In questo scritto (già tradotto in diverse lingue, ma non in italiano) si propone al lettore un’acuta e approfondita indagine del tema della depressione – melanconia, bipolarismo – iniziando proprio dall’emergere di questa diffusissima condizione esistenziale e dalle definizioni concettuali e cliniche che sono state proposte nel corso dei decenni e dei secoli.
Cosa è la depressione? Quando un normale lutto si trasforma di melanconia devastante?
Vi è il rischio di confondere la normale fase di tristezza che chiunque può vivere in determinati momenti della propria vita con una condizione psichiatrica da trattare con psicofarmaci? E la persona depressa lo rimarrà, di fondo, sempre – sarà una condizione che si cronicizza? – oppure vi è la possibilità di tornare, o arrivare, a una vita che si può considerare normale?
Queste domande percorrono l’intero testo e sono calate nelle grandi dispute, o nelle grandi scommesse, se vogliamo definirle così, che hanno contrassegnato il percorso di cura della depressione: dai trattamenti psicologici a quelli esclusivamente farmacologici, fino alle terapie di shock. Lo sviluppo, il successo, il declino e la definitiva scomparsa di ipotesi e di orientamenti da applicare al trattamento della depressione diffondono un senso quasi di sgomento ed appaiono fin troppo vicine a mode o ad improvvise fascinazioni che non a regolari e faticosi percorsi di scoperta scientifica.
Certamente il mondo imperiale della depressione ha visto battaglie combattute da eserciti su fronti opposti: basti pensare all’orientamento psicoanalitico nel trattamento di queste forme, e a quello nosografico-psichiatrico, fino all’impostazione basata sul Prozac e affini – quest’ultima scelta ha contribuito a creare una società orientata a fuggire da ogni minima forma di disagio interiore e rifugiarsi nel sollievo offerto dalla chimica – e alla parte giocata dalle case farmaceutiche e dalle compagnie di assicurazioni (tematiche molto calde, specialmente in Nordamerica, a cui l’autore collega la questione delle diagnosi psichiatriche e dei relativi manuali, segnatamente i DSM nelle loro diverse edizioni). Percorrendo questa linea di pensiero Sadowsky si interroga su questioni di enorme spessore come sono quelle che ruotano intorno al senso della vita, alla necessità di saper sopportare i momenti di sconforto e di dolore mentale, fino a giungere ai confini delle vere e proprie condizioni psicopatologiche lì ove è assolutamente necessario ricorrere al supporto psicofarmacologico al fine di preservare la vita stessa della persona.
Andando oltre le contrapposizioni che vogliono vedere la depressione – ma forse dovremmo dire le depressioni – come frutto esclusivo di condizioni biologiche, oppure psicologiche, o ancora sociali, o infine cultural-storiche (cioè, legate al nostro tempo), Sadowski punta a una visione integrata di questa grave forma di sofferenza che (al tempo in cui il volume è stato redatto, quindi circa tre-quattro anni fa) vedeva nel mondo ben trecento milioni di soggetti depressi. Condizione che, come è noto, può abbastanza facilmente essere sovra-diagnosticata (quindi vedere un forte disagio mentale lì ove non è), ma anche sottovalutata, con tutti i rischi che ciò comporta, compresi i tentativi di suicidio e il suicidio realizzato.
L’approccio al tema che è stato scelto da Sadowski è naturalmente di genere storico, anzi storico-critico, culturale e cross-culturale (sono diversi i riferimenti alle dinamiche depressive nelle società non occidentali), ma ciò che impressiona è la capacità dell’autore di effettuare delle ampie sintesi e puntuali affreschi che permettono al lettore di capire realmente come, quando e perché si sono sviluppati i diversi approcci alla depressione. Alla psicosi maniaco-depressiva, dato che i primi riferimenti – a parte i classici dell’antica Grecia – risalgono all’Ottocento e ai contributi di Emil Kraepelin, sono dedicate pagine importanti che spaziano dai contributi fondamentali di Karl Abraham e Melanie Klein fino ad Alice Miller, senza trascurare gli studi junghiani e con due citazioni interessanti di quel bel saggio a firma di Silvano Arieti e Jules Bemporad (tradotto in italiano da Feltrinelli nella famosa collana Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica, numero 65).
Particolarmente accurata è la ricostruzione delle diverse fasi di individuazione e di scoperta (talvolta casuale) di molecole atte a intervenire sul tono dell’umore depresso – su questo argomento, al di là di ciò che ci dice Sadowsky, si può consultare la recentissima sesta edizione di The American Psychiatric Association Publishing Textbook of Psychopharmacology, a cura di Alan F. Schatzberg e Charles B. Nemeroff (American Psychiatric Association Publishing, 2024). Ma l’autore concede alcuni passaggi anche al mondo dell’arte: “l’autobiografia di Bruce Springsteen, Born to Run, è sia una celebrazione delle gioie del rock and roll, sia una riflessione sulle origini della depressione di Springsteen. Come Plath, Mingus e Robin Williams, Springsteen è un depresso con una vibrante creatività e un vorace appetito per la vita” (p. 147).
Se, da un lato, la depressione è stata incarnata nel soma (inserita culturalmente come una delle tante malattie del corpo, su base biologica) e di conseguenza medicalizzata, dall’altro è, ad esempio, richiamata e ripercorsa la triste esperienza che ha visto in tempi ormai abbastanza lontani la chiusura del famoso centro di Chestnut Lodge (nel Maryland, vicino a Washington), sulla base del famoso caso di Raphael Osheroff, ampiamente discusso, tra gli altri, da Gerald Klerman.
Emergono una quantità di domande e di ipotesi. Tra queste l’autore si chiede se la diffusione delle diagnosi – intese, qui, come vere e proprie etichette – di depressione non abbia infine portato le persone a denominare depressione le normali condizioni di disagio, malinconia e scoramento transitorie, fino al punto di considerarsi malati e, quindi, bisognosi di farmaci (un discorso simile si potrebbe fare circa l’utilizzo del termine panico e la diffusione selvaggia della figura retorica attacco di panico…). D’altro canto, dare una misura alla depressione, quindi valutare davvero quante persone sono depresse in un dato contesto sociale e culturale, potrebbe rappresentare un compito assai difficile, quasi da non praticare affatto, se considerato in un ottica diversa da quelle strettamente epidemiologica.
Sadowsky mette in guardia dalle grandi e definitive conclusioni a cui il riduzionismo ha spesso condotto. Come storico della scienza nota che nell’area del mondo psichico la capacità autocorrettiva della scienza appare lenta ed incerta, anche perché la variabilità dell’intero sistema è ampia: variano le forme di trattamento e variano, naturalmente, le menti umane! Dunque, gli approcci monodimensionali al fenomeno della depressione sono visti come altamente rischiosi e a questi argomenti l’autore dedica il penultimo, breve, capitolo in cui appare il paragrafo dal titolo History Against Compulsive Repetition.
Il testo si chiude con una nota storiografica, un ampio e molto interessante apparato di Note (oltre cinquanta pagine) suddivise per capitoli, la Bibliografia – ma numerosi intriganti testi sono citati tra le Note come, ad esempio, The Loss of Sadness: How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorder, di Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield (Oxford University Press, New York, 2007) – e l’Indice per nomi ed argomenti: sintetico ma efficace.
Da notare che gli unici italiani citati nel testo sono Lucio Bini e Ugo Cerletti richiamati, come si può facilmente immaginare, nel contesto della storia delle terapie di shock.
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