L’individuo deve vivere nel suo corpo, e il suo
corpo deve sopportare il fatto di avere una mente
che vi dimora. (Bion,2005)[1]
Ho letto questi racconti autobiografici e ogni racconto mi ha rimandato all’affermazione di Paul Ricoeur[2]: “La vita: un racconto in cerca di un narratore”. I nostri sette autori si sono dedicati alla scrittura autobiografica: ovvero a un tipo di scrittura che trasforma i fatti, gli avvenimenti fisici e psichici, presenti (in vari modi) nella memoria, in narrazioni che nella attività di lettura, si propongono come reali (e reali sono in quanto contenuti della mente).
Certamente non esattamente la realtà di un rigido fotografico ricordo, piuttosto un’interpretazione dell’avvenuto, una scrittura che attiene a quei movimenti della memoria (Nachtraglichkeit di Freud) che modificando il significato emotivo di ciò che ‘allora’ è accaduto ne trasformano gli elementi, sulla base del vissuto “hic et nunc”.
E’ presente , nel racconto, la dimensione “tempo” come elemento fondamentale del ricordo, che porta a valorizzare la temporalità in quanto elemento fondante la narrazione autobiografica, soprattutto nella dimensione dell’attesa (S.Agostino, Confessioni)[3] . Attesa che si propone come progetto, come viaggio nell’anima, come luogo psichico ove collocare la speranza (così scrivono i nostri narratori.).
Aggiungo, per meglio chiarire ciò che ho in mente, il pensiero di Jorge Borges :“ Del resto la scrittura non è altro che un sogno guidato” [4]. Ovvero la capacità narrativa (artistica) si avvale di costruzioni che non rinunciano a pescare nei sotterranei dell’inconscio, svelandone e insieme proponendone il mistero, in un intreccio in cui frammenti di fantasie, emozioni, dolori e racconti di avvenimenti propongono la storia.
Come nei racconti qui presentati, ove, straordinariamente, vite impregnate di dolore e sogni esprimono la necessità, il desiderio, di tradursi in “vite raccontate” (Ricoeur,op.cit.).
Nascono le autobiografie: esprimono delle verità (episteme) che accolgo come verità artistiche che contrappongo alla rigidità delle nozioni e che rinviano al pensiero di Gadamer intorno alla coscienza estetica[5].
Verità artistiche che parlano della variegata struttura emotiva della mente, del suo esserci e del suo costringere il corpo pulsionale a dare senso, significato al nostro essere stati gettati nel mondo, sospesi tra una vita non cercata e una morte inevitabile.
Una mente che ci costringe, come scrivono Ambrosiano e Gaburri [6] , ad avventurarci nella vita convivendo con il dolore di esistere come esseri umani, in una realtà misteriosa, bordeggiando la morte, il limite, la fragilità.
Intorno a questo (e non solo) scrivono i nostri autori.
Emilia, nel suo scritto, ripropone a suo modo queste verità: L’impulso alla vita e quello verso la morte giocano una partita senza fine, a carte, a scacchi, alla morra.
Qualche riga dopo: Lì, seduta sul nulla, in mezzo alle scorie di un mondo che non era mio, che non avevo voluto…
Il tema che abita la mente di Emilia, il dolore dell’essere costretti a vivere una vita che sembra non avere (ancora) incontrato una ragione psichica che ne giustifichi, promuova le ragioni, il desiderio, mi è parso la descrizione di quella verità che ogni umano incontra, sfiora, tenta di risolvere, rinuncia.[7]
Nell’albergo delle donne tristi Chiara ci invita a riflettere intorno alla dolorosa, infruttuosa ricerca del “chi siamo”, Silvia, alla ricerca di sé e del significato del suo essere, cerca di affidarsi alle sfalsate verità che abitano la sua mente (dimore meditative), essere angeli o UFO,
fuggendo le angosce dell’uomo.
Andrea: Penso all’uomo…,la sua natura, la sopravvivenza in questo ribollente pentolone.
Sette persone ci offrono le loro riflessioni riguardo al senso smarrito, ritrovato del loro sé; alla irrintracciabile ragione della vita e alla riaffiorata spinta a vivere, ai modi in cui, disperatamente, si è alla ricerca del momentaneo, irrazionale forse quanto indispensabile, uso di stimoli (sesso, droghe, bulimia…) che il “buon senso” condanna[8], alla catastrofe di una mente che si impegna in dialoghi con fantasmi, in assenza di esseri umani da cui essere contenuti, protetti, invitati a riprendere percorsi abbandonati, a riavviare sentimenti abbandonati e assenti, legami affettivi smarriti, presenze interiori che invitano alla speranza, alla ripresa di significato.
I nostri sette autori descrivono stati dell’essere che, in qualche modo, ogni umano avvicina, affronta. Tuttavia queste autobiografie si distinguono perché possono definirsi, come qualcuno di loro ha sottolineato: “ Dichiarati matti si raccontano”.
La proposta definitoria, espressa al termine di un lungo percorso elaborativo (autobiografico), esprime, per quello che sento, il raggiungimento di quelle verità che non si legano esclusivamente al giudizio logico, alla spiegazione, ma anche o soprattutto, al giudizio estetico che avvia e colloca l’esperienza vissuta (Erlebnis) nella direzione di una particolare fondazione ermeneutica (Gadamer,op.cit).
I nostri autori ci invitano ad una comprensione che più che indirizzata al riconoscimento dei nessi causali fra avvenimenti ( la proposta di una teoria sulla sofferenza mentale)mi pare soprattutto tenti (progetto conscio, inconscio, voluto, accaduto?) di evocare, nel legame con la mente del lettore, immagini, pittogrammi, trame emotive(la reverie di Bion),
che ci inducano a sentire e pensare sia con chi scrive sia con i nostri oggetti interni.
Un movimento trasformativo dell’esperienza letteraria.
Mi soffermo su alcune forme che assumono i racconti.
Il dolore, l’angoscia di menti che si sentono cadere nel nonsenso, è presentato nelle autobiografie sia con modi poetico-metaforici, sia con la crudele ammissione di disperate
modalità del sentire, in cui le emozioni sembrano perdere il loro significato, fatte a pezzi o espulse, (momentaneamente) prive di un legame con il loro significato.
Varietà dei modi scelti per avvicinarsi/ci alla tragicità dei vissuti:
fiabe, che abbiamo letto nell’infanzia e delle quali gli autori ci restituiscono le emozioni d’allora, le loro, le nostre.
Peter Pan e l’apparente trionfante espulsione di un genitore che prende le forme del crudele e menzognero Capitan Uncino, Hansel e Gretel, sacrificati dall’egoismo dei genitori…e poi l’immagine del pesciolino rosso, chiuso, impotente, nel vaso…ancora Biancaneve e l’assenza del Principe azzurro….. solo nani, lì intorno.
Poi il contatto immediato, al di là di ogni metafora, con stati dell’anima feroci, brutali, annichilenti: rabbia, dolore, buio tremendo, un mondo assurdo fatto di paure e immagini mostruose, l’inferno, essere nemici di se stessi, odio, il silenzio e le voci dall’interno , accusatrici, solitudine e il parlare con i morti, abbandono, non rintracciabilità dei sentimenti-
La percezione della follia (della malattia)e la sua l’incomprensibilità.
Andrea scrive :.. ma perché mi sono ammalato? Di che, di cosa?
Federico ci ammonisce: Ero folle e la psichiatria mi ha tolto il diritto di esserlo-
La psichiatria e i percorsi terapeutici fanno il loro ingresso nelle autobiografie, naturalmente
in modi diversi da quelli che lo psichiatra attenderebbe.
Leggiamo di tecniche (?) pranoterapiche che avrebbero dovuto risolvere la depressione senza uso di psicofarmaci, scacciare presenze demoniache…e poi rumore del vento confuso con parole allucinate, vite in Comunità in cui ciò che avviene nella mente e ciò che accade nella struttura si confondono, si intrecciano…
Depressione, dolore descritto come “perla nera” e i dottori intervengono e “entro in un buon futuro”.
La strada per andare dallo psichiatra … un aiuto… di cui non è chiaro il senso. La consapevolezza tuttavia appesantisce, affatica; responsabilità o pazzia ?: penso di telefonare a Freud per far luce su quest’aspetto, ironizza Andrea.
Anche riferimenti scarni, nello scritto di Gabriele : Momenti No…quando mi hanno ricoverato a Sestri, nell’SPDC dove ci sono rimasto 2 mesi.
Valter vuole dimenticare l’esser preso con la forza e portato in SPDC. Le esperienze in ospedale sono drammatiche, tutta una vita da dimenticare.
Le parole di Andrea, la fondamentale esperienza emotiva e il modo di farla giungere a noi: Questo giardino mi ricorda i viali dell’ospedale, c’è un senso di allegria, di pace e di aria.
Dice Chiara: Ma incontri inaspettati sono stati soprattutto quelli con gli psichiatri e gli psicologi…la malattia è inaspettata, mica te la vai a cercare…e lo psichiatra è proprio inaspettato, quasi casuale come incontro.
Gli antichi dolori.
Madri non in sintonia con le emozioni dei figli, assenza di un desiderato caldo abbraccio, gli amici negati. Vuoti, paure, liti. Finzione nell’apparente amore tra padre e madre, crudele la scoperta, tradimenti, separazioni e abbandoni.
La sensazione di non essere capiti, la vergogna.
L’isolamento.
I desideri, ora, e accanto una recuperata, variamente descritta, spinta a essere vivi e a vivere.
Essere un pettirosso, volare libero tra gli alberi. La libertà. Quando è un lungo periodo in cui le voci allucinatorie non si presentano. L’unione con chi si ama. Vedere e sognare: mare, onde, tramonti, rondini e gabbiani, l’arcobaleno.
Emozioni sincere.
Andrea e un lungo pensiero, caricato di simboli che invitano alla reverie: Avvolto da una sfera magica cerco di interpretare i segni, la mente sublima ma la ragione e la razionalità vanno a braccetto con il pensiero, la vista e l’udito: sensazioni e creatività.
Vedere le onde del mare che si infrangono sugli scogli. Avere una casa con Silvia.
Chiara: Felicità, stare di fianco a mio marito, felicità, la sua mano nella mia.
Ancora l’amore, in Silvia: Così nuovamente, io amo.
Hanno legittimazione, al termine di questo libro, le osservazioni di uno psicoanalista? Temo l’invadenza, la possibile presunzione, la possibilità di proporre, come scrive Piera Aulagnier ,“ la violence de l’interprétation[9]”.
La stessa psicoanalista ci ammonisce: come l’inferno, le strade della teoria sono pavimentate da buone intenzioni(op.cit.).
Per queste ragioni e almeno in questa sede, mi trovo a riflettere sulla sofferenza, il terrore, l’insensatezza che hanno devastato lo slancio a vivere di esistenze che hanno incontrato troppo presto il fallimento della necessità d’essere oggetto di affetto, tenerezza, precocemente e successivamente.
Non sto qui parlando di etiologie psichiatriche, non è la sede di teorie.
Parlo di cose che trovo descritte dai dichiarati matti (che) si raccontano.
Riprendendo le espressioni della d’Ippolito[10] esser-uomo vuol dire far sorgere un mondo e io aggiungo: un mondo che proponga una significazione, che dia senso al nostro esserci, che contenga un particolare rimando ermeneutico, retto dalle cose che hanno/ho messo in evidenza, che trovo così tragicamente estremizzate nell’assoluta assenza di familiarità con il mondo, presente in Anna Rau, la disperata paziente di Blankenburg[11] .
Mi sento di affermare con il fenomenologo Straus, che nei deragliamenti della mente che le autobiografie rivelano, sembrano svanire gli assiomi del mondo quotidiano: ovvero rumori e voci, immagini che affiorano dall’interno della psiche si confondono con le percezioni, anche banali, consuete, proposte dal mondo esterno. In termini relazionali colui che legge è investito dal sentimento del terribile, dell’incomprensibile cognitivamente. Lo smarrimento del senso, la perduta capacità di cogliere i desideri, i progetti, i legami che permettono la vita, producono nel lettore fulminee cadute in immagini violente, in cui la prepotenza del misteriosamente incomprensibile non permette altro percorso ermeneutico che la verità (episteme) dell’esperienza emotiva.
I percorsi della mente dei nostri scrittori, tuttavia, non si sono fermati.
Le parole di Giovanna:
Ci siamo fidati dell’altro
Ci siamo ascoltati
Ci siamo divertiti
Siamo creativi
Siamo BRAVI
GRAZIE A TUTTI
corpo deve sopportare il fatto di avere una mente
che vi dimora. (Bion,2005)[1]
Ho letto questi racconti autobiografici e ogni racconto mi ha rimandato all’affermazione di Paul Ricoeur[2]: “La vita: un racconto in cerca di un narratore”. I nostri sette autori si sono dedicati alla scrittura autobiografica: ovvero a un tipo di scrittura che trasforma i fatti, gli avvenimenti fisici e psichici, presenti (in vari modi) nella memoria, in narrazioni che nella attività di lettura, si propongono come reali (e reali sono in quanto contenuti della mente).
Certamente non esattamente la realtà di un rigido fotografico ricordo, piuttosto un’interpretazione dell’avvenuto, una scrittura che attiene a quei movimenti della memoria (Nachtraglichkeit di Freud) che modificando il significato emotivo di ciò che ‘allora’ è accaduto ne trasformano gli elementi, sulla base del vissuto “hic et nunc”.
E’ presente , nel racconto, la dimensione “tempo” come elemento fondamentale del ricordo, che porta a valorizzare la temporalità in quanto elemento fondante la narrazione autobiografica, soprattutto nella dimensione dell’attesa (S.Agostino, Confessioni)[3] . Attesa che si propone come progetto, come viaggio nell’anima, come luogo psichico ove collocare la speranza (così scrivono i nostri narratori.).
Aggiungo, per meglio chiarire ciò che ho in mente, il pensiero di Jorge Borges :“ Del resto la scrittura non è altro che un sogno guidato” [4]. Ovvero la capacità narrativa (artistica) si avvale di costruzioni che non rinunciano a pescare nei sotterranei dell’inconscio, svelandone e insieme proponendone il mistero, in un intreccio in cui frammenti di fantasie, emozioni, dolori e racconti di avvenimenti propongono la storia.
Come nei racconti qui presentati, ove, straordinariamente, vite impregnate di dolore e sogni esprimono la necessità, il desiderio, di tradursi in “vite raccontate” (Ricoeur,op.cit.).
Nascono le autobiografie: esprimono delle verità (episteme) che accolgo come verità artistiche che contrappongo alla rigidità delle nozioni e che rinviano al pensiero di Gadamer intorno alla coscienza estetica[5].
Verità artistiche che parlano della variegata struttura emotiva della mente, del suo esserci e del suo costringere il corpo pulsionale a dare senso, significato al nostro essere stati gettati nel mondo, sospesi tra una vita non cercata e una morte inevitabile.
Una mente che ci costringe, come scrivono Ambrosiano e Gaburri [6] , ad avventurarci nella vita convivendo con il dolore di esistere come esseri umani, in una realtà misteriosa, bordeggiando la morte, il limite, la fragilità.
Intorno a questo (e non solo) scrivono i nostri autori.
Emilia, nel suo scritto, ripropone a suo modo queste verità: L’impulso alla vita e quello verso la morte giocano una partita senza fine, a carte, a scacchi, alla morra.
Qualche riga dopo: Lì, seduta sul nulla, in mezzo alle scorie di un mondo che non era mio, che non avevo voluto…
Il tema che abita la mente di Emilia, il dolore dell’essere costretti a vivere una vita che sembra non avere (ancora) incontrato una ragione psichica che ne giustifichi, promuova le ragioni, il desiderio, mi è parso la descrizione di quella verità che ogni umano incontra, sfiora, tenta di risolvere, rinuncia.[7]
Nell’albergo delle donne tristi Chiara ci invita a riflettere intorno alla dolorosa, infruttuosa ricerca del “chi siamo”, Silvia, alla ricerca di sé e del significato del suo essere, cerca di affidarsi alle sfalsate verità che abitano la sua mente (dimore meditative), essere angeli o UFO,
fuggendo le angosce dell’uomo.
Andrea: Penso all’uomo…,la sua natura, la sopravvivenza in questo ribollente pentolone.
Sette persone ci offrono le loro riflessioni riguardo al senso smarrito, ritrovato del loro sé; alla irrintracciabile ragione della vita e alla riaffiorata spinta a vivere, ai modi in cui, disperatamente, si è alla ricerca del momentaneo, irrazionale forse quanto indispensabile, uso di stimoli (sesso, droghe, bulimia…) che il “buon senso” condanna[8], alla catastrofe di una mente che si impegna in dialoghi con fantasmi, in assenza di esseri umani da cui essere contenuti, protetti, invitati a riprendere percorsi abbandonati, a riavviare sentimenti abbandonati e assenti, legami affettivi smarriti, presenze interiori che invitano alla speranza, alla ripresa di significato.
I nostri sette autori descrivono stati dell’essere che, in qualche modo, ogni umano avvicina, affronta. Tuttavia queste autobiografie si distinguono perché possono definirsi, come qualcuno di loro ha sottolineato: “ Dichiarati matti si raccontano”.
La proposta definitoria, espressa al termine di un lungo percorso elaborativo (autobiografico), esprime, per quello che sento, il raggiungimento di quelle verità che non si legano esclusivamente al giudizio logico, alla spiegazione, ma anche o soprattutto, al giudizio estetico che avvia e colloca l’esperienza vissuta (Erlebnis) nella direzione di una particolare fondazione ermeneutica (Gadamer,op.cit).
I nostri autori ci invitano ad una comprensione che più che indirizzata al riconoscimento dei nessi causali fra avvenimenti ( la proposta di una teoria sulla sofferenza mentale)mi pare soprattutto tenti (progetto conscio, inconscio, voluto, accaduto?) di evocare, nel legame con la mente del lettore, immagini, pittogrammi, trame emotive(la reverie di Bion),
che ci inducano a sentire e pensare sia con chi scrive sia con i nostri oggetti interni.
Un movimento trasformativo dell’esperienza letteraria.
Mi soffermo su alcune forme che assumono i racconti.
Il dolore, l’angoscia di menti che si sentono cadere nel nonsenso, è presentato nelle autobiografie sia con modi poetico-metaforici, sia con la crudele ammissione di disperate
modalità del sentire, in cui le emozioni sembrano perdere il loro significato, fatte a pezzi o espulse, (momentaneamente) prive di un legame con il loro significato.
Varietà dei modi scelti per avvicinarsi/ci alla tragicità dei vissuti:
fiabe, che abbiamo letto nell’infanzia e delle quali gli autori ci restituiscono le emozioni d’allora, le loro, le nostre.
Peter Pan e l’apparente trionfante espulsione di un genitore che prende le forme del crudele e menzognero Capitan Uncino, Hansel e Gretel, sacrificati dall’egoismo dei genitori…e poi l’immagine del pesciolino rosso, chiuso, impotente, nel vaso…ancora Biancaneve e l’assenza del Principe azzurro….. solo nani, lì intorno.
Poi il contatto immediato, al di là di ogni metafora, con stati dell’anima feroci, brutali, annichilenti: rabbia, dolore, buio tremendo, un mondo assurdo fatto di paure e immagini mostruose, l’inferno, essere nemici di se stessi, odio, il silenzio e le voci dall’interno , accusatrici, solitudine e il parlare con i morti, abbandono, non rintracciabilità dei sentimenti-
La percezione della follia (della malattia)e la sua l’incomprensibilità.
Andrea scrive :.. ma perché mi sono ammalato? Di che, di cosa?
Federico ci ammonisce: Ero folle e la psichiatria mi ha tolto il diritto di esserlo-
La psichiatria e i percorsi terapeutici fanno il loro ingresso nelle autobiografie, naturalmente
in modi diversi da quelli che lo psichiatra attenderebbe.
Leggiamo di tecniche (?) pranoterapiche che avrebbero dovuto risolvere la depressione senza uso di psicofarmaci, scacciare presenze demoniache…e poi rumore del vento confuso con parole allucinate, vite in Comunità in cui ciò che avviene nella mente e ciò che accade nella struttura si confondono, si intrecciano…
Depressione, dolore descritto come “perla nera” e i dottori intervengono e “entro in un buon futuro”.
La strada per andare dallo psichiatra … un aiuto… di cui non è chiaro il senso. La consapevolezza tuttavia appesantisce, affatica; responsabilità o pazzia ?: penso di telefonare a Freud per far luce su quest’aspetto, ironizza Andrea.
Anche riferimenti scarni, nello scritto di Gabriele : Momenti No…quando mi hanno ricoverato a Sestri, nell’SPDC dove ci sono rimasto 2 mesi.
Valter vuole dimenticare l’esser preso con la forza e portato in SPDC. Le esperienze in ospedale sono drammatiche, tutta una vita da dimenticare.
Le parole di Andrea, la fondamentale esperienza emotiva e il modo di farla giungere a noi: Questo giardino mi ricorda i viali dell’ospedale, c’è un senso di allegria, di pace e di aria.
Dice Chiara: Ma incontri inaspettati sono stati soprattutto quelli con gli psichiatri e gli psicologi…la malattia è inaspettata, mica te la vai a cercare…e lo psichiatra è proprio inaspettato, quasi casuale come incontro.
Gli antichi dolori.
Madri non in sintonia con le emozioni dei figli, assenza di un desiderato caldo abbraccio, gli amici negati. Vuoti, paure, liti. Finzione nell’apparente amore tra padre e madre, crudele la scoperta, tradimenti, separazioni e abbandoni.
La sensazione di non essere capiti, la vergogna.
L’isolamento.
I desideri, ora, e accanto una recuperata, variamente descritta, spinta a essere vivi e a vivere.
Essere un pettirosso, volare libero tra gli alberi. La libertà. Quando è un lungo periodo in cui le voci allucinatorie non si presentano. L’unione con chi si ama. Vedere e sognare: mare, onde, tramonti, rondini e gabbiani, l’arcobaleno.
Emozioni sincere.
Andrea e un lungo pensiero, caricato di simboli che invitano alla reverie: Avvolto da una sfera magica cerco di interpretare i segni, la mente sublima ma la ragione e la razionalità vanno a braccetto con il pensiero, la vista e l’udito: sensazioni e creatività.
Vedere le onde del mare che si infrangono sugli scogli. Avere una casa con Silvia.
Chiara: Felicità, stare di fianco a mio marito, felicità, la sua mano nella mia.
Ancora l’amore, in Silvia: Così nuovamente, io amo.
Hanno legittimazione, al termine di questo libro, le osservazioni di uno psicoanalista? Temo l’invadenza, la possibile presunzione, la possibilità di proporre, come scrive Piera Aulagnier ,“ la violence de l’interprétation[9]”.
La stessa psicoanalista ci ammonisce: come l’inferno, le strade della teoria sono pavimentate da buone intenzioni(op.cit.).
Per queste ragioni e almeno in questa sede, mi trovo a riflettere sulla sofferenza, il terrore, l’insensatezza che hanno devastato lo slancio a vivere di esistenze che hanno incontrato troppo presto il fallimento della necessità d’essere oggetto di affetto, tenerezza, precocemente e successivamente.
Non sto qui parlando di etiologie psichiatriche, non è la sede di teorie.
Parlo di cose che trovo descritte dai dichiarati matti (che) si raccontano.
Riprendendo le espressioni della d’Ippolito[10] esser-uomo vuol dire far sorgere un mondo e io aggiungo: un mondo che proponga una significazione, che dia senso al nostro esserci, che contenga un particolare rimando ermeneutico, retto dalle cose che hanno/ho messo in evidenza, che trovo così tragicamente estremizzate nell’assoluta assenza di familiarità con il mondo, presente in Anna Rau, la disperata paziente di Blankenburg[11] .
Mi sento di affermare con il fenomenologo Straus, che nei deragliamenti della mente che le autobiografie rivelano, sembrano svanire gli assiomi del mondo quotidiano: ovvero rumori e voci, immagini che affiorano dall’interno della psiche si confondono con le percezioni, anche banali, consuete, proposte dal mondo esterno. In termini relazionali colui che legge è investito dal sentimento del terribile, dell’incomprensibile cognitivamente. Lo smarrimento del senso, la perduta capacità di cogliere i desideri, i progetti, i legami che permettono la vita, producono nel lettore fulminee cadute in immagini violente, in cui la prepotenza del misteriosamente incomprensibile non permette altro percorso ermeneutico che la verità (episteme) dell’esperienza emotiva.
I percorsi della mente dei nostri scrittori, tuttavia, non si sono fermati.
Le parole di Giovanna:
Ci siamo fidati dell’altro
Ci siamo ascoltati
Ci siamo divertiti
Siamo creativi
Siamo BRAVI
GRAZIE A TUTTI
[1] Bion, W.R. (2005) Seminari Tavistock, Borla, Roma, 2008.
[2] Ricoeur, P. (1994) Filosofia e linguaggio, Guerini e Associati, Milano.
[3] Citato Ricoeur, op.cit.
[4] Citato da Ogden, T,H. (2005) L’arte della psicoanalisi, Cortina, Milano,2008.
[5] Gadamer, H-G. (1960) Verità e metodo, Bompiani,Milano,2010.
[6] Ambrosiano, L., Gaburri E. Pensare con Freud, Cortina, Milano,2013.
[7] Nello scritto “Introduzione al narcisismo” (1914) Freud osserva: Egli (l’uomo)considera la sessualità come uno dei propri fini, ma…..egli stesso non è che un’appendice del suo plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze in cambio di un premio di piacere.
[8] Borgna (1999), ricordando il pensiero di von Gebsattel, rimanda alla condizione di vuoto esistenziale la ragione dell’assunzione di sostanze.
[9] Aulagnier, P. (1975) La violence de l’interprétation, PUF, Paris.
[10] D’Ippolito, B.M. (2004) La cattedrale sommersa, Franco Angeli, Milano.
[11] Blankenburg, W. (1971) La perdita dell’evidenza naturale, Cortina, Milano, 1998.
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