”. E poi noi, il nostro lavoro che non può chiamarsi più tale, la nostra vita fuori di lì, le nostre famiglie e figli, la necessità di arrivare a fine giornata, il burnout divenuto normalità, l’evento critico ormai ordinario. Una sera uno degli altri pazienti, terrorizzato dalle sue minacce nel corso della cena, mi aveva quasi implorato di essere trasferito ovunque fosse possibile, financo in SPDC, per potersi sentire al sicuro. Ogni giorno vivevamo nella paura che in qualsiasi momento potesse capitare ciò che poi fatalmente è accaduto qualche giorno fa nel carcere di Velletri. Lo stato d’animo era ormai quello dell’evento inevitabile che prima o poi si sarebbe verificato, una sorta di sospensione collettiva in attesa di quel fatidico momento. E che in alcuni giorni non si è verificato ma solamente come per una sorta di passo falso del destino, di miracolo che ripetendosi aggiungeva centimetri salvavita tra il volto di un vigilante e i suoi pugni diretti, sferrati con l’unico intento di far male, di compiacersi nel provocare dolore. Miracoli certamente, ma sempre al prezzo di dosi crescenti di paura, di operatori rimasti a casa a seguito di referti in pronto soccorso, di una routine ormai dettata unicamente da strategie per evitare il peggio, di trasferimenti urgenti in SPDC per proteggerci. Cosa, quest’ultima, che lo stesso magistrato competente ci aveva consigliato di fare nell’attesa di una sua nuova decisione, aspettando l’udienza programmata, dopo che gli avevamo chiesto con tutte le nostre forze di riceverci come extrema ratio. Ricordo la nostra attesa ansiosa fuori dal suo ufficio, nel mentre già ricevevamo dei messaggi da parte di tutti per sapere com’era andata. Ricordo la preoccupazione, smontando da lavoro la sera, che la notte sarebbero rimasti solamente infermieri e OSS a dover gestire eventualmente il tutto. Il rumore delle sirene delle forze dell’ordine che scandiva ormai quotidianamente il nostro lavoro, e che aspettavamo ogni volta impietriti dall’angoscia perché, nell’attesa del loro aiuto, eravamo totalmente in balia degli eventi, a mani nude contro il pericolo. Seguivano i nostri ringraziamenti, le strette di mano, ma mai con la certezza che sarebbe stata l’ultima volta. Ricordo le fotografie che immortalavano il bagno della sua stanza di degenza, dopo che aveva divelto e ridotto in frantumi i sanitari nel tentativo di sfondare la finestra per poter fuggire. Il loro bianco opaco striato dalle macchie di sangue. La folla di operatori sanitari, carabinieri e soccorritori del 118 fuori la porta chiusa nell’attesa che smettesse, e con la paura addosso che avesse occultato qualche frammento di ceramica per poterlo utilizzare contro il primo malcapitato.
Molti ricordi si affollano, e tanti altri ce ne sarebbero ancora, ma alcuni di essi sfuggono persino alla possibilità di essere restituiti in parole. Resta l’amarezza di aver dovuto affrontare, come prima esperienza lavorativa, tutto questo. Una doccia gelida, precoce al punto che fatico a definirla uno svezzamento. L’amarezza di sentire il proprio entusiasmo e quello altrui che a poco a poco appassiscono e che lasciano il posto, non solamente alla cruda realtà – cosa che si sostiene comunemente appartenga al processo di crescita -, ma piuttosto unicamente ad emozioni negative. Alla realtà, certamente, ma sentita come vana. L’amarezza anche di vedere colleghi con anni di anzianità chiamati a gestire tutto questo, ed incontrare nei loro occhi non una promessa per il futuro bensì un invito, quasi genitoriale, a non ripercorrere i loro stessi passi. Un evento che non è banalmente riconducibile alla cattiva sorte, o semplicemente ad un caso isolato in un sistema che per il resto va da sé, ma che anzi contribuisce a mostrare cosa significhi sentirsi abbandonati e iper-responsabilizzati allo stesso tempo, e come la rinuncia o la posticipazione perenne ad un confronto maturo avvenga anche al prezzo di mettere in pericolo la nostra stessa salute ed incolumità. Perché è impossibile svolgere questo lavoro senza sentirsene implicati, senza portarselo sempre un po’ a casa, senza venirne trasformati in ogni senso e qualsiasi cosa accada. E al di là di tutti i discorsi, è tutto questo ciò che alla fine davvero ci rimane dentro: tutte queste scene, tutti questi vissuti che sono ancora qui, che ci restano nella carne, e che continueranno sempre ad accompagnarci. Questa lettera è il tentativo di dargli almeno una voce, di riportare la sbrigatività di una narrazione di cronaca all’intensità di un incontro in prima persona, e di testimoniare un retroscena di quanto accaduto lo scorso 19 giugno e che forse altrimenti non sarebbe mai emerso.
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