RECENSIONE di Pierpaolo Martucci al libro
MALE SU MALE. Lo psicoanalista incontra il libro di Giobbe
A cura di Rita Corsa, Lucia Fattori e Gabriella Vandi
(Ed. Alpes, Roma, 2024, pg. 150, € 13,00)
«Questo grande male… da dove proviene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da quale seme, da quale radice si è sviluppato? Chi è l’artefice di tutto questo? Chi ci sta uccidendo, derubandoci della vita e della luce, beffandoci con la visione di quello che avremmo potuto conoscere?»
È la domanda che la voce narrante del soldato Edward Train rivolge a sé stesso (e allo spettatore) in un passaggio de La sottile linea rossa (1998), celebre e celebrato film del regista americano Terrence Malick. Lo stesso interrogativo universale che la vicenda di Giobbe, a forse 2400 anni dalla stesura dell’omonimo testo sapienziale del Vecchio Testamento, continua a suscitare, quello che per la teologia cattolica è il mysterium iniquitatis, evocato da Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi. Perché tanto male? Perché proprio a me? Perché il male contro gli innocenti? Contro i giusti?
Quale e quanta sia la potenza evocativa che emana dalla figura di Giobbe lo dimostra il ricorrere come topos nei più grandi capolavori della letteratura. Lo schema della scommessa tra Dio e Satana è riproposta in altri termini da Goethe nel “prologo in cielo” al suo Faust, mentre la “prima emozione spirituale” di padre Zòsima, lo stàrec santo venerato da Aleksèj Fëdorovič Karamasov (Aljoscia) riguarda proprio la lettura del libro di Giobbe, ascoltata in chiesa un giorno della settimana santa, a 8 anni di età: «Tanto impressionarono allora la mia immaginazione i cammelli, e Satana, che parlava così a Dio, e Dio che aveva votato il Suo servo alla rovina. Da allora io non posso leggere questa santissima storia – e la presi in mano anche ieri – senza piangere. Vi si trova qualcosa di così grande, così misterioso, così inimmaginabile!» (1).
Certo i tempi sollecitano questa riflessione e proprio da tale consapevolezza è nata la scelta di dedicare al tema un volume della collana Psicoanalisi e fede edita da Alpes, pensata come area di ricerca «che esplora da un punto di vista psicoanalitico il fenomeno della fede». Il titolo è significativo: Male su male. Lo psicoanalista incontra il libro di Giobbe. Come scrive una delle tre curatrici e coautrici, psicoanaliste della Società Psicoanalitica Italiana, «in questi tempi in cui alla tragedia globale della pandemia Sars-Covid, coi suoi milioni di morti, si sono aggiunti il conflitto nella non lontana Ucraina e, sullo sfondo, la minaccia terribile di una guerra nucleare, ci interroghiamo sul perché di queste sofferenze…» (Fattori, 2024, 131).
Sullo sfondo di questo immane perché, il volume ospita un alternarsi dialogico di analisi laiche e religiose.
La prima voce, quella di Vincenzo Lasorsa, filosofo di formazione teologica, avvia il percorso di riflessione su ciò che si contrappone nel libro di Giobbe, la dottrina astratta della retribuzione contro la testimonianza personale della sofferenza: «Scordatevi la pazienza di Giobbe (…) Lo sforzo di sopportare le avversità senza lamentarsi è descritto nei primi due capitoli: i seguenti 38 esprimono ben altro». All’interrogativo sulla presenza del male «la Bibbia non dà una risposta vera e propria: non c’è nel libro di Giobbe e non la dà Gesù». Ma i testi biblici «tracciano un percorso arduo e affascinante, che non lascia indifferente chi sia disposto a incamminarvisi».
A questa introduzione fanno seguito quattro contributi di impronta psicoanalitica.
Simonetta Diena, psicoanalista esperta di cultura ebraica, esplora le affinità fra Giobbe e il paziente nella stanza di analisi. Riferendosi alla catastrofe che devasta il ricco allevatore, prima colpito nei suoi beni, poi nella discendenza, infine nella sua stessa carne, martoriata da tormentose ulcere, osserva: «come non pensare a quante volte, nei nostri studi, tragedie sovrapposte, famiglie decimate, vengano narrate in modo conciso, senza apparente dolore?»
L’inedito confronto tra Edipo e Giobbe è al centro dello scritto di Davide Cavagna, psicoterapeuta di ascendenze filosofiche che richiama la presenza del personaggio biblico nel pensiero di Freud e in quello di Jung, in quest’ultimo caso correlato al tema dello gnosticismo. E proprio quanto esprime il padre della psicologia analitica nella sua opera Risposta a Giobbe («Jung descrive il lato oscuro di Dio, tocca l’essenza della fede») è affrontato nelle pagine a firma di Pier Claudio Devescovi, psicoanalista junghiano assai attento alle implicazioni teologiche.
A chiusura di questa parte, Sophie de Mijolla, nome di primo piano della psicoanalisi francese, nel capitolo Giobbe e l’incomprensibilità del male affronta la materia da un’ottica laica, partendo da Spinoza e richiamando Hannah Arendt: nell’esperienza umana non esiste il Male con la maiuscola, ma solo degli incontri, soggettivamente buoni o cattivi, a seconda delle conseguenze che provocano nella vita di chi li sperimenta.
Il volume ospita poi gli interventi di due teologi. Il primo è quello dell’illustre biblista cardinale Gianfranco Ravasi, che tratteggia il confronto diretto tra Dio e Giobbe, spostando sul piano della visione mistica del creato le contraddizioni altrimenti insolubili dentro i confini dell’esperienza terrena. L’altro appartiene al biblista Giuseppe Barbaglio, scomparso nel 2007; si tratta di un lavoro inedito che ragiona su Giobbe e Cristo e delinea la figura di un Dio che non domina nè interviene nel mondo ma partecipa alla condizione umana, promuovendone la responsabilizzazione.
Chiudono l’opera quattro brevi note a margine, redatte dalle curatrici del libro, insieme ad altre analiste della Società Psicoanalitica Italiana.
Maria Moscara e Gabriella Vandi individuano nell’agglomerato di dolore che affligge Giobbe la difficoltà di individuare una modalità possibile e umana di prossimità a chi patisce, di offrire vicinanza e ascolto a pazienti molto sofferenti.
Il tema del male nella dimensione del rapporto verticale e orizzontale fra uomo e Dio viene affrontato da Lucia Fattori facendo riferimento alla teorizzazione kleiniana e a quella winnicottiana, ma anche alla necessità di un giudizio bene-male che riconosca le responsabilità proprie ed altrui.
Dalla storia di Giobbe trae spunto Rita Corsa per una serrata critica a quella che definisce l’“ideologia psicosomatica”, un modello che nei suoi assunti più radicali finisce per colpevolizzare il malato, presentandolo come capace di auto procurarsi ogni genere di affezioni sul proprio corpo.
Infine Lisa Balbo commenta un originale lavoro teatrale, la pièce Il visitatore (1993) di Eric-Emmanuel Schmitt, che mette in scena il confronto fra un Freud anziano e malato, in procinto di lasciare Vienna dopo l’Anschluss e un singolare visitatore, che asserisce di essere Dio. Il dialogo si dipana nelle ore in cui la figlia Anna è stata fermata dalla Gestapo e alla fine Freud acconsente a firmare il lasciapassare per l’espatrio. Ma, a differenza di Giobbe, per Freud «sembra inavvicinabile una fede a cui abbandonarsi», è per lui inaccettabile una presenza divina «onnipotente-impotente rispetto ai mali del mondo».
Ne Il disagio della civiltà (1929), Freud aveva scritto «Il diavolo sarebbe un’ottima scappatoia per scagionare Dio, economicamente avrebbe la stessa funzione di scarico che spetta all’ebreo nel mondo degli ariani. Ma poi? Dio può essere chiamato a rispondere tanto dell’esistenza del diavolo, quanto del male che questi incarna» (2).
Chiamare a rispondere, citare in giudizio Dio. L’esigenza di giustizia è una costante nel pensiero ebraico, sino a tradursi, da Giobbe in poi, in querela contro l’Onnipotente, per il male che – indifferentemente – colpisce il giusto e il peccatore. Tra le storie e gli aneddoti della tradizione yiddish degli ebrei dell’Europa orientale il tema della lite col Signore per le ingiuste sofferenze che Egli permette torna più volte, alimentata dalla millenaria esperienza delle persecuzioni. È il caso, fra gli altri, di una narrazione cassidica riferita a un mitico sapiente e taumaturgo zaddik (giusto), il rebe (maestro) Elimelekh: «Ma la storia più straordinaria tra tutte (…) fu quella di quando il Signore Iddio fu citato in giudizio e di come a giudicarlo fu niente di meno che lo stesso rebe Elimelekh (…) Accadde, un tetro giorno di sventura per tutta la nostra gente, che lo zar bandisse una gzeyra (decreto) con cui ingiungeva di scacciare entro un mese oltre i confini dello stato tutti gli ebrei».
Per scongiurare quel disastro, «tutti si misero a digiunare e a rivolgere al Cielo ardenti preghiere». Inutilmente, perché la scadenza del termine si avvicinava senza che nulla accadesse. E allora un pio ebreo profondo conoscitore delle scritture si presentò al cospetto del santo rabbino Elimelekh annunciando l’intenzione di «citare in giudizio il Signore Iddio davanti al Tribunale delle Sue stesse Leggi!» Lo zar infatti non era altro che «uno strumento nelle mani di Dio, uno strumento della Sua volontà». Dopo lunghe riflessioni, Elimelekh riunì un collegio giudicante di saggi e pii israeliti pronti «in nome della giustizia imposta a noi uomini (…) a esprimere un giudizio circa la giustizia delle azioni dell’Altissimo». Fu quindi istituito un tribunale, con tutte le forme e le procedure prescritte per dare corso all’azione legale intrapresa contro Dio. Dopo un’udienza in cui una voce dall’alto confermava la presenza divina al giudizio, la giuria si ritirò e dopo tre giorni di riflessioni e «ardenti discussioni», giunse ad emettere il verdetto: «Si conviene che questa funesta gzeyra, emessa con il consenso di Dio, condanna tutto un popolo, ivi incluse centinaia di migliaia di persone di nulla colpevoli, a sofferenze inaudite; si conviene che questa gzeyra è una feroce violazione della suprema legge dell’amore. In considerazione, dunque, di tutte queste cose e accusando Dio di ingiustizia noi, tribunale di uomini, basandoci su leggi divine e umane, esigiamo che questa funestissima gzeyra sia da Dio revocata». Il rotolo di pergamena con la sentenza, sottoscritto dai giudici, venne collocato nella sinagoga, tra i rotoli della Torah. Trentasei ore dopo, racconta la leggenda, lo zar revocò il suo decreto (3).
Per una volta, Giobbe aveva avuto giustizia.
È la domanda che la voce narrante del soldato Edward Train rivolge a sé stesso (e allo spettatore) in un passaggio de La sottile linea rossa (1998), celebre e celebrato film del regista americano Terrence Malick. Lo stesso interrogativo universale che la vicenda di Giobbe, a forse 2400 anni dalla stesura dell’omonimo testo sapienziale del Vecchio Testamento, continua a suscitare, quello che per la teologia cattolica è il mysterium iniquitatis, evocato da Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi. Perché tanto male? Perché proprio a me? Perché il male contro gli innocenti? Contro i giusti?
Quale e quanta sia la potenza evocativa che emana dalla figura di Giobbe lo dimostra il ricorrere come topos nei più grandi capolavori della letteratura. Lo schema della scommessa tra Dio e Satana è riproposta in altri termini da Goethe nel “prologo in cielo” al suo Faust, mentre la “prima emozione spirituale” di padre Zòsima, lo stàrec santo venerato da Aleksèj Fëdorovič Karamasov (Aljoscia) riguarda proprio la lettura del libro di Giobbe, ascoltata in chiesa un giorno della settimana santa, a 8 anni di età: «Tanto impressionarono allora la mia immaginazione i cammelli, e Satana, che parlava così a Dio, e Dio che aveva votato il Suo servo alla rovina. Da allora io non posso leggere questa santissima storia – e la presi in mano anche ieri – senza piangere. Vi si trova qualcosa di così grande, così misterioso, così inimmaginabile!» (1).
Certo i tempi sollecitano questa riflessione e proprio da tale consapevolezza è nata la scelta di dedicare al tema un volume della collana Psicoanalisi e fede edita da Alpes, pensata come area di ricerca «che esplora da un punto di vista psicoanalitico il fenomeno della fede». Il titolo è significativo: Male su male. Lo psicoanalista incontra il libro di Giobbe. Come scrive una delle tre curatrici e coautrici, psicoanaliste della Società Psicoanalitica Italiana, «in questi tempi in cui alla tragedia globale della pandemia Sars-Covid, coi suoi milioni di morti, si sono aggiunti il conflitto nella non lontana Ucraina e, sullo sfondo, la minaccia terribile di una guerra nucleare, ci interroghiamo sul perché di queste sofferenze…» (Fattori, 2024, 131).
Sullo sfondo di questo immane perché, il volume ospita un alternarsi dialogico di analisi laiche e religiose.
La prima voce, quella di Vincenzo Lasorsa, filosofo di formazione teologica, avvia il percorso di riflessione su ciò che si contrappone nel libro di Giobbe, la dottrina astratta della retribuzione contro la testimonianza personale della sofferenza: «Scordatevi la pazienza di Giobbe (…) Lo sforzo di sopportare le avversità senza lamentarsi è descritto nei primi due capitoli: i seguenti 38 esprimono ben altro». All’interrogativo sulla presenza del male «la Bibbia non dà una risposta vera e propria: non c’è nel libro di Giobbe e non la dà Gesù». Ma i testi biblici «tracciano un percorso arduo e affascinante, che non lascia indifferente chi sia disposto a incamminarvisi».
A questa introduzione fanno seguito quattro contributi di impronta psicoanalitica.
Simonetta Diena, psicoanalista esperta di cultura ebraica, esplora le affinità fra Giobbe e il paziente nella stanza di analisi. Riferendosi alla catastrofe che devasta il ricco allevatore, prima colpito nei suoi beni, poi nella discendenza, infine nella sua stessa carne, martoriata da tormentose ulcere, osserva: «come non pensare a quante volte, nei nostri studi, tragedie sovrapposte, famiglie decimate, vengano narrate in modo conciso, senza apparente dolore?»
L’inedito confronto tra Edipo e Giobbe è al centro dello scritto di Davide Cavagna, psicoterapeuta di ascendenze filosofiche che richiama la presenza del personaggio biblico nel pensiero di Freud e in quello di Jung, in quest’ultimo caso correlato al tema dello gnosticismo. E proprio quanto esprime il padre della psicologia analitica nella sua opera Risposta a Giobbe («Jung descrive il lato oscuro di Dio, tocca l’essenza della fede») è affrontato nelle pagine a firma di Pier Claudio Devescovi, psicoanalista junghiano assai attento alle implicazioni teologiche.
A chiusura di questa parte, Sophie de Mijolla, nome di primo piano della psicoanalisi francese, nel capitolo Giobbe e l’incomprensibilità del male affronta la materia da un’ottica laica, partendo da Spinoza e richiamando Hannah Arendt: nell’esperienza umana non esiste il Male con la maiuscola, ma solo degli incontri, soggettivamente buoni o cattivi, a seconda delle conseguenze che provocano nella vita di chi li sperimenta.
Il volume ospita poi gli interventi di due teologi. Il primo è quello dell’illustre biblista cardinale Gianfranco Ravasi, che tratteggia il confronto diretto tra Dio e Giobbe, spostando sul piano della visione mistica del creato le contraddizioni altrimenti insolubili dentro i confini dell’esperienza terrena. L’altro appartiene al biblista Giuseppe Barbaglio, scomparso nel 2007; si tratta di un lavoro inedito che ragiona su Giobbe e Cristo e delinea la figura di un Dio che non domina nè interviene nel mondo ma partecipa alla condizione umana, promuovendone la responsabilizzazione.
Chiudono l’opera quattro brevi note a margine, redatte dalle curatrici del libro, insieme ad altre analiste della Società Psicoanalitica Italiana.
Maria Moscara e Gabriella Vandi individuano nell’agglomerato di dolore che affligge Giobbe la difficoltà di individuare una modalità possibile e umana di prossimità a chi patisce, di offrire vicinanza e ascolto a pazienti molto sofferenti.
Il tema del male nella dimensione del rapporto verticale e orizzontale fra uomo e Dio viene affrontato da Lucia Fattori facendo riferimento alla teorizzazione kleiniana e a quella winnicottiana, ma anche alla necessità di un giudizio bene-male che riconosca le responsabilità proprie ed altrui.
Dalla storia di Giobbe trae spunto Rita Corsa per una serrata critica a quella che definisce l’“ideologia psicosomatica”, un modello che nei suoi assunti più radicali finisce per colpevolizzare il malato, presentandolo come capace di auto procurarsi ogni genere di affezioni sul proprio corpo.
Infine Lisa Balbo commenta un originale lavoro teatrale, la pièce Il visitatore (1993) di Eric-Emmanuel Schmitt, che mette in scena il confronto fra un Freud anziano e malato, in procinto di lasciare Vienna dopo l’Anschluss e un singolare visitatore, che asserisce di essere Dio. Il dialogo si dipana nelle ore in cui la figlia Anna è stata fermata dalla Gestapo e alla fine Freud acconsente a firmare il lasciapassare per l’espatrio. Ma, a differenza di Giobbe, per Freud «sembra inavvicinabile una fede a cui abbandonarsi», è per lui inaccettabile una presenza divina «onnipotente-impotente rispetto ai mali del mondo».
Ne Il disagio della civiltà (1929), Freud aveva scritto «Il diavolo sarebbe un’ottima scappatoia per scagionare Dio, economicamente avrebbe la stessa funzione di scarico che spetta all’ebreo nel mondo degli ariani. Ma poi? Dio può essere chiamato a rispondere tanto dell’esistenza del diavolo, quanto del male che questi incarna» (2).
Chiamare a rispondere, citare in giudizio Dio. L’esigenza di giustizia è una costante nel pensiero ebraico, sino a tradursi, da Giobbe in poi, in querela contro l’Onnipotente, per il male che – indifferentemente – colpisce il giusto e il peccatore. Tra le storie e gli aneddoti della tradizione yiddish degli ebrei dell’Europa orientale il tema della lite col Signore per le ingiuste sofferenze che Egli permette torna più volte, alimentata dalla millenaria esperienza delle persecuzioni. È il caso, fra gli altri, di una narrazione cassidica riferita a un mitico sapiente e taumaturgo zaddik (giusto), il rebe (maestro) Elimelekh: «Ma la storia più straordinaria tra tutte (…) fu quella di quando il Signore Iddio fu citato in giudizio e di come a giudicarlo fu niente di meno che lo stesso rebe Elimelekh (…) Accadde, un tetro giorno di sventura per tutta la nostra gente, che lo zar bandisse una gzeyra (decreto) con cui ingiungeva di scacciare entro un mese oltre i confini dello stato tutti gli ebrei».
Per scongiurare quel disastro, «tutti si misero a digiunare e a rivolgere al Cielo ardenti preghiere». Inutilmente, perché la scadenza del termine si avvicinava senza che nulla accadesse. E allora un pio ebreo profondo conoscitore delle scritture si presentò al cospetto del santo rabbino Elimelekh annunciando l’intenzione di «citare in giudizio il Signore Iddio davanti al Tribunale delle Sue stesse Leggi!» Lo zar infatti non era altro che «uno strumento nelle mani di Dio, uno strumento della Sua volontà». Dopo lunghe riflessioni, Elimelekh riunì un collegio giudicante di saggi e pii israeliti pronti «in nome della giustizia imposta a noi uomini (…) a esprimere un giudizio circa la giustizia delle azioni dell’Altissimo». Fu quindi istituito un tribunale, con tutte le forme e le procedure prescritte per dare corso all’azione legale intrapresa contro Dio. Dopo un’udienza in cui una voce dall’alto confermava la presenza divina al giudizio, la giuria si ritirò e dopo tre giorni di riflessioni e «ardenti discussioni», giunse ad emettere il verdetto: «Si conviene che questa funesta gzeyra, emessa con il consenso di Dio, condanna tutto un popolo, ivi incluse centinaia di migliaia di persone di nulla colpevoli, a sofferenze inaudite; si conviene che questa gzeyra è una feroce violazione della suprema legge dell’amore. In considerazione, dunque, di tutte queste cose e accusando Dio di ingiustizia noi, tribunale di uomini, basandoci su leggi divine e umane, esigiamo che questa funestissima gzeyra sia da Dio revocata». Il rotolo di pergamena con la sentenza, sottoscritto dai giudici, venne collocato nella sinagoga, tra i rotoli della Torah. Trentasei ore dopo, racconta la leggenda, lo zar revocò il suo decreto (3).
Per una volta, Giobbe aveva avuto giustizia.
Note bibliografiche
- Dostoevskij F. (1880), I fratelli Karamasov, Newton Compton, Roma, III ed., 2011, p. 300.
- Freud S. (1929), Il disagio della civiltà, O.S.F., 10, p. 607.
- Rajze E.S., Kostijukovic E. (a cura di) (2002), Racconti e storielle degli ebrei, Bompiani, Milano, pp. 142 e ss.
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