Francesco Sanò
Psicologo
Le premesse di questo lavoro sono costituite dalla definizione di "condizioni strutturali" (Deleuze, 1975; 1997), applicate al rapporto tra carcere e psicopatologia, verificate attraverso una serie di documenti che ne illustrino lo sviluppo storico. In tal senso si è scelto di prendere in considerazione due periodi distinti: il primo riguardante il mondo ellenistico a partire dal V secolo a.C., rispetto a cui la pubblicistica specializzata concorda nel rilevare la pressoché totale assenza di qualsivoglia genere di penalità detentiva (Neppi Modena, 1973; Melossi e Pavarini, 1977), il secondo relativo invece all'affermazione del sistema carcerario moderno nel passaggio tra XVIII e XIX secolo (Foucault, 1976; Rusche e Kircheimer, 1978). Si è rilevato come a tali periodi corrispondano in effetti due differenti versioni, collegate rispettivamente ad una concezione religiosa oppure laica dell'apparato giudiziario, della medesima istanza correttiva (Gallo e Ruggiero, 1983; Daga, 1989), intrinseca alla stessa "forma di contenuto" della prigione, che in quanto tale necessariamente presuppone una "forma d'espressione" di carattere patologico, come corrispettivo oggetto corrigendo. La più recente formulazione storica di questo "diagramma", che fa coincidere le categorie di trasgressione della normativa e della normalità, consiste nell'enunciazione della finalità rieducativa della pena codificata nell'attuale ordinamento legislativo (art. 27 Cost.; l. n. 354/75; l. n. 663/86), che coinvolge direttamente la figura dello psicologo, chiamato ad intervenirvi in qualità di esperto penitenziario. Nell'ultima parte del lavoro si sono dunque esaminate le questioni concernenti la definizione professionale di tale figura, sia nei termini più generali della problematicità di un'autonomia disciplinare della psicologia penitenziaria rispetto al diritto (Gulotta, 1987; De Leo, 1995; Patrizi, 1996) sia in quelli più specifici, strettamente consequenziali, dell'organizzazione di una metodologia d'intervento (Merzagora, 1987; Pantosti e Pellegrini, 1989; Serra, 1994).
INTRODUZIONE
L’uomo dispone sin dalla sua origine di una integralità di significante, che lo pone in grande imbarazzo quando deve assegnarla ad un significato, dato come tale senza pertanto essere conosciuto.
Tra i due vi è sempre un inadeguamento.
C. Lévi-Strauss
Capitolo primo:
PREMESSE METODOLOGICHE
Lo scopo di questo lavoro consiste nell'analisi delle varie forme di psicopatologia manifestatesi all'interno delle istituzioni carcerarie, nel corso dell'evoluzione storica di queste ultime. Più precisamente, il luogo preso in considerazione per tale analisi non risulta tanto il carcere in sé come istituzione sociale, quanto piuttosto lo stesso corpo incarcerato, ovvero l'individuo soggetto a tale istituzionalizzazione: e questa preliminare delimitazione dell'ambito discorsivo svolge già la funzione di definire l'oggetto in termini differenziali rispetto ad altri ambiti disciplinari. Nella fattispecie, concentrare l'attenzione sull'individuo piuttosto che sul sistema generale entro cui tale individuo risulta collocato, introduce infatti la distinzione tra un approccio sociologico al tema della psicopatologia penitenziaria, ed una altro invece più propriamente psicologico, verso il quale intendo fare riferimento per lo svolgimento di questo lavoro. Tale specificità si costituisce nello stesso modo rispetto ad altre discipline, quali quelle antropologiche o criminologiche, che nello stesso senso possono condividere il tema generale della psicopatologia penitenziaria, ma non il preciso taglio differenziale che va a definire come segno, appunto, l'individuo soggetto a reclusione, proponendo nel contempo il problema della valenza sintomatica che tale segno può assumere.
In un altro senso, che si potrebbe definire speculare rispetto a quanto finora esposto, bisogna notare che la specificità di un approccio psicologico si rivela anche nei confronti di discipline che, pur condividendo il medesimo oggetto di studio, differiscono invece per quanto riguarda i referenti teorici, i presupposti metodologici, o le finalità pratiche. E' il caso per esempio della psichiatria forense, che si configura più come pratica medico-sociale, con una tradizione e degli strumenti operativi quindi distinti rispetto quelli propri della psicologia.
Questi due termini di paragone, il campo delle discipline di carattere sociologico da un lato, e quelle di carattere medico dall'altro, cui qui abbiamo solo brevemente accennato come aree limitrofe rispetto alla delimitazione metodologica di questo lavoro, in realtà va ricordato come abbiano effettivamente costituito i poli intorno a cui ha oscillato da qualche decennio in Italia il dibattito intorno alla questione carceraria, incorporando rispettivamente aspettative libertarie ed esigenze normative, e di conseguenza generando posizioni teoriche e competenze professionali molto diverse tra loro: anche da questo punto di vista si cercherà, nell'ultima parte di questo lavoro, di evidenziare i termini che definiscano l'identità professionale della figura dello psicologo in ambito penitenziario, rispetto alle molteplici e svariate istanze che agiscono su questo terreno.
Formalmente, dunque, la natura dell'argomento e dell'oggetto di studio così delineati, rimandano direttamente al campo della psicologia giuridica, di cui in particolare esiste un settore che esplicitamente si pone come obiettivo lo studio dell'uomo in quanto soggetto di trattamento penale: la psicologia rieducativa. Ma se tale riferimento appare palesemente il più immediato, va altresì precisato che l'orientamento generale di tale disciplina risulta essenzialmente diretto al trattamento clinico, in una prospettiva peraltro evidentemente rivolta al reinserimento sociale. Questo lavoro invece si pone obiettivi di tutt'altro genere: adottando un metodo di indagine storica, senza proporsi alcuno schema interpretativo particolare ma sforzandosi piuttosto di mantenere un atteggiamento il più possibile vicino ai dati dei documenti presi in esame, vuole fornire un quadro di carattere puramente descrittivo del tema in questione, a livello filologico, rispetto a cui qualsiasi riflessione teorica, o approfondimento sperimentale, per quanto auspicabile, non può che rappresentare un passo successivo e distinto. In tal senso ritengo pertanto più corretto formulare il rapporto con le discipline psicologiche nei termini differenziali sovraesposti, piuttosto che mutuarne assunzioni o costrutti specifici.
Volendo allora riassumere schematicamente le caratteristiche distintive di questo lavoro, si può dunque concludere che il tema sia costituito dalla psicopatologia penitenziaria, l'oggetto di studio sia l'individuo incarcerato, e dunque l'area disciplinare di riferimento quella della psicologia rieducativa, ed il metodo, infine, quello dell'indagine storica.
Risulta quindi evidente come, rispetto agli schemi classici della metodologia scientifica, questa ricerca si configuri piuttosto come una pre-ricerca, nell'ambito della quale i criteri di fedeltà e validità assumono un valore particolare: nel primo caso si può parlare fondamentalmente di completezza ed accuratezza nei procedimenti di esegesi delle fonti (i bias personali in questo caso potrebbero manifestarsi come fenomeni di esclusione di documenti particolarmente rilevanti, o di manipolazione dei dati in essi contenuti), mentre nel secondo caso possiamo definire due livelli: il primo di validità interna intesa come congruenza nel rapporto tra documenti e conclusioni, ed il secondo come validità esterna intesa come potenzialità euristica di tali conclusioni, rispetto alla possibilità di spunti per approfondimenti successivi.
Delineati dunque, almeno sommariamente, i confini entro cui iscrivere lo spazio di uno studio di impronta psicologica sul tema della psicopatologia penitenziaria, è necessario poi rivolgersi all'organizzazione interna di tale spazio, per esporne, in questa fase introduttiva, i contenuti principali: questo lo scopo del prossimo capitolo.
Capitolo secondo:
DELIMITAZIONE DELL'AMBITO DISCORSIVO
Sarà utile innanzitutto fare riferimento ai termini usati nel titolo di questo lavoro: se da una parte il concetto di analisi dei rapporti storici tra psicopatologia e istituzioni penitenziarie rimanda alle questioni di metodo esposte nel capitolo precedente, la scelta dell'aggettivo "strutturale" per la definizione di tale analisi introduce la necessità di una esposizione riguardo alle questioni più propriamente di merito.
Esiste infatti un'accezione comune nell'uso di questo termine, che presuppone l'idea che tra i due elementi oggetti di studio esista una relazione complessa determinata dalla condivisione di caratteristiche comuni. In tal senso l'analisi di una relazione strutturale si distingue, per esempio, dall'analisi di una relazione causale, o correlazionale, o magari occasionale. Si badi però che tale distinzione non si configura necessariamente come contrapposizione: l'approccio causale proposto da E. Goffmann (1), per esempio, riguardo la patogenicità delle istituzioni totali, si integra perfettamente nell'ambito di una prospettiva strutturale. Semplicemente quest'ultima costituisce un punto di vista differente, di più ampio respiro,e quindi legato a finalità descrittive piuttosto che a specifiche ipotesi esplicative. Bisogna però a questo punto chiarire quali siano effettivamente queste dimensioni strutturali che si vuole sottendere ai due campi della reclusione e della psicopatologia.
Partiamo perciò, per esemplificare la questione, da un dato specifico, ovvero da un documento: una "supplica" al granduca del 20 gennaio 1588 (Archivio di Stato di Firenze, fondo Sovrastanti alle Stinche, filza 303, Suppliche ed offerte), in cui il magistrato collegiale cui era affidata la gestione del carcere fiorentino segnala la necessità di trasferire momentaneamente alcuni detenuti, finché "gli fussi alleggerito il furore et la pazzia". Questa situazione, di cui questo testo costituisce la prima forma di documentazione ufficiale, almeno per gli Archivi di Stato Italiani, sancisce innanzitutto un primo ordine di considerazioni da cui partire: la prossimità fisica, all'interno della medesima struttura reclusiva, delle figure del folle e del criminale. Parallelamente a tale contiguità fisica ritengo risulti consequenziale desumerne un'altra sul piano concettuale, collegata ai motivi di tale reclusione: entrambe queste figure sono strettamente connesse, se non costituzionalmente definite, dal concetto di deviazione dalla norma, sia questa intesa in senso giuridico come normativa, oppure in senso socio-culturale come normalità.
Il risultato comunque non cambia: in entrambi i casi si applica il meccanismo della reclusione, il che introduce il secondo ordine di considerazioni: questa struttura comune definita dal concetto di trasgressione non si dà come categoria sovrapposta dall'osservatore, a livello fonetico, come schema interpretativo, ma è presente nello stato del documento, a livello fonemico, evidentemente riconosciuta dalle figure che ne hanno al tempo decretato la punibilità. In definitiva, il folle ed il criminale comune non si trovano entrambi carcerati alle Stinche sin dal 1500, in funzione di un nostro giudizio che a posteriori ne rintraccia caratteristiche comuni più o meno astratte, bensì come risultato di una pratica molto concreta messa in atto da una serie di personaggi storicamente ben definiti:
sovrastanti, guardie, granducato.
Dunque possiamo preliminarmente identificare come dimensione comune ai campi della psicopatologia e delle istituzioni penitenziarie italiane, questa formula di interconnessione tra i due campi oggetti di studio. A tale formula si è voluto dunque qui fare riferimento con il termine generale di "struttura": e ci si avvicina così alla lettura Deleuziana di Sorvegliare e punire (2), all'immagine cioè di un diagramma con funzione di concatenamento tra segmenti di contenuto (prigione), e segmenti di espressione (delinquenza). Ma la citazione di Deleuze introduce un'ulteriore motivazione, stavolta però di carattere molto più specifico , per tale scelta lessicale: il rimando esplicito a tutto quel movimento culturale genericamente denominato "strutturalismo", che costituisce in questo campo un imprescindibile riferimento bibliografico, da Foucault a Lacan. (Si noti poi incidentalmente che tale rimando risulta paradossalmente tanto più esplicito, quanto meno gli autori inclusi in tale definizione sembrano far uso di questo termine, giustificandone quindi l'accezione generale qui proposta).
In sintesi, il ricorso al termine "struttura" in senso largo è basato sulla funzione denotativa rispetto al concetto di trasgressione che accomuna le figure del folle e del delinquente, di fronte alla pratica reclusiva, mentre in senso stretto si giustifica per la funzione connotativa in rapporto al movimento strutturalista (3).
Infine vanno poi precisati i termini per la delimitazione storica di un'analisi strutturale così definita: si è infatti sopra accennato ad una storia delle istituzioni penitenziarie italiane, ma bisogna comunque precisare che da una rassegna della letteratura specifica in materia (peraltro non vastissima…), risulta come nozione stabilmente acquisita l'individuazione degli inizi dell'Ottocento come periodo in cui la reclusione sembra acquisire lo statuto di forma dominante di pena.
Se poi parallelamente consideriamo come sulla base dell'evoluzione storica delle scienze medico-sociali, difficilmente prima di tale data si possa effettivamente parlare di vere e proprie discipline psicopatologiche, allora possiamo stabilire appunto nel sec. XIX il termine cronologico a partire dal quale sia lecito parlare di rapporti storici tra carcere e psicopatologia. Purtuttavia è facile rinvenire anche in periodi di molto precedenti fenomeni che possiamo considerare come precursori di quelli ora citati: la follia ha in effetti una storia molto più antica delle formule nosografiche in cui risulta poi codificata all'interno dell'epistemologia empirico-positivista, così come le pratiche reclusive rispetto al diritto penale.
L'organizzazione di questo lavoro seguirà dunque tale schema: nella prima parte si analizzeranno appunto alcuni antecedenti storici di questi due termini, cercando di dimostrare come già nelle loro primordiali manifestazioni apparissero intrinsecamente collegati, in virtù del riferimento a quella struttura concettuale di trasgressione sopra descritta. Nella seconda parte si affronterà invece direttamente il processo di costituzione delle istituzioni penitenziarie in quanto tali, in connessione con quello delle discipline psicopatologiche ad esse collegate. Nell'ultima parte si farà poi esclusivo riferimento alla situazione attuale, con particolare attenzione alla definizione delle funzioni professionali proprie della figura dello psicologo che operi in contesto penitenziario. Per tutte le tre parti l'analisi dei documenti si è inteso limitarla, ove possibile, direttamente alla situazione italiana, e comunque, va ricordato che in generale ogni tipo di considerazione di questo lavoro va infine iscritta esclusivamente nell'ambito di quella che si usa definire come "cultura occidentale", rispetto a cui possa definirsi una comune appartenenza delle fonti.
NOTE
(1): Goffmann, E. (1969), Asylums. Le istituzioni totali, Einaudi, Torino.
(2): Deleuze, G., Guattari, F. (1997), Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma. In particolare v. pp. 117 e seguenti: "Prendiamo in prestito da Foucault l'analisi esemplare, che senza averne l'aria, riguarda da vicino la linguistica: consideriamo una cosa come la prigione. La prigione è una forma, la "forma-prigione", una forma di contenuto su uno strato in rapporto con altre forme di contenuto (scuola, caserma, ospedale, fabbrica). Ora questa cosa o questa forma, non rinviano alla parola "prigione", ma a tutt'altri concetti e parole, come "delinquente, delinquenza", che esprimono una nuova maniera di classificare, di enunciare, di tradurre e persino di compiere degli atti criminali. "Delinquenza" è la forma d'espressione in presupposizione reciproca con la forma di contenuto "prigione". " Quanto poi questa lettura possa risultare legittima, è lo stesso Foucault a chiarirlo ogni qual volta abbia occasione di intervenire a proposito di Deleuze e Guattari: cfr. per es. A. Dal Lago (a cura di), (1997) Archivio Foucault, vol. 2, Feltrinelli, Milano, pag. 185, o 241 e seg.
(3): La questione di un uso post-strutturalista del termine struttura risulta di tale complessità da esulare senz'altro dagli scopi di questo lavoro: in questa sede vale però la pena di approfondire la citazione di Deleuze ricordando come già dieci anni prima di Millepiani, in Logica del senso, egli avesse enunciato delle condizioni minime per l'esistenza di una struttura, delineando la medesima impostazione concettuale poi applicata nella lettura di Foucault, seppur con l'utilizzo ancora del lessico di De Saussure invece che quello di Hjemslev: "1) Occorrono almeno due serie eterogenee, di cui una sarà determinata come "significante" e l'altra come "significata" (una sola serie non è mai sufficiente a formare una struttura). 2) Ciascuna di queste serie è costituita da termini che esistono solo per rapporti che hanno gli uni con gli altri. A questi rapporti, o piuttosto ai valori di questi rapporti, corrispondono eventi molto particolari, cioè singolarità assegnabili nella struttura (…). E' perciò inesatto opporre la struttura e l'evento: la struttura comporta un registro di eventi ideali, cioè tutta una storia ad essa interna (per esempio, se le serie comportano dei personaggi, una storia riunisce tutti i punti singolari che corrispondono alle posizioni relative dei personaggi, fra loro nelle due serie). 3) Le due serie convergono verso un elemento paradossale, che è come il loro differenziante. E' il principio di emissione delle singolarità. Questo elemento non appartiene a nessuna serie, o piuttosto appartiene ad entrambe ad un tempo, e non cessa di circolare attraverso di esse. " V. Deleuze, G. (1984), Logica del senso, Feltrinelli, Milano, pp. 51-52. Tale riferimento può essere allora considerato esaustivo per l'esplicazione dell'uso che si farà nel corso di questo lavoro del termine struttura: riguardo al primo punto si considerino le due serie delle istituzioni penitenziarie da una parte, e delle manifestazioni psicopatologiche dall'altra (categoria quest'ultima che in questa prospettiva risulta allora sovrapposta a quella Foucaultiana di delinquenza), mentre il secondo punto corrisponde a quanto si è inteso nel paragrafo introduttivo con l'espressione "livello fonemico della struttura". In tal senso ogni singolo rapporto è costituito da una particolare situazione storica, o più esattamente dal documento che la rappresenta. Infine l'elemento paradossale descritto nel terzo punto si può identificare nel concetto generale di trasgressione, di per sé intenzionalmente presentato come vago, in quanto si definisce appunto in rapporto alle norme giuridiche da una parte, e a quelle sociali dall'altra, corrispondenti alla due serie sopra menzionate: è proprietà di questo elemento infatti "di essere sempre spostato rispetto a sé stesso, di mancare al proprio posto, alla propria identità, alla propria uguaglianza, al proprio equilibrio. Appare in una serie come un eccesso, ma a condizione di apparire nell'altra come un difetto." (op. cit., pag. 52).
PARTE I
PRATICHE RECLUSIVE E FOLLIA
Anche nell'antichità il carcere, inteso come pena di durata, non era conosciuto né presso i greci né, a eccezione di determinati periodi storici, presso i romani;
G. Neppi Modena
A tutti questi colpevoli sarà riservato il carcere.
Platone
Capitolo primo:
GENEALOGIA DEL CARCERE
Il dibattito storiografico intorno alla questione carceraria può essere ricondotto essenzialmente a due posizioni fondamentali: la prima è quella inaugurata dalla scuola di Francoforte con il libro di Rusche e Kircheimer Pena e struttura sociale, cui poi, in varia misura, si allineeranno tutti i successivi studi di impostazione marxista. L'assunto principale di tale posizione è il collegamento tra l'affermazione della pena carceraria e la struttura economica mercantilistica degli stati tardosettecenteschi: questa concezione produttiva della pena fa risalire anche a livello filologico la forma del carcere moderno, attraverso i bagni penali, direttamente alle "galere" vittoriane, come meccanismo di sfruttamento delle classi sociali inferiori, funzione che poi sarà assorbita dalle fabbriche dell'epoca industriale (1). Per quanto concerne invece le epoche precedenti, gli autori sostengono prevalessero tutt'altri sistemi di pene, da quelle corporali a quelle pecuniarie: in quest'ottica il carcere, in quanto strumento di controllo della forza lavoro, resta una prerogativa del sistema capitalistico pre-industriale. Altri autori, coerenti con questo tipo di impostazione economicista, ne hanno semmai tracciato la genealogia a partire dalla pratica della schiavitù, come per esempio T. Sellin in Slavery and the Penal System, o in Italia N. Valentino in Ergastolo.
La seconda posizione storiografica prende avvio invece dall'opera di Foucault, Sorvegliare e punire, in cui più che sui processi di produzione delle merci come fondamento causale del carcere, se ne descrivono le strategie di controllo intese come meccanismi di potere tipici dell'intera società europea ottocentesca, descritta appunto come "società disciplinare" attraverso il famoso modello panoptico di Bentham (2). Seppur da una prospettiva ermeneutica differente, Foucault concorda dunque con Rusche e Kircheimer, cui peraltro nella sua opera rende esplicito omaggio (3), per quanto riguarda la data di nascita del sistema carcere moderno, situata appunto tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX, periodo delle grandi riforme illuministiche della giustizia: il Trattato sulle pene e sulle ricompense di Bentham, viene dato alle stampe nel 1811, Lo stato delle prigioni, di Howard, nel 1776, e il Dei delitti e delle pene, del Beccaria, nel 1764. Purtuttavia viene anche riconosciuto il fatto che tale data non corrisponda già all'invenzione della prigione, quanto piuttosto alla sua definitiva affermazione rispetto alla progressiva scomparsa degli altri sistemi penali con cui aveva convissuto per secoli (deportazione, lavori forzati, supplizi, etc…) : "La prigione è meno recente di quanto si affermi quando la si fa nascere con i nuovi codici. La forma-prigione preesiste alla sua utilizzazione sistematica nelle leggi penali (…). C'è, nella svolta tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX, il passaggio ad una penalità di detenzione, è vero; ed era cosa nuova. Ma si trattava dell'apertura della penalità a meccanismi di coercizione già elaborati altrove." (4). E' noto che poi Foucault individuerà in questo "altrove" una serie di pratiche paragiudiziarie, tra cui quella delle famigerate lettres de cachet, limitandosi però a prendere in considerazione la situazione della Francia nel XVIII sec. Ancora una volta sono gli epigoni a spingersi più in là: Ruggero e Gallo, in Il carcere in Europa, arrivano a far coincidere i contorni del sistema disciplinare descritto in Sorvegliare e punire con i principi teologici della Chiesa cattolica, individuando quindi nell'Inquisizione medioevale il primo vero artefice della pena detentiva (5). Rispetto a questo schema, che riflette lo stato dell'arte nel dibattito storiografico sull'origine del carcere, lo scopo precipuo di questo capitolo vuole essere quello di introdurre documenti atti a dimostrare l'esistenza già in periodi molto antichi (almeno sin dal IV sec. a.C.) di pratiche reclusive intese come sistemi penali istituzionali, del tutto autonomi rispetto alla schiavitù o a qualsivoglia meccanismo di segregazione di tipo extragiudiziario. A tal fine, piuttosto che esporre una rassegna dei vari studi pubblicati rispetto ai vari periodi (per i quali si rimanda invece alla bibliografia), si è voluto limitare l'analisi al mondo ellenistico proprio in funzione della sua pressoché totale esclusione dagli studi suddetti, sempre nella più o meno esplicita convinzione che né l'antica Grecia, né l'antica Roma, abbiano mai conosciuto alcuna forma di prigione.
NOTE
(1): Si veda in proposito Melossi, D., Pavarini, M. (1977), Carcere e fabbrica, Il Mulino, Bologna. Gli autori rappresentano in Italia gli esponenti più ortodossi di questa impostazione storiografica marxista. Per quanto riguarda invece in particolare l'Inghilterra, patria della rivoluzione industriale, si veda il testo di Ignatieff, M. (1982), Le origini del penitenziario, Mondadori, Milano.
(2): Cfr. Bentham, J. (1983), Panopticon, ovvero la casa d'ispezione, Marsilio, Venezia, oltre al cap. III di Foucault, M. (1976), Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino.
(3): Foucault, M., op. cit., pp. 27 e seg.
(4): Ibidem, pag. 251.
(5): V. anche Mereu I. (1990), Storia dell'intolleranza in Europa, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas s.p.a., Milano.
Capitolo secondo:
LE PRATICHE RECLUSIVE NEL MONDO ELLENISTICO
Par. 1: Il Prometeo incatenato di Eschilo.
Indubbiamente all'interno dello schema genealogico delineato nel capitolo precedente, si possono identificare, se non altro come espediente argomentativo, alcune figure emblematiche rispetto a particolari momenti storici: così il Pierre Rivière di Foucault segna evidentemente l'ingresso ufficiale della psichiatria nell'ambito del processo penale, come d'altra parte il caso di Galilei può rappresentare tutta la portata controriformista della funzione giudiziaria del Sant' Uffizio. Per quanto riguarda allora il mondo ellenistico, la scelta risulta senz'altro più ostica: come si è visto poc'anzi la quasi totalità degli orientamenti storiografici non considerano nemmeno l'esistenza di pene reclusive in quest'epoca. Purtuttavia si possono rintracciare generici riferimenti al concetto di prigione in vari passi di diversi autori: per es. Erodoto 3, 14; o Tucidide 5, 35,39. Il termine esatto che ricorre nei passi citati è quello di, che corrisponde al titolo della tragedia di Eschilo scelta appunto in questa sede per indicare l'entrata sulla scena della cultura occidentale delle pratiche reclusive, il PROMHQEUS DESMWTHS.
Certo il ricorso ad un testo tragico può apparire poco rigoroso ai fini di un'indagine storica, ma non bisogna sottovalutare il profondo radicamento che il dramma attico aveva nel contesto della società ateniese dei secoli V e IV a.C., cui qui facciamo riferimento: le rappresentazioni venivano infatti allestite in occasione di grandi feste cittadine, le Lenee in Autunno e le Dionisee in Primavera, e costituivano momenti di vasta partecipazione popolare e profondo coinvolgimento emotivo. Basti pensare alla descrizione che ne dà Aristotele nel primo libro della Poetica, in termini di rituali catartici. Per ottenere quest'effetto i contenuti delle tragedie dovevano pertanto rifarsi ad argomenti ben vivi nell'immaginario collettivo: lo stesso Eschilo nei Persiani tratta dell'evento storico più importante dell'epoca, la vittoria ateniese a Salamina contro Serse, cui egli aveva partecipato direttamente. E le Eumenidi altro non sono che un'apologia delle istituzioni giudiziari di Atene, nella fattispecie dell'Areopago. Nel giudizio sulla rappresentatività storica del testo tragico dev'essere dunque chiaro che il concetto stesso di un astratto artificio letterario risulta del tutto estraneo dall'impianto della tragedia eschiliana, sempre teso invece ad un impegno civile, rivolto ai maggiori avvenimenti dell'epoca, seppur illustrati attraverso la maschera degli attori . (1)
Arriviamo allora finalmente al Prometeo incatenato: rappresentato per la prima volta intorno al 470 a. C., costituiva originariamente la prima parte di una trilogia i cui altri due drammi, il PROMHQEUS LUOMENOS ed il PROMHQEUS PURFOROS , sono andati perduti.
La trama può essere così brevemente riassunta: lo scenario si apre tra le montagne desolate della Scizia, limite estremo del mondo, dove Efesto, accompagnato da Dominio e Terrore, incatena Prometeo ad una rupe secondo gli ordini di Zeus, per punirlo del furto del fuoco, compiuto per farne dono ai mortali, come sollievo per la loro misera vita. Confortato nella sventura dal coro delle ninfe Oceanine, Prometeo vede arrivare al suo cospetto dapprima Iò, anch'essa vittima dell'ira di Zeus, e poi Ermete, che del sovrano degli dei è invece il messaggero, mandato per convincerlo a piegarsi ai suoi voleri. Allo sdegnoso rifiuto di Prometeo, Zeus lo fa infine precipitare nelle viscere della terra. Così si chiude la tragedia . Questi due dialoghi, quello con Iò e quello con Ermete, che occupano tutta la seconda parte del dramma, ne costituiscono in effetti i principali nodi dialettici. Il primo è fondato sulla contrapposizione tra due opposti tipi di punizione divina: da una parte la forzata immobilità di Prometeo, inchiodato alla nuda roccia, dall'altro l'incessante corsa di Iò, trasformata in giovenca e perennemente sferzata da un guardiano a cent'occhi, da un capo all'altro del mondo. A tale diversità di pene, simmetricamente corrisponde una diversità di colpe: Iò è punita infatti per essersi sottratta alle bramosie di Zeus. La sua è una trasgressione della volontà divina, dunque ma di carattere episodico, passionale. La colpa di Prometeo è invece più radicale: egli non è soltanto mancato all'ordine celeste, piuttosto lo ha attivamente sovvertito (cfr. verso 40, anhkoustein de ton patros logwn, e inoltre vv. 8 e 944), per amore degli uomini. Non una occasionale infrazione, ma una irriducibile contrapposizione, espressa nel testo con il termine ubris (vv. 82, entauqa nun ubrize, e 970, outws ubrizein tous ubrizontas crewn), che si può tradurre come tracotanza, insolenza, e che già Solone, primo legislatore di Atene, identificava come massima offesa per la sua concezione religiosa della giustizia, peraltro profondamente condivisa dallo stesso Eschilo. (2)
Ma il carattere di questa colpa si dispiega interamente nel corso del secondo dialogo, quello con Ermete: agli occhi di quest'ultimo infatti l'ostinazione di Prometeo nel continuo rifiuto ad allinearsi ai voleri di Zeus appare come un atteggiamento del tutto insensato: v. 983, kai men su goupw swfronein epistasai, che nella traduzione di Savino (3) è reso con "tu ancora però non conosci equilibrio di mente".
Allora il significato ultimo della prigionia di Prometeo sembra risiedere proprio in questa irrisolvibile insensatezza, come egli stesso rivendica nel verso successivo: se gar proseudwn ouk an onq uphrethn, "Purtroppo non sarei qui che ti parlo, sgherro". Gli epiteti con cui poi Ermete definisce questa insensatezza, di fronte al fallimento dei suoi tentativi di persuasione, introducono alla fine direttamente il tema della follia. Il termine che ricorre frequentemente è quello di math, (vv. 329, e 999), che per gli antichi greci designa appunto un'alienazione del pensiero caratterizzata da demenza, stoltezza, sconsideratezza. Quanto poi l'uso di questa parola nel contesto del dramma ne privilegi un'accezione di vera e propria patologia, lo suggerisce il ricorso ad un termine ancora più esplicito: nosos, che sta per morbo, malattia. Si veda ad esempio il v. 472, apofaleis frnwn planai, kakos iatros ws tis en noson peswn aqumeis kai seauton ouk eceis eurein opoiois farmakois iasimos, "Brancoli, scivolato ormai nel delirio, sembri un medico inetto piombato nel male, ti senti mancare nel cuore, non scorgi rimedio, come fare a sanarti", o il v. 977, kluw s egw memhnot ou smikron noson, "sento che ormai deliri, d'un male non passeggero". Addirittura alla fine Ermete si domanda cosa manchi a questa follia per non esser mania, vera e propria pazzia furiosa (v. 1655, ti calai maniwn;).
Riassumendo: Prometeo sovverte l'ordine divino rubando il fuoco sacro. La sua colpa è l'ubris, la tracotanza: per ciò viene imprigionato. E lo scopo ultimo di questo imprigionamento è proprio quello di restaurare il senso dell'autorità di Zeus, di fronte all'insensatezza della trasgressione di Prometeo. Questo tentativo di correzione si svolge tramite l'intervento di Ermete, il quale esplicitamente legge tale insensatezza in termini di math, follia, e finanche di nosos, malattia, che in quanto tale va appunto curata, ricondotta alla norma. Ma quando alla fine ogni suo sforzo si rivelerà vano, e a tale lettura si sovrapporrà quella di mania, pazzia irrecuperabile, conseguentemente cambierà tipo di punizione: Prometeo viene sprofondato nel Tartaro e consegnato al supplizio dell' aquila, nella seconda tragedia della trilogia, il PROMHQEUS LUOMENOS.
Si può già qui ravvisare la presenza di quegli elementi indicati nel capitolo introduttivo come condizioni strutturali, ovvero la presupposizione reciproca tra reclusione come forma di contenuto, e follia come corrispettiva forma d'espressione. Eppure, nonostante l'eccezionale ricchezza e modernità di contenuti del testo eschileo, ogni analisi che se ne può fare , per quanto corretta ed accurata, non può che situarsi al livello di una sintassi, e non ancora di una pragmatica del carcere: il PROMHQEUS DESMWTHS, insomma, resta pur sempre una teodicea letteraria. Per dedurne storicamente l'esistenza di effettive pene reclusive, occorre cercare riscontri in altri documenti.
Par. 2: Le leggi di Platone
Le leggi è stato forse lo scritto più trascurato da critici e traduttori dell'intero corpus platonico. Ultimo in ordine cronologico, pubblicato alcuni anni dopo la sua morte (348 a. C.) ad opera del discepolo Filippo di Opunte, rappresenta con la mole dei suoi 12 libri la più vasta opera mai scritta dal Filosofo, ed al contempo, a parer di molti (4), anche la più impervia. Sia per lo stile, particolarmente involuto, sia soprattutto per il contenuto: una lunga e minuziosa descrizione dell'applicazione delle leggi nello Stato. Ma non si tratta più qui di questioni teoriche collegate al progetto di uno Stato ideale, come nella Repubblica, bensì del problema pratico della regolamentazione giuridica di una colonia, da fondare in territorio cretese. In questa ultima elaborazione del suo pensiero politico Platone dunque, partendo da quella concezione religiosa della giustizia che abbiamo visto derivare direttamente da Solone (5), si sofferma come mai prima su temi specifici quali i limiti della proprietà individuale, l'organizzazione di feste religiose, e, per quanto concerne direttamente gli scopi di questo lavoro, l'appropriatezza dei vari tipi di pene rispetto ai reati.
Va subito detto perciò che l'accenno alla pena reclusiva ricorre in vari passi del testo, con la stessa radice desmos usata da Eschilo: vv. 864, 880, 920. Ma l'esposizione più sistematica del tema la troviamo nel libro X, dove si parla di un particolare tipo di crimine, l'empietà, asebeia. Platone dapprima ne fa una approfondita descrizione, distinguendone tre differenti tipi: la negazione dell'esistenza degli dei, l'affermazione che, pur esistendo, gli dei non si interessino degli uomini, ed infine il convincimento che sia invece possibile propiziarseli con offerte. Dopo avere confutato le ragioni filosofiche di queste tesi, si prescrive che chiunque se ne imbatte abbia l'obbligo di denunciarne l'autore davanti ad una corte di magistrati, i quali a loro volta debbono assegnare una pena per ogni singolo atto di empietà. Sulla natura di questa pena, Platone non potrebbe essere più chiaro: desmos men oun uparcetw pasi, "A tutti questi colpevoli sarà riservato il carcere" (6), v. 908a. Di seguito si specifica inoltre che esistono nello Stato addirittura tre diversi tipi di carcere (desmwthriwn de ontwn en th polei triwn), per ognuno dei diversi casi di empietà sopra descritti: "uno comune presso la piazza pubblica, per la custodia in generale delle persone; uno presso il luogo di adunanza del Consiglio notturno, soprannominato carcere correzionale (swfronisthrion); un altro infine nel mezzo del paese, in luogo deserto e quanto più è possibile selvatico, che prenderà nome da qualche vocabolo che sia espressione di pena". All'interno di tale campionario reclusivo si delineano così differenti percorsi penali in funzione di una valutazione sulla recuperabilità sociale del criminale: "Tenendo conto di tale distinzione, il giudice, conformemente alla legge, porrà nel carcere correzionale coloro che avranno seguito tale credenza per mancanza di giudizio (up anoias) e non per cattiva inclinazione o per mal costume, e ve li terrà per non meno di cinque anni. Durante questo tempo, nessuno dei cittadini abbia rapporti con essi, eccetto i membri del consiglio notturno, che s'intratterranno con loro per ammonirli, consigliarli, e salvare la loro anima (kai th ths yuchs swteria omilountes). Spirato il tempo della loro prigionia, se qualcuno di essi mostrerà di essere rinsavito, viva in mezzo alla gente assennata (ean men dokh tis swfronein autwn, oikeitw meta twn swfronwn); se questo non avviene, e si rende di nuovo colpevole dello stesso delitto, sia punito di morte. Quanto poi a tutti quegli esseri mostruosi che, oltre a credere che gli dei non s'interessano delle umane faccende, o che si possono propiziare, nel loro dispregio per gli uomini attirano a sé le anime di molti viventi, dando ad intendere di saper evocare quelle dei morti e promettendo di piegare gli dei, come se fosse loro facoltà di attirarli coi sacrifizi, con le preghiere o con gli incanti, e mettono mano per amor di denaro a rovinare del tutto privati cittadini, intere famiglie e città: chiunque risulterà colpevole di tali delitti, sia dal tribunale condannato, in conformità della legge, alla reclusione nel carcere sito nel mezzo del paese (dedesqai men en tw twn mesogeiwn desmwthriw), dove non venga mai avvicinato da alcuna persona libera, e riceva dai servi il nutrimento assegnatogli dai custodi delle leggi;" (v. 909c). Da questo passo emerge con tutta evidenza come quella funzione correttiva, che abbiamo visto come fondamento della prigionia del Prometeo di Eschilo, risulti nelle Leggi effettivamente specifica della pena carceraria, rispetto per esempio alla funzione di esemplarità dissuasiva della pena di morte, o al valore di salvaguardia della comunità tipico della condanna all'esilio. Anche etimologicamente, il secondo carcere descritto da Platone, il swfronisthrion, rimanda direttamente al significato del verbo da cui deriva, swfronein: essere assennati, moderati, essere sani di mente. Che è lo stesso verbo ricorrente nel testo eschileo: si veda il già citato v. 983, kai men su g oupw swfronein epistasai. Il swfronisthrion può essere assunto allora a modello generale del sistema penale delle Leggi, tutto imperniato intorno a quell'idea che, con termine moderno, potremmo definire di trattamento rieducativo: "giacché qualunque pena inflitta conformemente alle leggi non ha lo scopo di far male, essa su per giù produce l'uno o l'altro di questi effetti: o rende migliore chi la riceve, o attenua il suo peggioramento." (v. 854d, ma cfr. anche 862d, e 934b). E se la pena svolge questa funzione correttiva, necessariamente presuppone un oggetto che a sua volta abbisogni di correzione: la colpa così non riguarda più un singolo episodio, con motivazioni contestuali, ma deve essere letta come segno di una più generale anoia, ovvero stoltezza, sconsideratezza, follia (7). In proposito bisogna notare come uno dei limiti di applicabilità della pena carceraria risieda proprio nel passaggio dalla curabilità di questa follia, all'irrecuperabilità della pazzia: v. 864d, praxeie ti maneis. Lo stesso termine di mania che segna già in Eschilo l'inabissamento di Prometeo, e la fine della tragedia. D'altra parte, ancora in Platone come in Eschilo, l'espressione sintomatica di questa follia, il crimine che più di tutti richiede l'imprigionamento, è proprio l'offesa agli dei, l'empietà. Prometeo è infatti definito ton qeois ecqiston qeon, "il dio nemico agli dei" (v. 37), nonché ton examartont es qeous, efemerois poronta timas, "tu che una colpa hai commesso contro gli dei, perché ne offristi le prerogative ai mortali" (v. 944). Queste precisazioni, oltre a sottolineare a livello semiologico la coerenza tra i due documenti presi in esame, confermando la validità di un'analisi storica del testo tragico, ribadiscono un'osservazione di carattere più generale, cioè che l'equiparazione sopradescritta, tra opinione teologica come infrazione delle norme sociali da una parte, e crimine come infrazione delle norme giuridiche dall'altra, può avvenire solo all'interno di un sistema politico con profonde radici religiose, quale appunto quello ateniese nel V-IV sec. a.C..
Tale osservazione ci fornirà una preziosa chiave di lettura nella disamina delle alterne vicende che subiranno le pratiche reclusive nella storia romana.
Par. 3: Il diritto romano
Certamente la vasta pubblicistica riguardante il diritto penale romano ci garantisce una visione d'insieme molto più esauriente, rispetto alla frammentarietà di notizie relative alla Grecia antica. Possiamo così già preliminarmente distinguere tre grandi fasi storiche: quella primitiva, cui corrisponde la subordinazione del potere repressivo del magistrato al controllo diretto del popolo riunito in comizi, almeno per i casi più gravi, istituto questo denominato PROVOCATIO AD POPULUM, sancito dalla Lex Valeria intorno al 300 a.C.; la fase repubblicana, in cui lo svolgimento delle procedure penali era invece delegato a particolari corti di giustizia, dette QUAESTIONES PERPETUAE, ed infine la fase del Principato, con il riacquisto delle funzioni repressive da parte delle più alte cariche dello Stato, ovvero Principe e Senato, tramite l'istituto della COGNITIO EXTRAORDINEM. A tale schema corrisponde una linea di sviluppo generale che, dalla costituzione della civitas sino all'instaurazione della monarchia romano-ellenica, segna una progressiva espansione delle competenze del diritto penale pubblico rispetto a quello privato, sino all'apice della legislazione giustinianea (8). In effetti bisogna ammettere che lungo tutto l'arco di questi periodi, le pene più diffuse nella società romana sembrano essere state, sostanzialmente, quella capitale, e quelle pecuniarie, secondo una concezione retributiva della pena apparentemente lontana dagli ideali correttivi del swfronisthrion. Eppure, già all'epoca della legislazione decemvirale, sappiamo che esisteva una pratica denominata IN VINCULA DUCTIO (v. Liv. 3, 13, 8; 25, 4, 8; nonché Dion. Hal. 10, 8, 2), classificata tra le pene minori che non necessitavano del ricorso al processo comiziale. Si noti per inciso che, a livello filologico, il latino VINCULUM traduce letteralmente il greco desmos, in tutta la sua estensione polisemantica: legame, laccio, catena, prigione. Ma non basta: sappiamo altresì che i magistrati minori cui era affidata la custodia di queste prigioni, erano chiamati TRESVIRI NOCTURNI (Liv. 32, 26, 17), con inequivocabile rimando a quel consiglio notturno (nuktwr sullegomenos) che abbiamo visto in Platone svolgere le medesime funzioni. D'altronde tali rimandi non devono stupire se si pensa che la stessa tradizione romana, oggi supportata dai moderni studi comparativi di storia del diritto, riconosceva la diretta derivazione delle Dodici Tavole dalle legislazioni delle città elleniche (9). Non sembra dunque esserci dubbio sul fatto che dagli inizi la civiltà romana abbia ereditato integralmente da quella greca il modello carcerario descritto nelle Leggi. E vale la pena di ricordare che tale eredità fu raccolta da una giurisprudenza ancora sacerdotale: solo successivamente al III sec. a.C. a Roma infatti la conoscenza del diritto iniziò lentamente a staccarsi dall’esclusivo ambito del collegio pontificio (Liv. 11, 46, 5; Cic., De leg., 2, 19, 47), in cui sino ad allora era stata rigidamente confinata. Conseguentemente a tale processo, con l'elaborazione di una maggiore duttilità nel rapporto tra gravità di reati e pene corrispondenti, iniziò a diffondersi, soprattutto in età imperiale, un altro genere di pratica reclusiva: quella dei lavori forzati. OPUS PUBLICUM, DAMNATIO IN METALLI, MINISTERIUM METALLICORUM: un vasto campionario di pene coercitive arrivò a far coincidere, nella COGNITIO EXTRAORDINEM, la condanna con la schiavitù (10), relegando in posizione del tutto marginale il vecchio modello carcerario, che in quanto tale, infatti, non viene nemmanco più contemplato nel sistema penale. Abbiamo però ancora notizie della sua sopravvivenza, oltre che da varie citazioni letterarie (si veda per es. Apul. 10, 9), dal fatto che venga classificato appunto tra i crimina extraordinem il reato di evasione dal carcere (11). Sicché se ne può dedurre che, seppur non più codificata all'interno del diritto, la forma-prigione abbia continuato ad esistere anche in età imperiale almeno come strumento di custodia, come d'altronde ci confermano gli scritti dei maggiori giuristi dell'epoca (v. in particolare Ulp. Dig. 8,48,19). Si noti comunque che anche questa più limitata concezione di prigione può essere considerata come lascito platonico, corrispondendo in effetti al primo tipo di carcere descritto nelle Leggi (cfr. par. 2, pag. 18).
Dunque: dapprima come vero e proprio swfronisthrion, in età repubblicana, successivamente come semplice desmwthrion, in età imperiale, il carcere, ereditato dalla civiltà greca, attraversa tutto l'arco della storia romana.
Quando infine la Chiesa cattolica, nell'alto Medioevo, assorbirà l'apparato burocratico-legislativo dell'ormai dissolto Impero Romano d'Occidente, ne tramanderà evidentemente anche le pratiche penali: non appare dunque storicamente sostenibile la tesi secondo cui "L'inquisizione crea il carcere istituzionale (…) Nasce qui il principio della natura insieme afflittiva ed emendativa della pena". (12) Tale principio, in realtà, abbiamo visto nascere almeno quindici secoli prima: non solo l'Inquisizione non inventa il carcere, ma addirittura non si riesce a scorgere, a ritroso, alcuna invenzione, alcuna "Erfindung" del carcere. Semmai se ne può delineare una "Ursprung", un'origine (13), strettamente connessa, questo sì, alla sua funzione emendativa, e dunque, confessionale. Tuttavia questa funzione non è stata una prerogativa del Santo Uffizio tardo medioevale, ma venne esercitata anche, come abbiamo visto, dal collegio dei pontefici dell'antica Roma, e dai sacerdoti di Apollo che componevano il nuktwr sullegomenos nell'Atene del IV sec. a.C.. E se come condizione necessaria per l'applicazione della finalità rieducativa della pena carceraria, unica finalità che ne garantisca il primato rispetto ad altri tipi di pena, bisogna rintracciare una gestione ierocratica della giustizia, come altrettanto necessaria conseguenza bisogna identificare nel colpevole un empio, un eretico, un trasgressore non solo di una norma giuridica, ma di un principio universale: ecco allora il crimine divenire math, anoia. Ecco il reo divenire folle.
Certo queste condizioni strutturali non vanno intese come un principio astratto, bensì analizzate di volta in volta rispetto alla specificità del contesto preso in esame, andando così a definire non un modello ubiquitario (14), bensì un percorso complesso e discontinuo. Rispetto al mondo ellenistico, si è creduto di ravvisare una certa coerenza tra le articolazioni di tale discontinuità, e le condizioni strutturali sopra descritte . Vedremo nella seconda parte se tale coerenza possa riscontrarsi anche rispetto ai percorsi del carcere moderno.
NOTE
(1): Per i rapporti tra dramma eschileo e società ateniese si veda Podlecki, A.J. (1966), The political background of Aeschilean tragedy, Ann Arbor; e Cerri, G. (1976), Il linguaggio politico nel Prometeo di Eschilo, Saggi di semantica, Roma, in particolare alla pag. 57: "Si tratta invece dello scontro reale e storicamente documentato nel mondo greco tra una legge più antica, concepita come perenne ed imperitura, propria della società aristocratica, ed una legge di natura diversa, sovvertitrice dell'ordine precedente".
(2): Oltre che nei testi sopra citati, informazioni sul rapporto tra Eschilo e Solone possono trovarsi in Colonna A. (1977), La letteratura greca, Lattes Editori, Torino, pp. 189-190.
(3): Ogni qual volta l'analisi semantica lo rendesse necessario, si è preferito riportare il testo originale. Per uniformità di metodo comunque, le traduzioni riportate fanno riferimento tutte all'edizione curata da E. Savino: Eschilo, Prometeo incatenato, Garzanti, Milano, 1980.
(4): V. Colonna, A., op. cit., pag. 401., nonché l'introduzione di A. Cassarà al volume: Platone, Le leggi, CEDAM, Padova, 1947.
(5): Il particolare carattere religioso della concezione politica espressa nelle Leggi, anche rispetto alle precedenti opere platoniche, viene così riassunto dal Dizionario di filosofia della Rizzoli (1976): "La nuova costituzione proposta da Platone è caratterizzata da un conservatorismo ieratico, che ricorda quello delle leggi egiziane. La nuova città è profondamente penetrata di spirito religioso: fra l'altro, tutte le leggi devono essere sottoposte alla sanzione di Apollo Pizio".
(6): Anche in questo caso, per evitare ambiguità, a fronte del testo originale si è voluto fare riferimento ad un testo unico per quanto riguarda la traduzione italiana: Platone (a cura di A. Cassarà), (1947), Le leggi, CEDAM, Padova.
(7): Altri , per es. Bury, R.G. (1961), Laws, W. Heinemann ltd., London, traducono direttamente: "those criminals who suffer from folly".
(8): V. Arbertario, E. (1924), Delictum e Crimen nel diritto romano-classico e nella legislazione giustinianea, Società Editrice Vita e Pensiero, Milano.
(9): V. Perelli, L. (1981), Storia della letteratura latina, Paravia, Torino, pag.7. A proposito di follia, si noti inoltre che nel diritto romano persiste come limite applicativo della misura penale la categoria di furor, corrispondente a quella greca di mania (cfr. pag. 22): v. Marchetti, M. (1990), Cenni storici di psichiatria forense, in Ferracuti (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, vol. XIII: Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano.
(10): V. Santalucia, B. (1989), Diritto e processo penale nell'antica Roma, Giuffrè, Milano, pag. 116; e Voci P. (1996), Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano, pag. 71: "In età imperiale il condannato a morte o ai lavori forzati perde la libertà: il forzato è servus poenae. La schiavitù del forzato è abolita da Giustiniano".
(11): V. Pugliese G. (1958), Diritto criminale romano, in Guida allo studio della civiltà romana antica ( a cura di V. Ussani e F. Arnaldi), I.E.M., Napoli, pag. 468.
(!2): Gallo, E., Ruggiero, V. (1983), Il carcere in Europa, Bertani Editore, Verona, pp. 34-35.
(13): Sull'uso dei termini Erfindung ed Ursprung, si veda in particolare Foucault, M. ( a cura di A. Dal Lago), (1997), La verità e le forme giuridiche, Feltrinelli, Milano.
(14): Rispettivamente pandisciplinarismo e paneconomicismo sono stati definiti, in senso critico, gli approcci di Foucault, e Rusche e Kircheimer. Non appare però corretto assimilare, in quest'ottica critica, il concetto di carcere a quello di "carcerario", come acutamente rileva Pavarini: "Altre volte, e a mio parere scorrettamente, si usa il termine "carcerario" come metafora di società disciplinata sul modello dell'istituzione penitenziaria. Lo ritengo un uso scorretto, perché anche euristicamente inutile. Merito o demerito di un Foucault male inteso… o usato come lui stesso ama definirsi "una scatola degli attrezzi". (…) non pare comunque dubitabile che il modello si debba riferire ad una fase storica, ad un sistema di produzione e ad una cultura tutte altrettanto ben definite". M. Pavarini, nota critica a Gallo, E., Ruggiero, V., op. cit., pp. 18-19.
PARTE II
CARCERE E PSICOPATOLOGIA
E' un fenomeno noto, che l'angelo della medicina, dopo aver ascoltato per un po' le dissertazioni dei giuristi, dimentichi molto spesso la propria missione. Egli ripiega allora le ali fruscianti, e si comporta nelle aule dei tribunali come un angelo di complemento della giurisprudenza.
R. Musil
Capitolo primo:
NASCITA E SVILUPPO DEL SISTEMA CARCERARIO MODERNO
Par. 1: Il secolo XIX
Ancora una volta, per inquadrare la situazione, possiamo partire da un documento storico, il discorso d'apertura del II congresso penitenziario internazionale (20-23 settembre, 1847, Bruxelles), pronunciato da M. Van Meneem, presidente della locale corte di Cassazione: "Sono molto vecchio e mi ricordo ancora del tempo in cui non si puniva la gente mettendola in prigione, ma in cui l'Europa era coperta di patiboli, di gogne e di forche, e si vedevano persone mutilate che avevano perso un orecchio, i due pollici o un occhio. Erano questi i condannati. (…) Ora tutto questo è rinchiuso dietro i muri monotoni della prigione" (1). Se nella prima parte di questo lavoro si è visto come l'origine delle pratiche reclusive faccia risalire la forma-prigione addirittura agli albori della civiltà occidentale, non bisogna dimenticare che è solo nella svolta tra XVIII e XIX secolo che tale forma diventa comunque predominante nella pratica giudiziaria. A conferma di ciò si possono analizzare, relativamente alla specifica situazione italiana, le legislazioni dei vari stati che poi andranno a comporre il Regno d'Italia: ad esempio, il codice penale per il Regno delle due Sicilie del 1819, all'art. 1, distingue tra pene "o criminali, o correzionali o di polizia". Le prime sono costituite da morte, ergastolo, ferri, reclusione, relegazione, esilio dal regno, interdizione dai pubblici uffici; le seconde da prigionia, confino, esilio correzionale, interdizione a tempo; le ultime da detenzione, mandato in casa, ammenda. Ed anche codici più tardi, come quello toscano del 1853, propongono la medesima varietà punitiva: solo tra le pene principali sono elencate la morte, l'ergastolo, la casa di forza, il carcere, l'esilio particolare, la multa e la riprensione giudiciale, oltre ad altrettanto accurate liste per tutte le altre pene minori (2). Perché da questo composito quadro emerga definitivamente il sistema carcerario moderno, sarà necessario allora innanzitutto recuperare quella concezione correttiva della pena che abbiamo visto sinora strettamente connessa ad una gestione ecclesiastica dell'apparato di giustizia. Ed in effetti tale concezione, sin dalla seconda metà del Settecento, viene rilanciata dagli slanci filantropici delle grandi riforme illuministiche, e successivamente elaborata dalla Scuola Positiva del diritto, trasformando da confessionale a laica, da redentiva a rieducativa, l'antica finalità ortopedica della prigione.
Ma non è senza contrasti che tale passaggio si compie: agli spunti innovativi di un Carmignani o di un Filangieri ("La pena dunque del carcere non dovrebbe dalle leggi adoprarsi che come una pena, per così dire , di correzione. Essa non dovrebbe dunque essere molto lunga, perché altrimenti mancherebbe all'oggetto al quale destinarsi .") (3), si contrappone il rigido conservatorismo del Romagnosi ("Essi pretendono di sostituire un sistema penitenziario che in sostanza si è quello dell'espiazione, coll'aspettativa di un ravvedimento senza sussidi. Il Lucas poi spinge la cosa persino a negare alla sovranità il diritto di punire colla morte. Un lodevole sentimento di filantropia sembra cattivarsi i suffragi di questi novatori. E noi di buona voglia ci accorderemmo con loro, se questo raffinamento di umanità si potesse conciliare coi principii e con lo stato della sociale sicurezza e non andasse a scuotere perfini ne' suoi ultimi fondamenti la forza universale delle leggi ed il potere eminente ed indispensabile di ogni sovranità") (4). Poco più oltre, l'autore arriva mirabilmente a sintetizzare, pur in forma di critica, proprio ciò che questo capitolo è inteso a dimostrare: "Essi risospingono le umane società alla primitiva infanzia della vita civile in cui conveniva amministrare le pene come espiazioni verso la Divinità offesa". Va detto che primo bersaglio degli strali del Romagnosi, e referente comune di tutti i maggiori giureconsulti di inizio Ottocento, sono i nuovi modelli carcerari introdotti negli Stati Uniti d'America. Nel 1829 infatti, a Philadelfia, era stata terminata la costruzione dell'Eastern Penitentiary, edificato secondo il modello del Panopticon di Bentham (già in voga dal 1797, anno di costruzione della prigione di Richmond, in Virginia), che prevedeva la disposizione degli edifici intorno ad un torre centrale, per consentirne un costante controllo. Ma la vera innovazione era costituita dall'organizzazione del lavoro dei carcerati secondo un principio di assoluto isolamento unicellulare: "i reclusi erano condotti con gli occhi bendati sin dentro le loro celle, dalle quali non uscivano che per passeggiare nel loro cortiletto individuale, con orari fissati in modo tale che i loro vicini non si trovassero mai al passeggio nello stesso tempo. La solitudine era interrotta soltanto dalle visite del direttore e dei guardiani" (5). Nello stesso periodo, nella prigione di Auburn, a New York, veniva sperimentato invece un metodo che comportava l'isolamento in celle solo durante la notte, mentre il lavoro comune, durante il giorno, doveva svolgersi nel più totale silenzio, la cui minima rottura implicava pesanti punizioni corporali. Il dibattito su questi due modelli, detti rispettivamente del solitary confinement e del silent system, si sviluppò dunque anche in Italia (il Cattaneo testimonia che "i governi europei non vollero più mettere mano ad alcuna riforma, senza aver prima inviato uomini esperti, avveduti e saggi a visitare le carceri americane") (6), incentrandosi subito sulla questione degli effetti psicopatogeni, come dimostra la pubblicazione nel 1848 dell'opera del Fornasini, Dei pazzi e dei condannati, dei manicomi e delle prigioni. A livello pratico tale attenzione per i danni prodotti dalla detenzione si esprime attraverso l'organizzazione di interventi di tipo benefico-assistenziale, tramite varie "società di patronato" e "commissioni visitatrici" (7). Si verifica pertanto, per la prima volta nella storia del carcere, un passaggio di competenza dal campo del diritto a quello della medicina, la cui prima tappa ufficiale può essere identificata nella memoria che nel 1841 tre fra i più illustri giuristi italiani, Ronchivecchi, Rottermaier e Petitti di Roreto, inviarono al terzo congresso nazionale degli scienziati italiani, a Firenze. Vi si chiedeva in particolare il pronunciamento dei partecipanti rispetto alla nocività del metodo filadelfiano, in questi termini: "Fatta ora astrazione da qualunque idea concernente l'efficacia della punizione, come della sua esemplarità, ed al probabile miglioramento morale derivante da essa, ci permetteremmo, con la scorta de' lumi acquisiti in una lunga pratica delle carceri, spesso da noi visitate per doveri di ufficio, come al fine di guidarci nei nostri studi, d'esporre ai dotti, cui ci presentiamo, i nostri dubbi, perché la scienza loro voglia dichiararci se le regole di una igiene illuminata consentano che uomini assuefatti alla vita attiva, all'aria libera, con distrazioni incessanti, possano senza grave ed irrimediabile danno per la salute del corpo e della mente, rinchiudersi in un'angusta cella per tempo assai lungo, senza uscirne affatto che brevemente e ben di rado per brevissimo passeggio circoscritto in ristretto spazio" (8). La questione non ebbe evidentemente alcuna soluzione definitiva, riproponendosi ai congressi successivi di Padova (1842), e di Lucca (1843), e si può dire anzi che si sia in effetti sviluppata protraendosi sino ai giorni nostri, considerando che ancora nel 1976 la Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e Pena commissionava una ricerca sul tema del deterioramento mentale da detenzione. L' incessante dibattito degli esperti sulla preferibilità di un modello rispetto all'altro, si rifletté poi sull'applicazione pratica delle riforme, ostacolandone il corso: nella seduta parlamentare del 21 settembre 1849 Cavour riferisce la circostanza, paradigmatica, che in Piemonte siano state costruite due case di pena, quella di Alessandria nel 1845 e quella di Oneglia nel 1846, secondo lo schema auburniano. Avendo però nel frattempo le commissioni di studiosi in materia optato per quello filadelfiano, si chiede di sospendere il programma di investimenti in attesa di ulteriori chiarificazioni (9). Questo generale stato di confusione viene mirabilmente reso dal Beltrani Scalia: "A base della riforma penitenziaria si cercherebbe invano in tutti i lavori che finora han visto la luce, dati sufficienti per spiegare le ragioni delle facili premesse come degli inconsulti mutamenti (…) Dal regime di segregazione assoluta si viene al sistema misto e graduale, e si accetta e si vota, finché, abbandonato anche questo, si passa ad Auburn, e si proclama come il solo che permetta esperimento di emendabilità (…) Ma da quali ricerche, da quali studi di confronto sia venuto fuori cotesto assioma, si cercherebbe invano" (10).
Così, paradossalmente, il sistema carcerario cellulare, più che sulla dimostrazione della propria validità, fonda la sua affermazione sulla concomitante crisi degli altri metodi penali: in primo luogo le varie tecniche di supplizio e di esecuzione, ormai considerate obsolete rispetto alle nuove tendenze del diritto, già a partire dal Beccaria; e poi il vecchio bagno penale, che nella prima metà dell'Ottocento porta a definitivo compimento un lungo processo di estinzione, iniziato sin dalla fine del Seicento con il superamento tecnico, in marina, della galera da parte delle nuove navi a vela, e conclusosi con la constatazione dell'impossibilità di gestione di questo tipo di stabilimenti, sia dal punto di vista disciplinare che economico (11). Del resto nello stesso documento che elenca i quesiti della Commissione nominata nel 1879 dal Governo per la riforma penitenziaria, si subordina esplicitamente il problema dell'organizzazione carceraria a quello dell'abolizione dei lavori forzati: "1° Di esaminare se la pena de' lavori forzati, come si sconta attualmente nei bagni, sia conciliabile coll'odierna civiltà (…) 2° Qualora venisse suggerita la soppressione dei lavori forzati, od un sostanziale mutamento all'attuale modo di espiazione, di proporre i provvedimenti transitori occorrenti riguardo ai condannati ora esistenti nei bagni" (12).
Tale transitorietà troverà naturale soluzione nell'utilizzo delle tradizionali case di correzione: questi istituti, conseguenza di quella vasta campagna denominata da Foucault "grande internamento", che ha caratterizzato il riassetto sociale di tutti i paesi d'Europa tra i secoli XVI e XVII, includevano una eterogenea serie di soggetti emarginati, dalle vedove, agli orfani, ai malati, andandosi a situare in realtà più sotto il regime delle strategie di controllo sociale, che sotto quello più specifico delle pratiche penali, come giustamente notano Canosa e Colonnello: "Il carcere invero, (…) è sempre stato connesso con la commissione di un reato e ha rappresentato la risposta della collettività a questo (…). Gli alberghi dei poveri e in genere tutte le forme di internamento "assistenziale" si sono sempre mosse invece su un piano diverso, di tipo amministrativo, dal quale, nella stragrande maggioranza dei casi, è sempre stato esente ogni elemento di sanzione penale, con tutto quello che ne consegue (custodia preventiva, giudizio, condanna, pena). Se anche esse sono assai spesso "coercitive" (ed è innegabile che lo sono) si tratta tuttavia di una coercizione assai diversa da quella carceraria e rivolta a finalità di polizia" (13) . Resta innegabile però che tale tradizione si sia poi in qualche modo innestata nel processo di affermazione del sistema carcerario moderno sopra descritto, generando in questo contatto situazioni di vera e propria commistione istituzionale, per cui nella medesima struttura si ritrovavano carcerati "corrigendi" e condannati alla galera, internati e reclusi, in una confusione che di fatto anticipava la sovrapposizione giuridica delle due categorie. Esemplare in questo senso il caso della casa di correzione di Milano, del cui stato i responsabili così si lamentavano presso il governo asburgico in una lettera del 1768: "Potrà facilmente V.A.S. col superiore suo discernimento vedere i mali che tale mischianza deve produrre , e quali funesti discorsi, quali male arti possano dè teneri giovinetti già piegati al male apprendere da ladri, da facinorosi e pessimi uomini quali lo sono i condannati al travaglio pubblico"(14). L'anno dopo tuttavia la questione viene risolta con un provvedimento che commuta ogni due anni di condanna alla galera con tre da scontarsi in casa di correzione, assorbendo così ogni contrasto sotto il segno di una concezione onnicomprensiva della pena come trattamento rieducativo, e non più come supplizio didascalico.
Par. 2: Il secolo XX
Per la particolare situazione politica italiana, il vasto movimento di riforme sopra descritto non può che assumere, lungo tutto l'arco dell' Ottocento, caratteristiche di dispersione e frammentarietà. Sarà solo successivamente alla proclamazione dell'unità che si arriverà ad un testo unico di riferimento: il codice penale Zanardelli del 1889, in cui però confluiranno anche tutte le contraddizioni di un sistema carcerario ancora in stato di sperimentazione. Per quanto infatti nella relazione introduttiva lo stesso Zanardelli esprima una visione rieducativa della pena ("E tutto ciò si ispira sempre all'alto e vero concetto della legge penale che non ha soltanto ufficio di intimidire e di reprimere, ma eziando di correggere ed educare"), (15) tali dichiarazioni non si traducono a livello pratico che in alcuni articoli del Regolamento carcerario emanato da F. Crispi nel 1890, dal contenuto oltretutto piuttosto vago, come il 46, che parla in termini generici di "riforma morale", ed il 67, che a tale scopo fa "obbligo precipuo al direttore di mettere ogni studio nel conoscere il carattere morale dei detenuti" (16). Quanto al resto, sostanzialmente, si può concludere con Solivetti (1985) e Patrizi (1996), che non vengano apportati cambiamenti di rilievo, e le condizioni delle prigioni continuino ad essere dominate da un clima assolutamente oppressivo ed afflittivo, come d'altronde ammetteva la stessa Direzione generale delle carceri, nella relazione al decreto n.484 del 1903: "l'intento della riforma -scontato un generico fine umanitario e pietistico- non è di mutare il fondamento del sistema disciplinare, ma semplicemente di razionalizzarlo, eliminando alcune infrazioni e punizioni che non avevano dato buona prova e introducendone altre di cui si era avvertita l'esigenza, in modo da snellire la complessa materia e renderla di più facile interpretazione e applicazione (17).
La seconda grande riforma del sistema penale italiano avviene in età fascista con il codice Rocco ed il relativo Regolamento per gli Istituti di Previdenza e Pena del 1931. Viene introdotto un regime differenziale che prevede una progressione nelle forme di detenzione, basata sull'osservazione e sull'individualizzazione del trattamento, riservata però solo ai prigionieri aprioristicamente giudicati "recuperabili", mentre agli "incorreggibili" vengono ancora riservate colonie penali e lavori forzati, con condanne a tempo indeterminato. Si rompe perciò definitivamente con la tradizione illuministica della segregazione cellulare, per introdurre "un sistema complesso di classificazione, una tassonomia di comportamenti interni ed esterni, la cui unità di misura è formalmente la gravità del reato. Ma la cura disciplinare non si applicherà tanto al reato, alle sue cause, quanto alle manifestazioni asociali, criminali, disgregatrici, che esso introduce nel soggetto che delinque" (18), e che in ultima analisi costituiscono il più attendibile indice dell'adattabilità del recluso rispetto ai valori richiesti dal regime fascista. Emblematico in questo senso il caso dell'amnistia totale concessa per qualsiasi tipo di reato, ma solo a persone che "avevano delinquito per fine nazionale" (decreto del 22 dicembre 1922). Risulta allora più che mai evidente in questa fase storica del sistema carcerario italiano l'isomorfismo rispetto ai meccanismi che contraddistinguevano la concezione religiosa del reato nel mondo ellenistico, analizzati nella prima parte di questo lavoro: "Il principio di identificazione del recluso pentito con la coscienza e la volontà del popolo, di cui il Regime si proclama incarnazione, viene dato per scontato dal regolamento Rocco. L'intera struttura del carcere fascista, in certo qual modo, è quindi concepita per scrutare, evidenziare e stimolare i segni del ravvedimento e le manifestazioni di sottomissione del peccatore alla Autorità Laica-Lo Stato che la concezione etica ha ri-sacralizzato" (19).
L'esigenza di rinnovare il sistema penitenziario in effetti emerse sin dal dopoguerra, in accordo con i dettami della nuova Costituzione repubblicana, che all'art. 27, 3° comma, dispone che "le pene non possono consistere in un trattamento contrario al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Pertanto già nel 1947 fu insediata dal Ministero di Grazia e Giustizia una apposita commissione, ma soltanto nel '60 si pervenne alla formulazione del primo disegno di legge, firmato da Gonella, che a sua volta tra emendamenti, ratifiche e ristesure, si trascinò tra Camera, Senato e commissioni parlamentari per altri quindici anni. Ufficialmente dunque la terza riforma verrà infine approvata il 26 luglio 1975 con la legge n. 354.
Par.3: La legislazione attuale
Sin dall'articolo 1 della 354/75, che sottolinea sia il genere "rieducativo del trattamento che tenda al reinserimento sociale", sia la "individualizzazione del trattamento in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti", è subito chiaro che del codice Rocco viene rilanciato l'impianto differenziale, sviluppandolo attraverso l'inserimento di una serie di figure che possano fornire un più aggiornato supporto scientifico alla ricorrente istanza correzionale, che lega in maniera sempre più stretta psicopatologia e istituzione carceraria. E' in quest'ottica che vengono per la prima volta legittimati spazi di intervento specifici per la psicologia. All'art. 13 infatti viene "predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale". Vale la pena di sottolineare come già queste poche righe evidenzino il rapporto di meccanicismo causale, di derivazione lombrosiana, che la concezione clinica dell'ordinamento penitenziario (20) necessariamente sottende tra "disadattamento sociale" e "carenze fisiopsichiche". Difatti, prosegue l'art. 13, "in base ai risultati dell'osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma". Inoltre l'art. 16 precisa che "Le modalità del trattamento da seguire , in ciascun istituto, sono disciplinate nel regolamento interno, che è predisposto e modificato da una commissione composta dal magistrato di sorveglianza, che lo presiede, dal direttore, dal medico, dal cappellano, dal preposto alle attività lavorative, da un educatore e da un assistente sociale", e che può a tal fine fare riferimento al 4° comma dell'art. 80: "Per lo svolgimento delle attività di osservazione e trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica".
Si noti per inciso come il ricorso a tali esperti non sia dunque prescritto, ma solo suggerito, delineandone ruolo e funzioni in modo del tutto approssimativo (21), come risulta anche dall'esame del Regolamento di Esecuzione: art. 1, "Il trattamento di imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nella offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali (…) è diretto inoltre a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale"; art. 4 "Gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e collaborazione. A tal fine, gli Istituti penitenziari e i Centri di servizio sociale, dislocati in ciascun ambito regionale, costituiscono un complesso operativo unitario, i cui programmi sono organizzati e svolti con riferimento alle risorse della comunità locale"; art. 27, "L'osservazione scientifica della personalità è diretta all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio alla instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini dell'osservazione si provvede all'acquisizione di dati biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. All'inizio della esecuzione l'osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato o dell'internato, a desumerne elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento, il quale è compilato nel termine di tre mesi. Nel corso del trattamento l'osservazione è rivolta ad accertare, attraverso l'esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione dl programma di trattamento"; art. 28, "L'osservazione scientifica della personalità è espletata di regola, presso gli stessi Istituti dove si eseguono le pene e le misure di sicurezza. Quando si ravvisa la necessità di procedere a particolari approfondimenti, i soggetti da osservare sono assegnati, su motivata proposta della direzione, ai centri di osservazione. L'osservazione è condotta da personale dipendente dall'amministrazione, e secondo le occorrenze, anche dai professionisti indicati (…). Le attività di osservazione si svolgono sotto la responsabilità del direttore dell'istituto e sono dal medesimo coordinate"; art. 29, "La compilazione del programma di trattamento è effettuata da un gruppo presieduto dal direttore e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di osservazione indicate"; art. 120, "Il Ministero compila, per ogni Distretto di Corte d'Appello, un elenco degli esperti dei quali la direzione degli Istituti e dei Centri di servizio sociale possono avvalersi per lo svolgimento delle attività di osservazione e trattamento".
Da questa breve rassegna si evince innanzitutto il ruolo di completa subordinazione dell'esperto rispetto alla totale discrezionalità della direzione dell'Istituto nella definizione del programma di trattamento, sulla base del quale, occorre ricordarlo, si stabiliscono in pratica le condizioni di vita del detenuto, attraverso l'applicazione di particolari sanzioni disciplinari o ricompense (22), che possono arrivare sino alla concessione di misure alternative alla detenzione (23). In questo senso l'arbitrarietà giuridica intrinseca all'impianto differenziale della legge ha subito un'evoluzione formale: dalla facoltà di repressione originariamente prevista dall'art. 90, che prevedeva per il Ministro di Grazia e Giustizia "la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l'applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possono porsi in contrasto con le esigenze di sicurezza" (24), si è passati al regime di premialità della riforma Gozzini (legge n. 663/86), con il risultato di fornire strumenti nuovi, certamente meno cruenti ma non meno pervasivi, ad immutate strategie di controllo: "Ma da quando c'è la nuova legge penitenziaria del 1986, credo che nel complesso i pestaggi siano diminuiti. Ora esiste il rapporto della guardia in base al quale il consiglio di disciplina potrà punirti intervenendo sul tuo diritto alle telefonate, colloqui, socialità, ecc. Ma soprattutto, andando l'episodio della punizione a finire nel tuo fascicolo, il tribunale di sorveglianza ne terrà conto per valutare se la tua personalità è migliorata o no. Il permesso premio, i giorni di liberazione anticipata, la concessione della semilibertà ecc., sono benefici premiali che possono esserti tolti sulla base di quei rapporti (…) Il premio sancisce per legge il regno della non legge, il modo in cui il carcere si rende completamente autonomo dal mondo di coloro che hanno giudicato, il momento in cui ci si occupa del delinquente a prescindere dal reato" (23). Maggiore pervasività dei nuovi strumenti di controllo, che riesce a produrre effetti stigmatizzati anche dal Manuale di diritto penitenziario (Canepa e Merlo, 1993): "Nel contempo l'attuazione di strumenti nuovi ed applicabili in via giurisdizionale, o comunque con atti formali (permessi, liberazione anticipata, misure alternative) ha, di fatto, ottenuto il risultato di azzerare, o comunque di attenuare fortemente la spinta alla protesta dei detenuti, offrendo in tal modo all'Amministrazione la possibilità di mascherare le gravi e perduranti carenze delle strutture e dell'organizzazione". Da una pedagogia fondata sulle punizioni, ad una fondata sulle ricompense: "Quel che è storicamente variabile nei sistemi penitenziari non è quindi l'essenza correzionale, disciplinare, ma le metodiche scelte per ottenere il risultato" (25).
Al di là del fondamento scientifico di questo procedimento rieducativo, che sarà analizzato nei prossimi capitoli, si vuole qui sottolineare in conclusione come l'attuale formulazione legislativa si presenti problematica innanzitutto sul piano del diritto, instaurando di fatto un divario tra la pronuncia della sentenza in fase processuale e la sua effettiva esecuzione, entro cui si inserisce pericolosamente la monocraticità della magistratura di sorveglianza: "Ne sono rimasti incrinati i principii della certezza, dell'eguaglianza, della prevedibilità e della uniformità della pena detentiva, che invece ancora sorreggono la fase in cui la pena è applicata dal giudice di cognizione" (26).
NOTE
(1): In Débats du Congrès pénitentiaire de Bruxelles, Deltombe, Bruxelles, 1847, pag. 20.
(2): Cit. in Canosa, R., Colonnello, I. (1984), Storia del carcere in Italia dalla fine del '500 all'unità, Sapere 2000, Roma, pp.188-189.
(3): Filangieri, G. (1784), La scienza della legislazione, G. Vitto, Venezia, tomo IV, pag. 70.
(4): Romagnosi, G. D. (1831), Genesi del diritto penale, in Opere edite ed inedite di G. Domenico Romagnosi nel diritto penale, volume unico, parte prima, Perelli e Mariani editori, Milano, pag. 449.
(5): Canosa, R., Colonnello, I., op. cit., pag. 142.
(6): Cattaneo, C. (1840), Di varie opere sulla riforma delle carceri, in Il Politecnico-Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e cultura sociale, vol. III, pag. 557.
(7): Belviso, M., Ferrigno, C., Scapati, F. (1981), Il ruolo dell'esperto in criminologia clinica ex art. 80, comma 4, legge 26 luglio 1975 n. 354, in Rassegna di Criminologia, vol. XII, Fasc. 2.
(8): Riportata in Annali di Giurisprudenza, Torino, Tomo VIII, 1841, pag. 333, cit. in Canosa, R., Colonnello, I., op. cit., pag.152.
(9): Beltrani Scalia, M. (1867), Sul governo e sulla riforma delle carceri in Italia, G. Favale e C., Torino, Pag. 424.
(10): Beltrani Scalia, M. (1879), La riforma penitenziaria in Italia: studi e proposte, Tipografia Artero e C., Roma, pag. 48.
(11): V. Canosa, R., Colonnello, I., op. cit., pp. 161 e seg. Si noti come tale dato evidenzi l'assoluta estraneità di ogni funzione produttiva dalle varie pratiche di lavori forzati succedutesi nella storia del carcere in Italia, a differenza per esempio di quanto avvenuto nelle workhouses inglesi, come d'altronde dimostra già G. Neppi Modena nella prefazione a Melossi, D., Pavarini, M. (1977), Carcere e fabbrica-Alle origini del sistema penitenziario, Il Mulino, Bologna.
(12): Beltrani Scalia, M., op. cit., pag. 14.
(13): Canosa, R., Colonnello, I., op. cit., pag. 108.
(14): Archivio di Stato di Milano, fondo uffici giudiziari P.A., cartella 207.
(15): Cit. in Di Gennaro, G., Bonomo, M., Breda, R. (1980) Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, pag. 21.
(16): Ibidem, pag. 22.
(17): Neppi Modena, G. (1973), Carcere e società civile, in Storia d'Italia, V, II, Einaudi, Torino.
(18): AA.VV. (1979), Il carcere imperialista, Bertani editore, Verona, pag. XIX.
(19): Gallo, E., Ruggiero, V. (1983), Il carcere in Europa, Bertani editore, Verona, pag.105.
(20): Serra, R. (1987), Lo psicologo e il carcere, in Gulotta, G. Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano, pag. 1081.
(21): Pantosti, G., Pellegrini, E. (1989), Fare lo psicologo nel sistema penitenziario per gli adulti, in De Leo, G. Lo psicologo criminologo-La psicologia clinica nella giustizia penale, Giuffrè, Milano, pp. 16 e seg.
(22): Rientrano nella prima categoria: richiamo, ammonizione, esclusione da attività ricreative e sportive, isolamento; nella seconda: encomio, visite speciali dei parenti, proposte di misure alternative alla detenzione, e proposta di grazia.
(23): V. in particolare gli articoli 47 e 50, relativi all'affidamento in prova ai servizi sociali, e al regime di semilibertà, per cui è esplicitamente richiesto l'intervento dell'esperto: "il provvedimento è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta per almeno un mese in istituto"; e "L'ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società".
(24): Per quanto originariamente previsto soltanto "per gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza" , l'art. 90 in realtà verrà applicato tramite proroghe successive initerrottamente dal 1981 al 1984.
(25): Guagliardo, V. (1997), Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie, Roma, pag. 37.
(26): Neppi Modena, G. (1993), voce: carcere in AA. VV., Enciclopedia del diritto, Garzanti, Milano, pag.220. Ma su questo particolare punto cfr. Marotta, G., Bueno Arus, F. (1989), Le basi giuridiche del trattamento penitenziario, in Ferracuti, F. (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. XI, Carcere e trattamento, Giuffrè, Milano.
Capitolo secondo:
SCIENZE SOCIALI E DIRITTO PENALE: NASCITA DELLA PSICOLOGIA PENITENZIARIA
Par. 1: La Scuola Positiva
A non più di vent'anni fa si può far risalire l'ingresso ufficiale della psicologia in contesto penitenziario (1), ma scienze sociali quali l'antropologia, la criminologia, la psichiatria e la biologia, anticipandola di oltre un secolo, hanno segnato quel processo di recupero dell'istanza correzionale carceraria avvenuto a metà Ottocento, descritto nel capitolo precedente, contribuendo in maniera determinante a mutarne la connotazione da religiosa a scientifica.
Entrambe queste concezioni possono essere rintracciate nell'opera di Martino Beltrani Scalia, che di tale processo può essere infatti considerato un antesignano. Ispettore generale delle carceri dal 1864 al 1879, consulente di ben tredici commissioni governative di riforma, fu uno strenuo sostenitore del modello "progressivo", sperimentato in Irlanda già dal 1830, che consisteva nell'applicazione mista del metodo filadelfiano e di quello auburniano, a seconda appunto del percorso di riabilitazione di ogni singolo detenuto. In un lungo elenco degli argomenti in favore di tal modello, così egli si esprime: "Che se la pena deve punire ed emendare ad un tempo – ferire e sanare come la lancia di Achille, il sistema cellulare che serve benissimo al primo scopo, non può servire al secondo (…) Che se è indispensabile di conoscere il carattere di un condannato, non solo per quel che riguarda la disciplina carceraria cui sottoporlo, ma per rendere conto di lui al momento della sua liberazione, nessun sistema risponde meglio del progressivo (…) Che se lo scopo precipuo di un sistema penitenziario è quello di fare rinascere nei condannati i sentimenti della religione, ciò si ottiene a preferenza nel sistema progressivo, che raccoglie tutti insieme i reclusi, nel cui animo si fa più prontamente strada la parola del cappellano quando sia accompagnata dalla gravità del tempio, dalla solennità della cerimonia religiosa, da quell'insieme che ispira raccoglimento e rispetto anche a coloro che non credono" (2). Erede di una tradizione confessionale del trattamento penitenziario, Beltrani Scalia rappresenta il momento di passaggio verso le nuove tesi della Scuola Positiva, cui fa diretto riferimento nel medesimo testo: "in Italia sono noti, tra gli altri, gli scritti dell'Herzen, del Ferri, del Lombroso, del Poletti ecc.; e che quelle idee si facciano strada, risulta persino da' discorsi inaugurali de' nostri procuratori generali delle Corti d'Appello" (3). In cosa poi consistano queste idee, è lui stesso a spiegarlo: "Una scuola moderna, facendo tesoro delle scienze sperimentali, intende a trovare numerosi punti di confronto tra delinquenti e selvaggi – tra delinquenti e pazzi (la capacità cranica, i caratteri esterni della testa, la dimensione dell'angolo facciale, il linguaggio, la religione, l'intelligenza, l'attitudine morale al lavoro, ecc. ecc.)" (4). Ecco dunque l'antica empietà platonica, ancora ben viva nella concezione della pena carceraria che dimostra l'autore, trovare nuove formule di codificazione nelle categorie patologiche del naturalismo criminologico, il cui progetto è la fondazione di una tassonomia criminale basata sulla tripartizione lombrosiana fra delinquenti per natura, per occasione, e per passione, cui far corrispondere diverse misure di sicurezza che vanno dal manicomio giudiziario ai sostitutivi penali proposti da Ferri (5). Da tale impostazione, Beltrani Scalia assume senz'altro il convincimento della necessità di uno studio approfondito del reo, come si evince dalla memoria inviata al Congresso di Cincinnati nel 1870 (6), dove vengono sanciti definitivamente una serie di principii fondamentali del trattamento carcerario, tra cui appunto quello della finalità rieducativa dell'espiazione penale, strettamente collegata allo studio del rapporto tra psicopatologia e delitto. In Italia tali principii, divulgati dalla Rivista di discipline carcerarie (sul cui primo fascicolo del 1871 era pubblicato un intervento di Lombroso) fondata da Beltrani Scalia, saranno acquisiti ufficialmente in occasione del Congresso Internazionale Penitenziario di Roma del 1885. Questi enunciati teorici resteranno però a lungo limitati a congressi e riviste, del tutto estranei come si è visto alla pratica amministrativa regolamentata dalla concezione ancora retributiva del codice Zanardelli, sino a confluire nel 1921 nel "progetto Ferri", dal nome del Presidente della Commissione per la riforma delle leggi penali istituita su incarico del Ministro della Giustizia Mortara. Il fallimento di questo progetto, che segna il tramonto della Scuola Positiva, sostanzialmente può essere ricondotto all'assunzione di un modello causale di tipo meccanicistico nella spiegazione del fenomeno criminale, che a livello penale implicava il passaggio "dal sistema morale della pena a quello sociale della sicurezza; dalla garanzia di una pena certa all'indeterminatezza delle misure secondo la necessità del trattamento; infine, con la sostituzione del concetto di pericolosità sociale a quello di colpa, l'introduzione di misure preventive in funzione non del delitto commesso, ma della prevedibilità di un delitto futuro" (7). Contro tale avanguardistica impostazione, insorsero svariate reazioni: la Scuola Classica di diritto vi lesse una negazione della responsabilità giuridica, ed il mondo accademico cattolico una negazione della responsabilità morale. Autorevole esponente di quest'ultima posizione fu Agostino Gemelli, attraverso i cui scritti si può cercare di sintetizzare la situazione: "Sta adunque a base della Scuola Positiva una generalizzazione illegittima e infondata, la quale, per la opposizione che ha destato in tutti coloro che, o per convinzioni religiose, o per convinzioni filosofiche, o per indirizzo di scuole giuridiche, non sapevano rassegnarsi a negare la libertà umana, ha finito per nuocere allo stesso progresso delle scienze criminalistiche, perché ha impedito che fosse accettata da tutti pacificamente ciò che di vivo vi era nella scuola stessa" (8). Forse non proprio "pacificamente" come auspicava Gemelli, comunque il fascismo finì coll'adottare, all'interno del codice Rocco, molti dei dettami della vecchia antropologia criminale.
Par.2: La Terza Scuola
Certa bibliografia vorrebbe leggere nell'avvento del regime fascista l'estromissione della psicologia da qualsiasi ambiente culturale (9), quasi a rivendicare la democraticità della disciplina attribuendole un ruolo politico di resistenza ante litteram. Tuttavia, almeno per quanto riguarda i rapporti tra psicologia e diritto, i dati storici sembrano andare in tutt'altra direzione. Emblematico in questo senso il caso succitato di Gemelli: definito da Mecacci "Fine mediatore nei rapporti tra la Chiesa e il fascismo", Rettore dell'Università Cattolica di Milano lungo tutto l'arco del ventennio, vi istituì nel 1921 un laboratorio di psicologia, pochi anni dopo un centro per studi carcerari, e nel 1940 un centro sperimentale di psicologia applicata. Il suo contributo allo sviluppo dell'applicazione delle scienze sociali nell'ambito carcerario consta sopratutto di una fondamentale precisazione metodologica riguardo alle diverse competenze di antropologia criminale e psicologia: "L'antropologia criminale, spogliata dai suoi pregiudizi filosofici che la inquinavano, può ritornare al compito modesto di studiare quella limitata categoria di delinquenti il delitto dei quali è frutto di una costituzione morbosa, lasciando alle altre discipline, e in primo luogo alla psicologia, lo studio di tutta la grande massa dei delinquenti e la grande parte dei delitti" (10). La specificità del metodo psicologico è intesa qui come recupero di una prospettiva di studio basata sull'unicità dell'individuo, contro il determinismo naturalista della Scuola Positiva: si assiste così al passaggio da un modello sperimentale – nomotetico, le cui leggi generali si ponevano come comprensive del fatto giuridico, ad un modello clinico – idiografico, il cui ruolo si profila evidentemente ausiliario rispetto all'esercizio del diritto. Si ridefiniscono perciò i rapporti tra i due campi, dalle proposte di prevenzione sociale del progetto Ferri, si arriva alla delineazione di un intervento operativo esclusivamente interno alle linee già demarcate dalla legislazione: "gli psicologi non debbono presupporre nessuna filosofia, ma mantenersi sul terreno positivo dei fatti, lasciando al filosofo e al giurista costruire la dottrina della natura del delitto e della funzione della pena" (11). Si noti che per questa via la subalternità dello psicologo non si costituisce solo nei confronti del giudice, ma anche dell'amministrazione penitenziaria. I suoi compiti sono infatti così descritti da Gemelli: "Offrire al giudice gli elementi di fatto nell'analisi dell'azione delittuosa e nella determinazione del processo attraverso il quale l'individuo è arrivato al delitto, affinché il giudice possa valutare questa azione delittuosa; fornire poi a chi dirige la casa di pena gli elementi diagnostici perché il delinquente, nel mentre soddisfa il debito della giustizia offesa, possa essere rieducato e restituito alla società in condizioni di poter assolvere i doveri della sua vita" (12). Questo compromesso tra psicologia e diritto viene accolto dall'eclettismo della Terza Scuola, in cui alla predominanza del tecnicismo giuridico viene subordinata l'individualizzazione del trattamento proposta dal modello idiografico, concretizzandosi nel sistema del doppio binario espresso nel Codice Rocco: al binomio di derivazione classica responsabilità individuale / pena retributiva, si sovrappone quello di derivazione positiva pericolosità sociale / misura di sicurezza (13). L'assunto principale di questo nuovo orientamento penalistico è così espresso nelle parole di uno dei suoi maggiori esponenti: "La scienza ci dice che il delitto non si sottrae alla legge universale della causalità. La coscienza invece ci dice che il delitto è l'effetto della nostra volontà, e che noi ci sentiamo responsabili perché liberi. Chi ha ragione? Entrambe" (14). Nell'ambito di questo scenario, mentre il fascismo inaugurava la sua politica penitenziaria con il regio decreto n. 1718 del 31 dicembre 1922, che trasferiva la Direzione generale delle carceri e dei riformatori dal Ministero dell'Interno al Ministero della Giustizia (15), negli stessi anni vengono istituiti nelle prigioni del Regno i primi Servizi di Antropologia Penitenziaria, ad opera di Di Tullio (16), il cui obiettivo di indagine della personalità del detenuto viene perseguito attraverso l'uso di quegli schemi organicistici di ordine medico-psichiatrico, che in definitiva costituiscono il lascito della Scuola Positiva più funzionale alla gestione fascista delle carceri: "le disfunzioni ormoniche non creano sensi di colpa e sopratutto non impongono modifiche dell'assetto sociale, le carenze neurovegetative possono essere curate senza che la terapia vada a toccare il terreno della giustizia sociale" (17). Non è un caso, insomma, che la disciplina denominata da Ferri nel 1910 psicologia carceraria, venga ribattezzata in questo periodo psicologia correzionale. Il passo successivo sarà la dizione, che segna l'evoluzione scientifica del trattamento raggiunta con la riforma del 1975, di psicologia rieducativa (18).
Par. 3: La situazione attuale
Le soluzioni della Terza Scuola resteranno praticamente indiscusse sino agli anni cinquanta, e la prima vera sede di discussione, il "Convegno Nazionale di alcune tra le più urgenti riforme della procedura penale", tenutosi nel 1953 tra Bellagio e Milano, non farà che aggiornarne le tematiche rispetto agli sviluppi delle discipline psicologiche, nella fattispecie rappresentati sopratutto dalla psicoanalisi e dai metodi proiettivi. Nel 1956, un anno dopo l'approvazione da parte dell'O.N.U. del testo sulle regole minime per il trattamento dei detenuti, che sancisce definitivamente il modello clinico del trattamento, introducendo i termini di rieducazione e reinserimento sociale, la psicologia fa il suo ingresso ufficiale nelle istituzioni reclusive, ma solo del settore minorile, con la legge n. 1441. Nel 1958 si cercherà di estendere l'esperienza anche al settore adulti, istituendo a Rebibbia un Centro di Osservazione con precise finalità psicodiagnostiche, che fungerà da laboratorio di sperimentazione per l'introduzione in carcere della figura dell'"esperto", regolamentata infine dagli articoli 1 e 80 della riforma del '75, citati in II parte, primo cap., 3° par. di questo lavoro, ove si è introdotto il problema dell'arbitrarietà giuridica della normativa: vale qui la pena di notare come tale problema si esprima anche nella definizione della figura dell'esperto. Innanzitutto per l'ampiezza delle specializzazioni professionali indicata (psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica), la cui selezione già introduce il carattere di opzionalità della scelta da parte dell'Amministrazione, senza che ne risultino né chiari né tantomeno omogenei i criteri sottostanti. Se si considera poi che tra il momento selettivo e quello operativo non è previsto alcun percorso formativo, risulta evidente come nella pratica tale ruolo possa essere fonte di notevole confusione, sopratutto nell'interazione con altre figure professionali cui rischia di sovrapporsi. Anche prescindendo però della complessità dei criteri di scelta dell'esperto, bisogna considerare che l'Amministrazione può anche decidere di non compiere affatto tale scelta, di cui è sancita l'obbligatorietà esclusivamente in relazione all'applicazione del regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell'art. 14-bis dell'Ordinamento Penitenziario. Per esempio, nella composizione della commissione che è a tutti gli effetti garante della validità clinica del trattamento, ai sensi dell'art. 16, la presenza dell'esperto è solo suggerita. Prescritta, invece, quella del cappellano. Cosa che peraltro non dovrebbe stupire, visto che in base all'art. 15, la religione è considerata un elemento fondamentale del trattamento. Curiosamente, il legislatore omette di specificare quale tipo di religione, non potendo d'altronde prevedere che vent'anni più tardi le carceri italiane sarebbero state in gran parte occupate da extracomunitari. Al di là dei paradossi, se si considera il percorso storico descritto nei paragrafi precedenti, che ha portato la psicologia a svolgere una funzione eminentemente ausiliaria nei confronti del diritto (e non solo di quello penitenziario o penale) (19), non si può non ritenere legittima la seguente osservazione (De Leo, 1989): "Sorge il dubbio che, al di là di una formale preoccupazione garantista, l'utilizzazione del parere degli esperti in merito assuma il significato di una copertura tecnico-scientifica alla funzione ideologica di questo meccanismo sanzionatorio che mira all'adattamento del detenuto alle regole del controllo e dell'ordine istituzionale".
NOTE
(1): V. Patrizi, P. (1996), Psicologia giuridica penale. Storia, attualità, prospettive, Giuffrè, Milano, pag. 20.
(2): Beltrani Scalia, M. (1879), La riforma penitenziaria in Italia: studi e proposte, Tipografia Artero e C., Roma, pp.128-129.
(3): Ibidem, pag. 212.
(4): Ibidem, pag.217.
(5): V. Ferri, E. (1892), Sociologia criminale, Bocca, Torino, pp. 89-109, così riassunte in Patrizi, op. cit., pag. 147: "I provvedimenti proposti riguardano l'ordine economico, politico, scientifico, civile e amministrativo, religioso, familiare, educativo. Qualche esempio: diminuire le tariffe doganali per evitare il contrabbando; impiegare gli indigenti nei lavori delle opere pubbliche a contenimento dei reati contro la proprietà; la libertà di pensiero contro i reati di stampa".
(6): V. Bavaro, V. (1956), Proposte per una riforma carceraria in Italia, Arti Grafiche Mario Vimercati, Milano.
(7): Patrizi, op. cit., pag.7. Cfr. in proposito anche Manheim, H. (1965),Trattato di criminologia comparata, Einaudi, Torino.
(8): Gemelli, A. (1948), La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psicologici, Giuffrè, Milano, pag. 11.
(9): Cfr. Cesa Bianchi, M. (1994), Psicologia generale e psicologia giuridica, Contributi di ricerca in Psicologia e Pedagogia, 3, 1994, pp. 39-42.
(10): Gemelli, A. (1936), Metodi, compiti e limiti della psicologia nello studio e nella prevenzione della delinquenza, Vita e Pensiero, Milano, pag.149.
(11): Gemelli, A. (1948), op. cit., pag. 136.
(12): Gemelli, A. (1936), op. cit., pag.148.
(13): V. De Leo, G. (1989), Lo psicologo criminologo. La psicologia clinica nella giustizia penale, Giuffrè, Milano, pag.15.
(14): Alimena, B., (1911), Note filosofiche di un criminalista, Modena, Formiggini, pag. 90.
(15): "Il provvedimento, emanato a poche settimane dall'avvento del fascismo al potere,assume un carattere punitivo nei confronti della politica perseguita nell'ultimo biennio dalla Direzione generale, dalle sue follie positiviste, abilmente strumentalizzate come sintomo della bolscevizzazione del settore": Fassone, E., (1980), La pena detentiva in Italia dall'880 ad oggi, Il Mulino, Bologna, pag. 54.
(16): Cfr. Di Tullio, B. (1928), La costituzione delinquenziale nella eziologia e terapia del delitto, Anonima Editoriale Romana, Roma; e (1946), Medicina pedagogica emendativa, OET, Roma.
(19): Fassone, E., op. cit., pag. 51.
(20): V. in proposito Gulotta, G. (1979), La psicologia giuridica: un’introduzione, in G. Gulotta (a cura di), Psicologia giuridica, Angeli, Milano.
(21): V. De Leo, G. (1995), Oggetto, competenze e funzioni della psicologia giuridica, in A. Quadrio, G. De Leo (a cura di), Manuale di Psicologia Giuridica, LED, Milano.
Capitolo terzo:
ANALISI DELLA PSICOPATOLOGIA PENITENZIARIA
Premessa:
Rifacendosi a quanto esposto nella parte introduttiva di questo lavoro, riguardo l'individuazione di tre condizioni minime per l'esistenza di una struttura, si può notare come sinora ci si sia soffermati soprattutto sull'analisi della forma-contenuto prigione, ovvero sull'evoluzione storica dei modelli che ne hanno sviluppato l'intrinseca funzione correttiva. Quanto al corrispettivo oggetto corrigendo, la forma-espressione psicopatologia, se ne è soltanto brevemente accennato. Questi cenni già introducono però una fondamentale distinzione: si è visto che sia in epoca greca che romana, il limite della mania in un caso, o del furor nell'altro, costituiscono il limite d'applicazione della pena detentiva, oltre il quale al prigioniero, non considerato più recuperabile, viene infine riservata altra sorte, come magistralmente rappresentato nella tragedia eschilea. Quest'area estrema della punibilità, anch'essa evolutasi storicamente sino a raggiungere l'odierna formula della "capacità di intendere e volere" dell'art. 85 del C.p., nonché la fondazione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (entrambi lasciti della Terza Scuola, tuttora in vigore, per quanto corretti dal nuovo C.p.p. (1)), resta pertanto per definizione al di fuori di questa indagine, esclusivamente limitata al contesto carcerario. In questo senso si può dire che tale limite definisca anche i diversi ambiti di competenza della psicologia penitenziaria da una parte, e della psichiatria forense dall'altro.
Restando dunque all'interno della psicopatologia penitenziaria, si può introdurre allora un'ulteriore differenziazione, delineando due percorsi concettuali che partendo dal medesimo segno clinico, ne costruiscono interpretazioni tra loro opposte. Secondo il primo ogni manifestazione patologica che avvenga all'interno del carcere è comunque riconducibile a fattori individuali, indipendenti da ogni influenza contestuale, se non nei termini dell'innesco di una predisposizione comunque soggiacente. Sintesi a posteriori di kantiana memoria, questo schema risulta del tutto alieno da qualsivoglia possibilità di confutazione empirica: "Naturalmente la negatività dell'anamnesi socio-familiare, unita alla mancanza di manifestazioni cliniche durante il periodo precedente, non deve indurre a postulare la patogenicità causale della struttura penitenziaria, semmai a nostro avviso, il ruolo patoplastico dello spazio carcerario che attiva, o se vogliamo mette in risonanza, quei tratti peculiari preesistenti nella struttura di personalità dell'individuo. L'evento carcerario, nell'impatto con il mondo psichico dell'individuo, può dunque produrre delle fratture laddove già preesistevano delle crepe nell'organizzazione personologica, e dare luogo a fenomeniche cliniche in un certo senso obbligate" (2). L'equiparazione reo-folle rischia di divenire così un puro circolo tautologico, laddove nel secondo percorso, invece, viene considerata proprio come conseguenza diretta della condizione carceraria, sulla base di una valutazione contestuale del processo eziologico. Tale valutazione ha prodotto il concetto, ormai classico, di prisonizzazione. Il termine è stato introdotto in letteratura negli anni '40, da Clemmer (3), intendendo "l'assunzione, in grado minore o maggiore, delle abitudini, degli usi, dei costumi e della cultura prevalente della prigione", attraverso un "processo di assimilazione da parte dell'internato di questo insieme di norme e valori circoscritto ad una micro-società artificiale (…) e dal quale è ben difficile rimanere esclusi, perché investe interamente più piani di esistenza, dai bisogni di sopravvivenza fisica, alle dimensioni fantasmatiche". Il concetto viene poi accolto e sviluppato in ambito sociologico a partire da Goffman (4), che lo descrive come un duplice processo di destrutturazione della personalità precedente del detenuto, attraverso la privazione delle tre sfere principali d'interesse (lavoro, famiglia, divertimento), e di ristrutturazione di un'identità funzionale al sistema disciplinare carcerario, attraverso l'assoggettamento ad una serie di regole e procedure che governano ogni aspetto della vita interna dell'istituzione. Il punto fondamentale è che tale processo, lungi dal coincidere nemmanco con un'ipotesi di risocializzazione rispetto alla vita esterna, essendo del tutto autoreferenziale, non può che produrre effetti di grave alterazione sulle normali funzioni psicologiche dell'individuo.
Nel primo caso abbiamo dunque una malattia che necessariamente implica il carcere, nel secondo un carcere che necessariamente implica la malattia. S'è visto come entrambe queste visioni derivino, in Italia, dalla diffusione del sistema carcerario moderno nel secolo XIX, che ponendosi proprio come momento di passaggio da una concezione clerico-penitenziale a scientifico-penitenziaria della prigione, abbia introdotto da una parte le discussioni sulla nocività del sistema filadelfiano rispetto a quello auburniano, dall'altra i paradigmi organicisti dell'antropologia criminale. Si vedrà nei prossimi paragrafi, in una breve rassegna, come vengano affrontate queste tematiche nelle ricerche contemporanee.
Par. 1: Dalla patologia alla pena
– Disturbi di Personalità
La categoria nosografica che più direttamente corrisponde al processo sopradescritto di presupposizione di una forma di patologia precedente alla detenzione, che in questa trovi quasi una manifestazione sintomatica, è senz'altro quella dei disturbi di personalità, in particolare quelli classificati dal D.S.M. IV nel gruppo B, che comprende i disturbi antisociale, borderline, istrionico e narcisistico. Per quanto riguarda il primo di questi, tra i cui criteri diagnostici (5) viene indicata appunto l'"incapacità di conformarsi alle regole sociali per ciò che concerne il comportamento legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili di arresto", il carcere è indicato esplicitamente tra le manifestazioni associate: "La mancanza di empatia, l'autostima ipertrofica, e il fascino superficiale sono particolarmente distintive del Disturbo Antisociale di Personalità in ambito carcerario o forense (…), Questi individui possono ricevere un'espulsione con infamia dai servizi militari, possono non riuscire ad essere indipendenti, possono impoverirsi o anche diventare dei senza-tetto, o trascorrere molti anni in istituzioni penali". Evidenziata anche dal Manuale la problematicità di una valutazione patognomica del segno clinico, rispetto al contesto sociale: "Sono state sollevate preoccupazioni per il fatto che la diagnosi possa talvolta essere male applicata ad individui in ambienti in cui verosimilmente il comportamento antisociale può essere parte di una strategia protettiva di sopravvivenza". Esistono comunque in proposito ricerche epidemiologiche condotte sopratutto negli Stati Uniti e in Inghilterra (6), che hanno riscontrato nelle popolazioni carcerarie tassi campionari varianti dal 56 % all'87 % per la diagnosi di disturbo borderline, e dal 38 % al 60% per quella di disturbo antisociale, tra l'altro associate sia tra loro che con altri disturbi, in un quadro di comorbilità media per soggetto che va da 3.6 a 6.0 categorie diagnostiche, tra cui prevalgono sopratutto sindromi dell'asse I (7). In Italia solo recentemente si è impostato uno studio di questo genere: nel 1996 il Servizio di Psicologia Medica e Psicoterapia dell'Istituto Scientifico S. Raffaele di Milano, diretto da C. Maffei, Presidente dell'Associazione Italiana per lo Studio dei Disturbi di Personalità, ha inoltrato all’Ufficio Studi e Ricerche del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, la bozza di un progetto di ricerca così organizzato: 1) identificazione delle strutture penitenziarie adatte (sono state proposte: C.R. di Opera, C.C. di Parma, C.C. di Sollicciano, O.P.G. di Montelupo Fiorentino, C.C. di Rebibbia, C.C. di Foggia); 2) effettuazione, per psichiatri e psicologi operanti in dette strutture, di corsi di formazione alla diagnosi standardizzata dei disturbi di personalità previsti dal D.S.M. IV attraverso l'uso dell'intervista SCIID-II 2.0; 3) selezione di un campione di detenuti randomizzato; 4) somministrazione e valutazione dei risultati (8). Attualmente la studio è ancora in fase di svolgimento.
Meno legata ad un'ottica di ricerca, e più invece ad una pratica terapeutica di stampo psicanalitico, la Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria propone di trasporre la categoria nosografica dei disturbi di personalità nei termini più vasti di una "malattia trasgressiva": "Con la formula malattia trasgressiva si tenta di dare un nome allo speciale tipo di sofferenza che alcuni liquidano come espressione del male, della cattiveria: la sofferenza di chi fa soffrire. (…) Le diverse categorie trasgressive moltiplicano il punto di vista sul problema. C'è la trasgressione eterolesiva, che potremmo chiamare delittuosa; c'è quella sopratutto autolesiva, di cui la tossicomania è un esempio forte; c'è la forma artistica e la forma emancipatoria del fenomeno, che ne mostrano il carattere evolutivo, innovatore. Nell'aroma della trasgressione si mescolano, in dosi diverse, la spinta vitale ed evolutiva, un dolore più o meno avvertito, un famelico potenziale distruttivo: in definitiva delle consistenti energie e delle passioni talora devastanti" (9).
In margine a questa esposizione, vale la pena di proporre una breve considerazione riguardo a questo tipo di approccio alla psicopatologia penitenziaria, in rapporto al discorso sinora sviluppato in questa sede: sembra di notare come vizio di forma una sovrapposizione tra l'oggetto di studio specifico di una psicologia criminale, e quello proprio invece di una psicologia penitenziaria, così come definiti da Ferri già nel 1926 (10). Nel primo caso si tratta di studiare l'uomo in quanto autore di reato, anche potenzialmente, nel secondo in quanto materialmente sottoposto ad una pena detentiva. L'equiparazione delle categorie del "cattivo" e del "captivus", oltre a costituire a livello pratico una semplificazione nei confronti della popolazione carceraria italiana, costituisce innanzitutto un equivoco metodologico a livello teorico: per definizione, infatti, la pertinenza disciplinare delle dottrine penitenziarie si configura nei termini del contesto carcerario, e non della natura del criminale.
– Tossicodipendenza
Citati poc'anzi come forma autolesiva della c.d. malattia trasgressiva, non esistono in realtà né prove empiriche, né convincimenti teoretici sufficientemente condivisi, riguardo alla connessione tra comportamenti di dipendenza e particolari strutture di personalità (11). Così la linearità del percorso tossicodipendenza-carcere, piuttosto che sulla ricostruzione a posteriori di una natura criminale, risulta più prosaicamente basato su di un’aprioristica evidenza giuridica, codificata nella legge 162 del 26 giugno 1990. L'applicazione di detta norma , introducendo la sanzionabilità di ogni forma di detenzione di droga, al di là della definizione di "Dose Media Giornaliera" prevista dall’art. 78, poi abrogato con il Referendum popolare del 18.4.1993, ha di fatto ampliato sino alla saturazione la popolazione carceraria, rendendo necessario un ulteriore intervento legislativo di depenalizzazione, attuato in data 11 settembre 1992 con il D.L. n. 374. In questa situazione, con una proporzione di tossicodipendenti che secondo dati recenti rappresenta il 33% del totale dei detenuti (12), sopratutto in funzione dell’individuazione di fattori predittivi che possano consentire l'applicazione delle sospensioni del procedimento o la concessione delle misure alternative, in Italia le ricerche si sono concentrate sulle proposte di classificazione: un criterio basato sul tipo di trattamento terapeutico intramurario, con netta prevalenza di quello farmacologico rispetto a quello psicologico, viene presentato da Rossi (1987); Ponti (1974) si limita ad applicare la distinzione giuridica tra tossicodipendenti in attesa di giudizio e quelli invece già condannati; Giancane (1996) adotta invece un criterio tossicologico basato sul tipo di sostanze utilizzate; infine Grassi (1994) distingue 6 categorie secondo una tassonomia psicopatologica che ripropone la sovrapposizione con il disturbo antisociale di personalità (: tossicomania con disturbo dell'identità, con disturbo antisociale, mista, con disturbo antisociale puro, nucleare con tratti antisociali egosintonici, nucleare con tratti antisociali egodistonici periodici), categoria nosografica che evidentemente risulta esemplare rispetto al percorso presentato in questo paragrafo.
Par. 2: Dalla pena alla patologia
– Deterioramento mentale
Tradizionalmente il costrutto di deterioramento mentale è stato quello più utilizzato, sopratutto rispetto allo scarso panorama delle ricerche in Italia, per la misura degli effetti patologici del carcere. All'estero il primo studio di questo genere è stato quello pubblicato da L. Taylor nel 1961, consistente nella somministrazione ad un gruppo di detenuti Neozelandesi del test d'intelligenza di Weschler, del McGill Delta Block Test e del Kohs Block design. Ma i risultati sono controversi (alcune prove del Wechsler mostravano addirittura una tendenza al miglioramento), e sopratutto i campioni utilizzati sono troppo esigui per consentire alcun tipo di generalizzazione. Risultati più perentori dichiarano S. Cohen e L. Taylor (1972) riguardo ad una ricerca condotta in un carcere inglese per quattro anni, consistente però nell'utilizzo di strumenti esclusivamente qualitativi, quali l'osservazione partecipante ed i relativi resoconti scritti in comune con i detenuti. Lo studio metodologicamente più elaborato è probabilmente quello condotto da P. Banister, F. Smith, K. Hestkin e N. Boltin nel 1976 su un campione di 200 carcerati stratificato secondo la durata della pena, con strumenti come la General Aptitude Test Battery, il Gibson Spiral Maze Test, ed il Wechsler. L'unico indice risultato soggetto a deterioramento significativo è quello di velocità di esecuzione per alcune prove di performance, per il resto si è notato anche in questo caso un miglioramento nelle prove di associazione del sub-test di memoria del Wechsler, ed un'inversione nel rapporto tra indice generale di deterioramento e durata della pena, rispetto alle ipotesi iniziali.
Impostazione e risultati simili dimostrano le due ricerche italiane sull'argomento, quella di Lazzari, Ferracuti e Rizzo del 1958, e quella di Dinitz, Ferracuti e Piperno del 1976. La prima, compiuta su un campione di 150 detenuti, non dimostra alcuna correlazione statisticamente significativa tra durata della detenzione e deterioramento mentale misurato secondo i risultati del Weschler. La seconda, consistente in una comparazione tra un campione italiano (450 ss.) e americano (124 ss.), attraverso la somministrazione della scala di Weschler, dell'Ohio Classification Test, del Bender Visual Motor Gestalt Test, e del test di Rorshach, ottiene per i due gruppi rispettivamente un indice di deterioramento di 18.7 e 4.9, entrambi sotto il livello di significatività. Gli Autori ne deducono le seguenti conclusioni: "L'unica risposta possibile sulla scorta dei dati, tenendo ben presente il loro limitato significato sia clinico che statistico, è che la sindrome di prisonizzazione quale postulata da Clemmer, e cioè includente danni intellettivi, non si correla con la durata della prisonizzazione". In effetti anche a livello complessivo bisogna osservare come il deterioramento mentale risulti una categoria difficilmente rilevabile in termini psicometrici, almeno sulla base di queste ricerche, le quali, peraltro, presentano almeno due limiti metodologici, come rilevato da Piperno: "1) non è data adeguata considerazione alla variabilità della popolazione carceraria come aggregato secondo l'età, lo stato socio economico ed il reato prevalente. In altri termini questi studi sulla prisonizzazione avrebbero dovuto tener presente l'impatto che ha, sulla cultura emergente del carcere, la variabilità nel tempo della popolazione carceraria secondo gli aspetti sopraelencati; 2) gli ultimi anni hanno visto in tutti i paesi un notevole mutamento nelle leggi e quindi nelle regole che governano la vita carceraria nel suo complesso. Financo mutamenti nei processi di depenalizzazione (ad esempio nel caso delle droghe leggere) hanno avuto influenza sulla tipologia della popolazione carceraria. Sarebbe allora stato opportuno che queste ricerche avessero indagato anche sul rapporto tra mutamenti istituzionali e carcerazione" (13 ).
– Depressione reattiva
Sicuramente meno controversi i risultati degli studi che pongono invece come conseguenza della prisonizzazione le reazioni depressive, che Giusti e Bazzi (1991) identificano come patologia psichica più diffusa un ambiente carcerario. In questo campo il riferimento principale è costituito dall’indagine condotta da Serra nel 1994 su un campione di 88 detenuti, rispetto a cui sono state individuate le seguenti variabili indipendenti: 1) periodo di detenzione (breve: 4 mesi, medio: da 5 mesi a 2 anni, lungo: oltre i 2 anni); 2) entità della pena (piccola: fino a 2 anni, media: dai 2 agli 8 anni, grande: oltre gli 8 anni); 3) atteggiamento nei confronti dell'istituzione carceraria (accettante, rifiutante, critico). Quest'ultima variabile è stata misurata elaborando uno strumento specifico in forma di intervista semistrutturata, da cui si sono ottenute le 3 categorie sovracitate attraverso un procedimento di content analisys. Come variabile dipendente, infine, è stata valutata l'entità dello stato depressivo in base alla somministrazione del Beck Depression Inventory. I risultati ottenuti possono essere sintetizzati nei seguenti punti: il valore medio più elevato al B.D.I. è stato rilevato in corrispondenza del periodo di detenzione breve, senza variare significativamente per le restanti 2 categorie, il che viene interpretato dall'Autore come conseguenza del trauma di ingresso nel carcere (14). Rispetto invece alla terza variabile indipendente, il livello più elevato nell'entità media dello stato depressivo è stato riscontrato tra i detenuti che dovevano scontare una pena superiore agli 8 anni.
Inoltre va sottolineato come, in una seconda parte della ricerca, l'entità dello stato depressivo sia risultata correlata positivamente con il rischio suicidario, misurato attraverso un apposito questionario, la Scala dell'Ideazione Suicida (Beck e coll., 1979). In conclusione se ne deduce, operativamente, che: "La tempestiva rivelazione ed il controllo della sintomatologia depressiva dell'individuo che fa il suo ingresso in carcere, come pure un'adeguata comprensione dell'insieme dei fattori che, agendo singolarmente o in interazione, possono incrementare l'entità del rischio suicidario è, a nostro parere, indispensabile affinché gli operatori del Servizio Nuovi Giunti possano svolgere un'attività preventiva fondata su conoscenze scientifiche condivise e convalidate, piuttosto che su impressioni soggettive e giudizi improvvisati" (15).
– Fenomeni dissociativi
Il dato da cui partire per l'analisi di questa categoria psicopatologica è rappresentato dal fatto che il carcere innanzitutto costituisce, fisicamente, un contesto di deprivazione sensoriale e motoria. Varie ricerche (16) hanno dimostrato che questa condizione produce gravi disfunzioni sia a livello cognitivo che emotivo. In particolare Gonin (17) descrive un vasto campionario di fenomeni di alterazione dei sensi e della coscienza, riferiti alla situazione delle carceri francesi. In Italia l'unico materiale raccolto in questo senso è costituito dai lavori di Curcio e Valentino (18), che presentano un'ampia casistica di esperienze di stati modificati di coscienza indotti dall'istituzione carceraria. Premesso che la metodologia eminentemente qualitativa degli studi, nonché l'elaborazione teorica che gli Autori ne forniscono, in una prospettiva antropologico-culturale (19) che rifiuta qualsiasi categorizzazione psichiatrica, rendono problematico l'utilizzo di tale materiale al di fuori di tale cornice di riferimento, va comunque rilevato come il quadro complessivo che ne emerge sia di straordinario interesse per la psicologia penitenziaria. A fronte infatti della mancanza di indagini epidemiologiche ufficiali circa la diffusione di fenomeni dissociativi nelle prigioni, appare significativo che dall'interno dell'istituzione (20), venga suggerito che questi episodi rappresentino quasi un momento inevitabile nel processo di adattamento del detenuto al contesto carcerario: "per tutti, emergere vivi dallo spaesamento iniziale significa avere innescato dentro di sé il potenziamento di un qualche stato di coscienza dissociato, atto a risignificare la punteggiatura della propria identità" (21). Particolarmente complesso dunque in questa circostanza il problema della valenza sintomatica oppure funzionale del fenomeno, risolvibile comunque solo caso per caso. D'altronde gli stessi Autori ammettono: "Ma questa risorsa, non va trascurato, funziona come certi veleni che possono curare ma anche uccidere: oltre una certa misura la loro funzione si rovescia e da possibili risorse vitali diventano sostanze mortali" (22). In quest'ultimo caso sembra comunque che la forma patologica di riferimento più immediato possa essere quella del disturbo di depersonalizzazione, i cui criteri diagnostici, ex D.S.M. IV, paiono soddisfatti nella grande maggioranza dei casi descritti (23). Si riporta in proposito, a titolo esemplificativo, una delle ricorrenti descrizioni di Out-of-the-Body-Experience: "mi staccavo dal corpo che restava come inerte sulla branda. Volteggiavo in alto nella cella e mi vedevo immobile giù in basso. Allora comandavo al mio corpo inerte di muoversi da un lato e poi dall'altro. E vedevo che si muoveva. Provavo una grande tristezza per quel corpo e per l'assenza di una sua vita propria" (24).
NOTE
(1): V. in particolare gli articoli dal 70 al 71, riguardo l'incapacità dell'imputato.
(2): Cantele, M., Jannucci, M.(1997), Dis-armati contro la giustizia: i primi passi in carcere del folle autore di reato, Il reo e il folle, n.2, pag. 193.
(3): Clemmer, D. (1958), The prison community, Rinehart, New York.
(4): Goffmann, E. (1969), Asylums. Le istituzioni totali, Bompiani, Milano.
(5): American Psychiatric Association, (1995), D.S.M. -IV, Masson, Milano, Criteri diagnostici per F60.2 Disturbo Antisociale di Personalità [301.7]: "A. Un quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta fin dall'età di 15 anni, come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi: 1) incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportamento legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili di arresto 2) disonestà, come indicato dal mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri ripetutamente, per profitto o per piacere personale 3) impulsività o incapacità di pianificare 4) irritabilità e aggressività, come indicato da scontri o assalti fisici ripetuti 5) inosservanza spericolata della sicurezza propria e degli altri 6) irresponsabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere una attività lavorativa continuativa, o di far fronte ad obblighi finanziari 7) mancanza di rimorso, come indicato dall'essere indifferenti o dal razionalizzare dopo avere danneggiato, maltrattato, o derubato un altro B. L'individuo ha almeno 18 anni C. Presenza di un Disturbo della Condotta con esordio prima dei 15 anni di età D. Il comportamento antisociale non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale". Le successive citazioni nel testo sono tratte dalla medesima fonte.
(6): Cfr.: Gunn J., Robertson G. (1976), Psychopatic personality: a conceptual problem, Psychological Medicine, 6; Poulton, R.G., Andrews, G. (1992), Personality as a cause of adverse life events, Acta Psychiatrica Scandinavica, 85; Robins, L.N. (1985), Epidemiology of antisocial personality, in O.J., Cavenar (a cura di), Psychiatry, vol. I, Lippincott & Co., Philadelphia.
(7): Dolan, B., Coid, J. (1993), Psychopatic and antisocial personality disorders, Treatment and Research Issues, London; Du Fort, G., Newman, C., Bland, R. (1993), Psychiatric comorbity and treatment seeking: sources of selection bias in the study of clinical population, Journal of Nervous and Mental Disease, 181.
(8): Fossati, A., Novella, L., Donati, D., Maffei, C. (1997), I disturbi di personalità nelle popolazioni carcerarie-una revisione degli studi epidemiologici ed una proposta di ricerca per l'Italia, Il reo e il folle, n.2, pag.166.
(9): Brandi, G. (1997), Oi parabantes -il vissuto trasgressivo tra scelte e coazione a ripetere, Il reo e il folle, n. 2, pag.44.
(10): Ferri, E. (1926), Psicologia criminale e psicologia giudiziaria, in E. Ferri, Studi sulla criminalità, UTET, Torino, pag. 559.
(11): V. in part. Bergeret J. (1983), Chi è il tossicomane. Tossicomania e personalità, Dedalo, Bari, e in Italia, Marcelli, D., Braconnier, A. (1989), Psicopatologia dell'adolescente, Masson, Milano, pag. 299: "In definitiva, quale che sia la valutazione diagnostica che si voglia dare a questi casi, la correlazione imprecisa e fluttuante tra diagnosi psichiatriche e tossicomania dimostra che l'inquadramento nosografico tradizionale non è sufficiente".
(12): Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (1996), Dati statistici relativi al fenomeno della tossicodipendenza in carcere, Relazione sui dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia, sulle strategie adottate e sugli obiettivi raggiunti nel 1995, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari Sociali, Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, Roma.
(13): Piperno, A. (1989), La prisonizzazione: teoria e ricerca, in F. Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. XI, Carcere e trattamento, Giuffrè, Milano, pag. 67.
(14): V. Serra, C. (1994), Il castello, S. Giorgio e il drago, SEAM, Roma, pag. 53, nonché Florenzano F. (1990), Il rischio di suicidio in carcere, in C. Serra (a cura di), Istituzione e violenza, Ed. Psicologia, Roma.
(15): Serra, C., op. cit., pag. 58.
(16): V. in part. Ludel, C., Ladavas, A. (1990), Sensory deprivation, Winston, Washington; e Rosenzweig, A., Leibman, C. (1979), Motor skill reductions, Wiley, New York.
(17): V. Gonin, D. (1994), Il corpo incarcerato, Ed. Gruppo Abele, Torino, pp. 76 e seg.
(18): Cfr. Curcio, R., Valentino, N., Petrelli, S. (1990), Nel bosco di Bistorco, Sensibili alle foglie, Roma, pag. 392: "L'esclusione dal nostro lessico della parola alterati, che altri impiegano come sinonimo di modificati, vuol essere una presa di distanza esplicita dalla terminologia psichiatrica e dalla connotazione patologica che ad essa si connette".
(19): Gli Autori sono infatti detenuti ergastolani.
(20): Curcio, R., (1998), Stati modificati di coscienza della e nella reclusione, Altrove, n. 5, pag.137.
(21): Ibidem, pag. 142.
(22): Ibidem, pag. 139.
(23): V. American Psychiatric Association (1995), D.S.M.-IV, Masson, Milano: Criteri diagnostici per F48.1 Disturbi di Depersonalizzazione [300.6]: "A. Esperienza persistente o ricorrente di sentirsi distaccato o di sentirsi un osservatore esterno dei processi mentali o del proprio corpo (per es. sentirsi come in un sogno). B. Durante l'esperienza di depersonalizzazione il test di realtà rimane intatto. C. La depersonalizzazione causa disagio clinicamente significativo, o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti. D. L'esperienza di depersonalizzazione non si manifesta esclusivamente nel corso di un altro disturbo mentale, come Schizofrenia, Disturbi di Panico, Disturbo Acuto da Stress, oppure un altro Disturbo Dissociativo, e non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. una droga di abuso o di un medicinale), oppure a una condizione medica generale (per es. epilessia del lobo temporale). "
PARTE III
RUOLO DELLO PSICOLOGO NELL'ISTITUZIONE PENITENZIARIA
Osserviamo anzitutto la critica cui va sottomessa la confusa idea in cui confidano molti onestuomini: quella che vede nel crimine un'eruzione degli "istinti" che abbatte la barriera delle forze morali di intimidazione. Immagine difficile da estirpare per la soddisfazione che dà anche a cervelli gravi, mostrando loro il criminale ben custodito, ed il gendarme tutelare che, caratteristico com'è della nostra società, passa così a una rassicurante onnipresenza.
J. Lacan
Capitolo primo:
AMBITI DI INTERVENTO
Par.1: Il sostegno
Gli spazi definiti dalla normativa vigente per l'attività dell'esperto, all'interno degli Istituti di Prevenzione e Pena, si riferiscono fondamentalmente alla funzione di "sostegno", rispetto ai detenuti in attesa di giudizio, e a quella di "osservazione e trattamento" per quanto riguarda invece i detenuti definitivi e gli internati (1). Già questa prima considerazione implica il rilevamento di una contraddizione tra la distinzione che viene fatta a livello giuridico tra queste due classi di detenuti, da una parte, e dall'altra l'assoluta omogeneità nelle condizioni di vita carceraria che gli sono riservate a livello pratico (2). Entrambi condividono le medesime strutture e sono sottoposti alle medesime regole, senza soluzione di continuità, per cui se ne può ragionevolmente dedurre che anche gli effetti dell’istituzionalizzazione siano quantomeno simili per entrambi, al di là della variabile comunque costituita dall'interpretazione soggettiva di tale processo, la quale peraltro sembra di fatto costituire un fattore di rischio sopratutto per i primi, come si evince dai ricorrenti casi di autolesionismo e suicidio (3). A fronte tuttavia di tale omogeneità di condizioni lo psicologo è costretto ad intervenire seguendo gli inapplicati parametri legislativi, senza quindi poter impostare nessun tipo di trattamento prima che sia emessa una condanna definitiva, nemmanco in caso di richiesta del detenuto stesso, dovendosi limitare appunto all'attività di sostegno. Quest'ultima è definita dall'art. 1 del Regolamento di Esecuzione (4) come "offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali". Ciò in corrispondenza di un regime che prevede "l'isolamento giudiziario in fase istruttoria, la censura sulla corrispondenza, le limitazioni sulla possibilità di effettuare colloqui telefonici o visivi e l'esclusione dalle attività trattamentali e da benefici premiali che comportano la possibilità di uscire all'esterno" (5). Si può constatare quindi come la funzione ausiliaria della psicologia nei confronti del diritto, che abbiamo visto costituirsi storicamente sia attraverso l'evoluzione disciplinare che attraverso quella legislativa, in ultima analisi condizioni sopratutto l'attività pratica dello psicologo: non si comprende infatti quale specificità professionale possa apportare all'interno dei dettami dell'articolo sopracitato, le cui possibilità applicative sono completamente rimesse alla discrezionalità della direzione. Serra (1980) così conclude : "La sensazione, in effetti, è che prevale più quanto il singolo operatore sul piano personale è in grado di fare od ottenere, che la sua specifica professionalità. Lo scollamento, teorico e pratico, nei rapporti interattivi fra gli operatori, la predominanza dei buoni rapporti personali da mantenere, la sicurezza da salvaguardare, ad ogni costo, una struttura piramidale e verticistica mi sembrano, fra le altre, tra le principali cause per cui tutto dipende o si scarica sulla direzione e, in subordine, sul personale militare, ed ogni nuovo operatore (nel caso recente gli psicologi, e recentissimamente gli educatori) venga accolto con comprensibile timore e scetticismo di possibili invasioni di campo e compromissione dei personali equilibri, propri del piccolo mondo chiuso che è un istituto di pena" (6).
Par.2: L'osservazione e il trattamento
L'attività di osservazione "scientifica della personalità" del detenuto viene finalizzata, in base all’art. 13 dell'Ordinamento penitenziario, ad individuare le "carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale", in funzione della formulazione di " indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare". E' già stato sottolineato nel corso di questo lavoro (7), come questa impostazione sottenda un paradigma causale, sviluppatosi storicamente attraverso le teorie della Scuola Positiva, che presuppone che qualsiasi detenuto debba essere considerato "portatore di un deficit fisio-psichico o di socializzazione a cui apportare correttivi" (8). Basterebbero in effetti queste poche righe a dimostrare che tra psicopatologia e carcere esiste un rapporto strutturale determinato dalla sovrapposizione della categoria di trasgressione delle norme giuridiche, con quella di trasgressione delle norme sociali, attuata in base alla intrinseca funzione correttiva del carcere. In questa sede però, di questo rapporto strutturale si intendono specificamente evidenziare le conseguenze operative per la figura dello psicologo: tenendo innanzitutto presenti gli attuali sviluppi epistemologici (9) che sottolineano le componenti costruttive del processo di acquisizione di conoscenza, risulta evidente pertanto come l'attività di osservazione così definita sia diretta ad un fenomeno già precostituito da una serie di istanze sociali e politiche, che se non adeguatamente considerate, rischiano di inficiarne i risultati incanalandoli nella direzione voluta di copertura "scientifica" di un puro meccanismo repressivo: "Quando i fenomeni devianti sono visti e studiati dal punto di vista correzionale, aumenta la possibilità di perdere il fenomeno, riducendolo a ciò che non è. Il fine di liberarsi del fenomeno si manifesta molto chiaramente nel prevalente interesse contemporaneo per i problemi di causalità o eziologia. (..) Il compito da assolvere, secondo la prospettiva correzionale, è l'accertamento delle cause fondamentali, per estirpare sia le cause stesse, sia il loro prodotto" (10). In questo senso il nodo del problema resta il carattere di necessarietà istituzionalmente costituita che lega la fase di osservazione, la cui scientificità evidentemente non può più essere immaginata in termini di neutralità, alla fase successiva del trattamento (11).
Ed è a questo secondo livello che emergono le contraddizioni più stridenti. Innanzitutto è stato sollevato il dubbio sulla legittimità giuridica della sua obbligatorietà: "Si è sostenuto, infatti, che il detenuto ha il diritto di essere diverso, di non essere risocializzato, di non vedere snaturata la propria integrità psicologica" (12), ancorché considerata patologica. Collegata a questa argomentazione è la critica rivolta invece alla natura del trattamento, che per come viene svolto in pratica, è stato detto veicolare contenuti più ideologici che terapeutici, facendo coincidere in effetti il concetto di risocializzazione con quello di omologazione a modelli culturali dominanti (13). Ma anche ammesso che il trattamento possa essere considerato legittimo (in funzione della prevalenza degli interessi della collettività su quelli del singolo), e svolgere funzioni autenticamente risocializzanti invece che manipolatorie, resta il problema della sua effettiva applicabilità, sopratutto in riferimento alla conciliabilità con la componente punitiva che comunque la pena carceraria mantiene nel diritto penale. Scetticismo in merito a quest'ultimo punto viene espresso praticamente all'unanimità da tutti gli operatori penitenziari: "Un consuntivo onesto e veritiero in questa linea, non può che registrare, sinora, che punti in gran parte negativi. Agli specialisti non è stato possibile attuare altro che tentativi di "osservazione scientifica" della personalità, non potendo essi spesso, praticamente, andare al di là di una semplice anamnesi socio-familiare-personale, e quindi senza potere effettuare approfondimenti a livello delle caratteristiche bio-psicologiche dei soggetti, per mancanza di condizioni e di strutture adatte" (14). Infine un ultimo tipo di obiezione da registrare è quella rappresentata dal cosiddetto "orientamento reazionario" (15), per cui, indipendentemente dalla sua efficacia, comunque lo stesso concetto di trattamento viene contestato come espressione di lassismo e permissività, come a suo tempo sostenuto dalla Scuola Classica.
In sintesi, da questo composito quadro critico sfociano due posizioni distinte: "L'una contesta radicalmente l'ideologia del trattamento, proclamando che l'amministrazione della giustizia penale non ha per obiettivo lo stabilire una diagnosi ed un trattamento per individui che presentino sintomi di devianza sociale (criminali), ma invece quello di far passare il messaggio secondo il quale alcuni atti non sono autorizzati" (16). Concordano su questa tesi gli opposti estremismi dell'abolizionismo (17), e del conservatorismo retribuzionista. "Una seconda posizione parte dalla crisi della rieducazione – che è crisi del pilastro plurisecolare che legittima il carcerario, ed è quindi da non sottovalutare in tutta la sua storica importanza – per rovesciare la prospettiva, dalla necessità di giustificare l'utilità della pena privativa della libertà (necessità che nasce con Beccaria nel momento della negazione della giustizia "metafisica" e dell'affermarsi dell'"economicità" della pena) alla doverosità (per governi che vogliono tenere conto dei diritti fondamentali della persona) di limitare la dannosità della privazione della libertà" (18). Da quest'ultimo punto di vista si accetta dunque il carcere come strumento necessario del sistema penale attuale, male minore rispetto ad ogni alternativa realisticamente praticabile. In questo senso il trattamento è pensato allora come intervento atto a controbilanciare non tanto la natura patologica del detenuto, quanto quella patogena della detenzione. La risocializzazione non è più l'obiettivo obbligatorio, ma la conseguenza possibile di un'opera di limitazione dei danni psicologici derivanti dal processo di prisonizzazione: "La letteratura degli ultimi anni rielabora il significato di trattamento come intervento costruito con l'individuo in interazione, sulla base delle esigenze individuate nel corso dell'incontro operativo e non di ipotetiche cause del comportamento delinquenziale" (19). Vale la pena di sottolineare come questa prospettiva, indipendentemente dalla condivisione o meno delle ragioni che la sorreggono, appaia comunque come l'unica che garantisca un'autonomia disciplinare della psicologia penitenziaria, liberandola da un lato dagli schematismi riduzionisti della psicologia carceraria positiva, dall'altro dall'ancillarità verso il diritto della psicologia rieducativa (20).
Un esempio dell'accoglimento da parte dell’autorità esecutiva di questa recente tendenza è rappresentato dall'istituzione, in data 30 dicembre 1987, del Servizio Nuovi Giunti (21), in cui finalmente l'attività dello psicologo appare rivolta all’ascolto diretto del detenuto, invece che alla compilazione di astratti programmi di trattamento sulla base della sua natura delinquenziale, che spesso non vengono neppure comunicati al diretto interessato (22). Il Servizio è infatti finalizzato all'individuazione, nei soggetti al loro primo ingresso in carcere, di particolari situazioni problematiche che nella fase di impatto con l'istituzione rischino di risolversi in condotte autolesionistiche. Se da un lato dunque è evidente come ancora una volta la logica dell'amministrazione sia quella di delegare all'esperto funzioni di controllo, dall'altra non si può negare che, quantomeno in questo caso, tale meccanismo di delega sembra meno in contrasto con le competenze professionali ed i principii deontologici delle figure coinvolte (23).
NOTE
(1): Oltre ai detenuti in custodia cautelare, si intendono in attesa di giudizio anche i ricorrenti in Appello e in Cassazione, per cui la somma complessiva di questa categoria corrisponde ad oltre i due terzi della popolazione carceraria (Serra C., La pena e la sua esecuzione, in Atti del convegno Psicologia giuridica e responsabilità, Torino, 21-22 Marzo 1998, non pubblicato). Internati sono invece i detenuti per esecuzione di una misura di sicurezza applicata al seguito del riconoscimento di pericolosità sociale, ai sensi dell'art. 202 c.p.
(2): V. Pantosti, G., Pellegrini E. (1989), Fare lo psicologo nel sistema penitenziario per gli adulti, in G. De Leo (a cura di), Lo psicologo criminologo. La psicologia clinica nella giustizia penale, Giuffrè, Milano.
(3): Cfr. Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e Pena, circolare n. 3182/5632, Tutela della vita e della salute delle persone detenute, Roma, 21 Luglio 1986, tra le poche fonti ufficiali da cui si può desumere l'entità di questo genere di dati, assenti anche dal "libro bianco" del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dati essenziali del sistema penitenziario in cifre), aggiornato al Marzo 1993, vol.7°.
(4): Questo e tutti i successivi articoli cui si fa cenno nel testo sono citati per intero al par.3, cap. primo, parte II di questo lavoro. Per ovvi motivi di brevità si è ritenuto di non dover ribadire nuovamente tali dati.
(5): Serra, C. (1995), Lo psicologo nel processo di trattamento penitenziario nel settore adulti, in A. Quadrio, G. De Leo, Manuale di psicologia giuridica, LED, Milano, pag. 303.
(6): Serra, C. (1980), Prime esperienze di consulenti psicologi negli istituti penitenziari, in C. Serra (a cura di), Psicologia e giustizia. Questioni di psicologia giuridica, Giuffrè, Milano, pag. 170.
(7): V. par. 3, cap. primo, parte II.
(8): Pantosti, G., Pellegrini, E., op. cit., pag.48.
(9): Anche in questo caso sarebbe arduo affrontare, anche sinteticamente, un tema che, dalla formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg in poi, arriva a coinvolgere praticamente tutta l'epistemologia post-popperiana. In riferimento ai campi più vicini alla psicologia giuridica, ci si limita a segnalare i contributi dell'interazionismo simbolico e dell'approccio sistemico: Goffmann, E. (1971), Modelli di interazione, Il Mulino, Bologna; Berger P.L, Luckman T. (1969), La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna; Mead G.H. (1972), Mente, Sé e società, Giunti Barbera, Firenze; Bateson, G. (1976), Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano (1984), Mente e natura, Adelphi, Milano.
(10): Matza, D. (1976), Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, pag. 38.
(11): V. anche art. 27 e 28 del Regolamento di Esecuzione.
(12): Marotta, G., Bueno Arus, F., (1989), Le basi giuridiche del trattamento penale, in F. Ferracuti, Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. XI, Carcere e trattamento, Giuffrè, Milano, pag. 72.
(13): V. Fassone, E. (1980), La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna, nonché Ferrajoli, L., (1985), Il diritto penale minimo, in Dei Delitti e delle Pene, n. 3.
(14): Serra, C., (1985), Lo psicologo e il carcere, in G. Gulotta (a cura di) Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano, pag. 1081.
(15): V. Bandini, T., Gatti, U. (1980), Limiti e contraddizioni dell'opera del criminologo clinico nell'attuale sistema penitenziario italiano, Rassegna Penitenziaria e Criminologica, n.2, pp. 165-163, nonché, dei medesimi autori, per una discussione più approfondita sul tema: (1979), La crisi dell’ideologia del trattamento, Rassegna Penitenziaria e Criminologica, n. 1.
(16): Daga, L., (1989), I sistemi penitenziari, in F. Ferracuti, op. cit., pag.37.
(17): Per una breve rassegna del pensiero abolizionista, v. Christie N., (1981) Abolire le pene? Il paradosso del sistema penale, Ed. Gruppo Abele, Torino; Mathiesen, T. (1996), Perché il carcere, Ed. Gruppo Abele, Torino; Hulsman, L. (1991), The abolitionist Case: Alternative Crime policies, Israel Law Review; Guagliardo, G. (1997), Dei dolori e delle pene. Saggio abolizionista e sull'obiezione di coscienza, Sensibili alle foglie, Roma.
(18): Daga, L., op. cit., pag. 38.
(19): Patrizi, P. (1996), Psicologia giuridica penale: Storia, attualità e prospettive, Giuffrè, Milano, Pag. 158.
(20): In proposito a questa distinzione terminologica si veda il par. 2, cap. sec., parte II di questo lavoro.
(21): V. circolare Amato n. 3233/5683.
(22): Cfr. Pantosti, G., Pellegrini E., op. cit., pag. 30.
(23): Per una più ampia discussione sulle funzioni del Servizio Nuovi Giunti, v. Serra, C., (a cura di), (1990), Istituzione e violenza, Ed. Psicologia, Roma. L'Autore ha fatto parte, in qualità di rappresentante degli esperti penitenziari, della commissione di studio nominata dall'allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena N. Amato, che portò all'estensione della circolare n.3233/5683.
Capitolo secondo
METODI DI INTERVENTO
Par. 1: Destrutturazione interpretativa
Gli spazi d'intervento penitenziario prefigurati dalla legge per la figura dell'esperto vanno dunque nella direzione della definizione di un modello clinico (1). Rispetto alla classica concezione psicologica di tale modello (2), però, la situazione carceraria impone delle specificità contestuali, che, pur nella varietà esaminata nel capitolo precedente, possono essere sostanzialmente ricondotte ad un fattore fondamentale, ovvero la profonda discrepanza tra le esigenze ufficiali della committenza istituzionale, ed i problemi reali dell'utenza carceraria: "In questo senso la popolazione carceraria non sembra costituire una vera e propria utenza, ma il materiale umano su cui lavorare per poter fornire delle risposte: chi si serve della professionalità del consulente è la stessa committenza nel momento in cui è chiamata a prendere delle decisioni che riguardano l'individuo detenuto" (3). Il punto di partenza di qualsiasi tipo di attività deve essere allora quella che De Leo (1995) definisce "analisi della domanda e dei contesti", di cui si possono distinguere quattro livelli: il primo rivolto alla particolare situazione dell'utenza per indagarne problemi e bisogni, attraverso la raccolta di dati personali, anamnestici e diagnostici, in termini psicologici, sopratutto in riferimento allo specifico percorso istituzionale compiuto: un esempio pratico di intervento a questo primo livello può essere costituito dal Servizio Nuovi Giunti descritto nel capitolo precedente; il secondo livello riguardante le modalità di intersecazione tra la situazione dell'utenza descritta al primo livello, e le dimensioni normative, verificando il più ampio contesto sociale entro cui si colloca l'episodio che lo ha condotto alla carcerazione; il terzo finalizzato alla definizione dei vari organismi giudiziari implicati nel caso, generalmente il Tribunale di Sorveglianza e la Direzione penitenziaria (ma anche altre specifiche figure professionali quali avvocati, assistenti sociali, educatori, etc.), per definirne esigenze ed aspettative non solo rispetto all'utenza, ma anche rispetto al proprio ruolo; il quarto livello infine concernente l'eventuale passaggio tra sistema carcerario e strutture e servizi operanti sul territorio, sia in funzione di un progetto di reinserimento per fine pena, sia dell'ottenimento di misure alternative alla detenzione. A questo complesso lavoro di ricostruzione della trama di rapporti che più o meno esplicitamente coinvolgono ogni detenuto, deve poi far seguito una seconda fase di intervento più diretto.
Par.3: Strutturazione operativa
Anche in questo caso, seguendo De Leo (1995), possiamo distinguere tre diversi livelli, riferiti a quell'organizzazione del setting operativo che costituisce in psicologia clinica la premessa fondamentale per l'assunzione di responsabilità di una presa in carico (4). Al primo livello, riguardante la definizione della cornice situazionale, si deve naturalmente far fronte ad una rigidità istituzionale che molto spesso predefinisce tempi e luoghi dell'intervento, in base a necessità di sicurezza: "anche e sopratutto in questi casi, è necessario che l'intervento clinico sperimenti la possibilità di una loro ridefinizione e ristrutturazione, sia pure all'interno dei forti vincoli istituzionali, per caratterizzarli rispetto alle focalizzazioni operative" (5). Il secondo livello, riferito alla cornice relazionale, consta fondamentalmente nella scelta di chi includere nelle sedute di incontro, a seconda dell'orientamento teorico dello psicologo e delle specifiche disponibilità ambientali. Si ricordi comunque che uno dei dati su cui concorda la letteratura in materia è la problematicità dei rapporti con altre figure professionali (6), per cui particolare attenzione andrebbe posta alle riunioni d'équipe comunque contemplate dalla regolamentazione legislativa (7), ai fini dello sviluppo di una alleanza interprofessionale (8). Il terzo livello poi riguarda la definizione della cornice simbolica dell'intervento, per esplicitare contrattualmente ruoli e motivazioni. Questa fase risulta tanto più importante quanto più si considerino i vincoli istituzionali cui è sottoposto il detenuto, primo fra tutti l'obbligatorietà del trattamento, nonché l'ottenimento di quei vantaggi secondari costituiti dai benefici premiali che la legislazione esplicitamente subordina alla collaborazione ad esso (9): "L'attuale sistema penale, infatti, tende ad espropriare la facoltà di scelta individuale e la libertà. La "osservazione e il trattamento" dovrebbero invece essenzialmente essere attuate nella linea di strumenti di recupero anzitutto delle capacità di scelta e delle possibilità di inserimento dei soggetti devianti detenuti" (10). Il lavoro dello psicologo deve quindi essere orientato sopratutto allo sviluppo di una autentica motivazione intrinseca rispetto a tutte queste pressioni esterne (11).
Infine, all'interno della strutturazione operativa, vanno definiti gli strumenti clinici dell'intervento, che nella pratica (12) risultano essere fondamentalmente il colloquio clinico ed i test strutturali e tematici. In rapporto al colloquio va detto che le particolari condizioni carcerarie sopra descritte concorrono alla proiezione sulla figura dello psicologo di determinate rappresentazioni (13), che si traducono in particolari modalità di approccio, di cui Nivoli (1980) elenca le più frequenti: "sfruttamento" (manipolazione diretta all'ottenimento di benefici pratici), "rivendicazione" (uso dello psicologo come tramite per lamentele dirette all'amministrazione), "intimidazione" (dimostrazione di forza rivolta ad una figura vissuta come invasiva), "drammatizzazione" (tentativo di ottenere attenzione esagerando la gravità della propria situazione), "indifferenza" (passività di fronte ad una situazione rispetto cui si nega ogni coinvolgimento personale). Da parte dello psicologo va d'altronde tenuta presente la deformazione del giudizio, intrinseca come si è visto alla stessa predefinizione istituzionale del contesto che finalizza l'osservazione ad un trattamento rieducativo, tendente a leggere in qualsiasi espressione del detenuto una manifestazione comunque patologica, per recuperare invece una dimensione meno strumentale del colloquio, attraverso quel processo di destrutturazione interpretativa sopradescritto . Per quanto riguarda l'utilizzo dei test, nonostante si possa registrare (14) una preferenza per strumenti proiettivi, (sopratutto Rorschach e T.A.T.), e grafici (disegno della famiglia e della persona umana), esiste comunque un'ampia variabilità derivante dall'adesione a diversi modelli teorici, tale da rendere problematico, a livello di verifica dei risultati, il confronto tra dati ottenuti in circostanze diverse (15).
NOTE
(1): Serra, C. (1987), Lo psicologo e il carcere, in G. Gulotta, Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano, pag.1081.
(2):V. in part. Lis A. (1993), Psicologia clinica, Giunti, Firenze, ma anche, per es, Davidson, G., Neale, J.M. (1989), Psicologia clinica, Zanichelli, Bologna.
(3): Pantosti, G., Pellegrini, E. (1989), Fare lo psicologo nel sistema penitenziario per gli adulti, in G. De Leo, Lo psicologo criminologo, Giuffrè, Milano, pag. 51.
(4): V. Lis, A., op. cit., e della stessa Autrice, in collaborazione con Venuti P., De Zordo, M. P. (1995), Il colloquio come strumento psicologico. Ricerca, diagnosi e terapia, Giunti, Firenze
(5): De Leo, G. (1995), La psicologia clinica in campo giudiziario e penitenziario, in A. Quadrio, G. De Leo (a cura di), Manuale di psicologia giuridica, LED, Milano, pag. 547.
(6): Cfr. in proposito Serra, C.(1980), Prime esperienze di consulenti psicologi negli istituti penitenziari, in C. Serra (a cura di), Psicologia e giustizia. Questioni di psicologia giuridica, Giuffrè, Milano, e Pantosti, G., Pellegrini, E., op. cit..
(7): V. art. 16 dell'Ord. Pen., e art. 29 del Reg. di Es.
(8): Cfr. De Leo, G. (1995), op. cit., pag. 461, e Pantosti, G, Pellegrini E., op. cit., pag. 66.
(9): V., per es., l'art. 50 della l. n. 663/86. Per una più estesa discussione sul carattere premiale della riforma Gozzini, v. par. 3, cap. primo, parte II di questo lavoro.
(10): Serra, C. (1987), op. cit., pag. 1082.
(11): V. Lis, A., Venuti, P., De Zordo M. P., op. cit..
(12): V. Serra, C. (1995), Lo psicologo nel processo di trattamento penitenziario nel settore adulti, in A. Quadrio, G. De Leo, op. cit., pag.304.
(13): Cfr. Merzagora, I. (1987), Il colloquio criminologico, Unicopli, Milano; Balloni, A. (1976), Criminologia e psicopatologia, Patron, Bologna; Nivoli, G. C. (1980), Sul colloquio criminologico, in G. Trentini (a cura di), Mondadori, Milano.
(14): V. De Leo (1995), op. cit., pag. 466.
(15): V. Serra, C. (1994), Il castello, S. Giorgio e il drago, Ed. SEAM, Roma, pag.39.
CONCLUSIONI
Nella fase introduttiva di questo lavoro sono stati proposti alcuni criteri metodologici cui fare riferimento per valutarne la riuscita. Il primo si riferiva alla fedeltà rispetto alle fonti, intesa come accuratezza e completezza nei procedimenti di esegesi. Bisogna ammettere allora che il percorso bibliografico suggerito appare senz'altro incompleto rispetto alla vastità dei temi toccati. Il rapporto storico tra carcere e psicopatologia vede il fitto intrecciarsi di saperi quali il diritto penale e la psichiatria, la criminologia e la psicologia clinica: ognuno di questi campi avrebbe necessità in sé di svariati volumi come questo solo per indicarne i riferimenti bibliografici principali. Si è cercato invece di tenere come punto di riferimento costante per lo sviluppo del discorso la specificità dell'oggetto di studio definito dalla psicologia penitenziaria: l'uomo in quanto soggetto ad una pena, l'Homo secretus. In quest'ottica, per esempio, di tutto lo sterminato campo del diritto romano, sono stati menzionati solo quei testi, citati nel corso del lavoro, che trattassero esplicitamente della pena carceraria. Allo stesso modo si è dovuto escludere tutto l'ambito, pur attinente, riguardante la psichiatria forense e gli ospedali psichiatrici giudiziari. L'incompletezza bibliografica vuol essere allora quantomeno funzionale ad una precisa scelta argomentativa. Viene introdotto così il secondo dei criteri indicati, quello di validità interna, intesa come congruenza tra i documenti citati e le conclusioni finali. Innanzitutto va detto che come conclusioni finali non si possono che cercare le verifiche dell’ipotesi iniziale, che esista cioè una reciproca presupposizione tra pratiche penali riguardanti la reclusione e pratiche discorsive riguardanti il disturbo mentale, storicamente verificabile attraverso una serie di documenti. Si è visto come il cardine di questa interconnessione sia la funzione intrinsecamente correttiva del carcere, che ne ha permesso, nel passaggio tra i secoli XVIII e XIX, l'affermazione rispetto al tramonto delle pene corporali, a funzione didascalica. Val la pena di sottolineare che ai fini di questo lavoro non importa tanto il perché tale cambiamento si sia prodotto, ovvero la sua subordinazione ad altri tipi di mutamenti (per esempio economici), ma esclusivamente il come questo passaggio sia avvenuto, attraverso quali procedimenti. Ecco allora la descrizione della corrispondenza tra genesi del sistema carcerario moderno e tesi della Scuola positiva, che identificano nel delinquente un alienato, giustificandone la reclusione a scopo correzionale, tramandatesi poi attraverso l'eclettismo della Terza Scuola, che ne mantiene lo schema causale, accoppiandolo a quello retributivo nell'impianto differenziale del "doppio binario", sino alla normativa attuale che continua a vedere nel delinquente un disadattato, giustificandone la reclusione a scopo rieducativo. Da un periodo all'altro cambiano i termini dello schema riduzionistico, da fisiognomici, a sociologici, a psicologici, ma non cambia il meccanismo sottostante di sovrapposizione della categoria di trasgressione delle norme giuridiche a quella di trasgressione delle norme sociali. Inoltre, in antitesi con la pubblicistica storiografica specializzata, è stato dimostrato come ancora prima dell'avvento del sistema carcerario moderno, la reclusione sia sempre rientrata in questo diagramma strutturale che la interconnette alla follia, non ancora nel contesto di un’istituzione laica le cui forme d'espressione s'ascrivono al registro della "scientificità", ma attraverso una giurisprudenza sacerdotale le cui condanne corrispondono ad anatemi: la correzione reclusiva non ha qui tanto lo scopo di rieducare quanto piuttosto quello di redimere. E si noti come residui di tale concezione si siano tramandati sino a noi, codificandosi per esempio nell'articolo 15 dell'Ordinamento penitenziario. In Eschilo e Platone le "carenze fisiopsichiche" dell'attuale ordinamento si riflettono insomma specularmente nelle attribuzioni di math e anoia, nel lessico di quella che si potrebbe considerare la "psicopatologia" dell'epoca. Ma questa ricostruzione storica non è priva di conseguenze per quanto riguarda la situazione attuale, per riferirsi così all'ultimo dei criteri di valutazione suggeriti, quello di validità euristica delle conclusioni, in termini di spunti per approfondimenti successivi, rispetto al valore puramente descrittivo di questo lavoro. L'ultima forma d'espressione in cui si estrinseca questo diagramma coinvolge infatti direttamente il ruolo dell'esperto penitenziario, che paradossalmente, si potrebbe definire "ermetico": sia in senso generale per l'ambiguità delle norme che lo definiscono, sia in senso specifico in riferimento al testo eschiliano, dove il personaggio di Ermete rappresenta il messaggero di Zeus, responsabile dell'imprigionamento di Prometeo, appositamente mandatogli allo scopo di ricondurlo all'ordine, l'unico che legga la sua ribellione in termini di pura follia. Mandatario delle istanze istituzionali, con esplicita delega di recupero , che si esplica nell'applicazione di categorie nosografiche: a distanza di 25 secoli non si può che registrare la geometrica coincidenza tra l'antica e la nuova versione della medesima istanza di ortopedia sociale. Queste considerazioni introducono poi il problema della subalternità dell’esperto nei confronti del giudice, che non si limita soltanto al piano tecnico del trattamento penitenziario, ma attiene al più vasto ambito dei rapporti disciplinari tra il carattere prescrittivo del diritto e quello esplicativo della psicologia. Si consideri per esempio che, a proposito del contrasto giuridico tra l'articolo 314 del Codice di Procedura Penale, che al 2° comma vieta la perizia sul carattere e la personalità dell'imputato, e l'articolo 133 del Codice Penale, che prescrive che il giudice nell'emissione della sentenza debba tener conto dei motivi a delinquere e del carattere del reo, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 124/1970, ha così deliberato: "Il legislatore richiedendo l'indagine del giudice sul carattere dell'imputato è a posto col precetto costituzionale che pone tra le finalità della pena la rieducazione del condannato, ma non ha fiducia nella perizia psicologica (…) e perciò nega l'approfondimento di quell'indagine oltre i limiti raggiungibili dalla cultura e dall'esperienza del giudice. Verosimilmente lo domina il pensiero che lo studio della personalità dell'imputato possa venir compiuto solo da chi abbia presente il carattere afflittivo ed intimidatorio della pena, con cui la finalità di rieducazione deve essere contemperata". Nella metodologia d'intervento rispetto a spazi così definiti, tra gli obiettivi che si profilano per lo psicologo c'è quello di riuscire a restituire centralità all'utenza piuttosto che alla committenza, ribaltando la concettualizzazione della direzionalità del processo patogeno, da un percorso che conduce dalla malattia al carcere, ad uno opposto che va dal carcere alla malattia. In quest'ottica preventiva piuttosto che rieducativa, si prospetta l'esigenza di indagini epidemiologiche che accertino la consistenza presso la popolazione carceraria di fenomeni quali la depressione reattiva o i disturbi dissociativi, ancora poco studiati.
In sintesi, rispetto ai criteri di fedeltà e validità sopracitati: la scelta bibliografica si propone di essere esaustiva non tanto rispetto alla varietà dei temi affrontati, quanto alla funzione di documentare in maniera sufficientemente ampia le articolazioni nello sviluppo storico del rapporto tra carcere e psicopatologia, dimostratosi coerente con le ipotesi iniziali per quanto concerne l'arco di tempo preso in considerazione, alla luce del quale sorge la necessità di un ripensamento dei compiti dello psicologo penitenziario a livello disciplinare, legislativo e clinico, nella duplice accezione più generalmente metodologica e più specificamente tecnica.
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