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RELAZIONE DI ARNALDO BALLERINI: Ricerca fenomenologica e ricerca empirica: quale rapporto nella psicotalogia?

28 Nov 12

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Recentemente un istituto di ricerca degli Stati Uniti, la Irwin Foundation, diretta dal prof. Michael Schwartz, uno psichiatra ben noto per i suoi contributi di ispirazione fenomenologica, ha rivolto a me e a diversi altri cultori europei di psicopatologia, un invito a partecipare con propri scritti ad una sorta di dibattito sul tema :<< Neurology and psychiatry should merge, since both share neuroscience as their foundamental science.>>

E’ una domanda inquietante ma che sollecita una riflessione non solo sui rapporti fra scienze diverse, tuttavia con punti di contatto sempre più evidenti, ma anche sul problema di fondo delle possibili o impossibili relazioni fra la ricerca fenomenologica, di ispirazione genericamente fenomenologica, che da Karl Jaspers in poi sostanzia la psicopatologia, e la ricerca empirica, che ha tante declinazioni nella psichiatria del presente.

Un fantasma si aggira nella psichiatria continentale, e specialmente in Italia: il timore di un "naufragio", come si è espresso Eugenio Borgna, della psichiatria nella neurologia. Questo timore ha radici storiche poiché molto a lungo la psichiatria italiana è stata , come insegnamento e come ricerca, ancella della neurologia, sulla trama di un positivismo arcaico e riduttivo.

Per quelli di noi che pongono una delle importanti basi della psichiatria nella psicopatologia fenomenologica la domanda potrebbe essere: quale rapporto può stabilirsi fra ricerca fenomenologico-eidetica e ricerca neuroscientifica ?

Qualcuno potrebbe esser tentato di asserire che fra ricerca fenomenologico-eidetica, che tenta di raggiungere l’essenza costitutiva dei fenomeni, e ricerca empirica che confronta dati oggettivabili, non vi è alcun rapporto, se non il fatto che lo psichiatra spesso usa entrambi i metodi, consapevolmente rassegnandosi ad una sorta di "salto mortale" epistemico. Io cercherò invece di dire che una tale dicotomia radicale non è oggi più tenibile, né sul piano della prassi né su quello dei presupposti teorici.

La recente ristampa in Italia di un ampio e ricchissimo articolo di D. Cargnello (1999) dedicato alla "Ambiguità della Psichiatria", ripropone a tutti gli psichiatri che tentino di essere consapevoli del fondamento epistemico del loro pensare e del loro fare, la realtà della posizione dilemmatica della psichiatria che, scrive Cargnello, <<costringe chi la esercita a oscillare tra un aver-qualcosa-di-fronte e un essere-con-qualcuno>>. Confrontati con l’apparente aporia di queste due posizioni, verrebbe voglia di rispondere: nè l’una, nè l’altra: bensì tutte e due. Anche se occorre ribadire, con Cargnello, di mai <<sorpassare il limite di quella distanza critica per cui un uomo non risulta più tale, ma solo qualcosa>>. Aggiungerei che l’esercizio della psichiatria si fonda proprio su questo: su una continua, innaturale, modulazione della distanza intersoggettiva e che soltanto posizioni di un estremismo radicale – ad esempio, o costante immedesimazione o costante oggettivazione – conducono a psichiatrie opposte ed impossibili. Con ciò forse non si fa altro che ripetere quanto, su un altro registro, ha scritto K.Jaspers (1913,1959):<< Ciò che caratterizza essenzialmente lo psicopatologo gli deriva dal fatto di trattare con gli esseri umani…Lo psicopatologo è legato alla propria capacità di vedere, di sperimentare interiormente e alla propria ampiezza di orizzonti…Impassibilità e commozione procedono unite e non possono contrapporsi, mentre la fredda osservazione di per sè non vede nulla di essenziale>>.

I vibranti, e per ogni psichiatra fondamentali, precetti jaspersiani si pongono, come è noto, sul piano di una fenomenologia "soggettiva", che pone la pre-condizione della psicopatologia nella priorità data alle esperienze interne, ai loro aspetti formali (ma, a ben vedere, anche al loro fluire tematico nella storia di vita) e al movimento dell’osservatore di comprenderle auto-comprendendosi: il limite del "comprensibile" divenendo non un limite della ricerca psicopatologica, ma un ordinatore di essa. La Natura può essere spiegata, la vita dello Spirito può essere compresa proponeva l’insegnamento di W..Dilthey, anche se oggi fra "scienze della natura" e "scienze dello spirito" si sono aperti innumeri varchi.

Intanto lo stesso termine "oggettivazione" delle persone, che per alcuni psichiatri suona come una condanna morale, può avere sensi diversi, come fra oggettivazione sul piano etico e politico, ed oggettivazione sul piano della conoscenza. Non perchè faccio passare in una provetta del sangue di un paziente per determinare,ad es.,il livello di litio, io tradisco la soggettività della persona; non perchè io impianto studi statistici, ad es. sulla frequenza delle caratteristiche oggettivabili attraverso rating scales del typus premelanconico di H.Tellenbach (1974), io vengo meno alla considerazione che <<Nihil est praeter individuum>>, come puntualizzava il filosofo Roscellino nel 1087.

D’altronde l’oltrepassamento della psicopatologia jaspersiana ad opera della antropofenomenologia, quale quella di L.Binswanger, di D.Cargnello, di W.Blankenburg e di altri grandi studiosi, significa porsi su di un piano che non incrocia più la dicotomia "comprensibile" vs. "incomprensibile" delle esperienze interne psicotiche, andando al di là dello sforzo di comprendere per immedesimazione (Einfuhlung), il che è pressochè impossibile senza partecipazione emotiva, e progettando invece di illuminare nello psicotico <<quale in essenza sia il "mondo" ch’è il suo mondo>>(D.Cargnello,1999). Come tutti sappiamo, proprio questo progetto di conoscenza della globalità e dell’essenza di una presenza umana era per K. Jaspers al di fuori dell’ambito di una psicopatologia scientifica.

Comunque sia, la psicopatologia di K.Jaspers, di K.Schneider, di G.Huber e di molti altri è stata ed è il fondamento più sicuro della psichiatria clinica, di fronte ad esempio ad odierne metodiche che trascurino o sottostimino l’esperienza soggettiva, in una carenza di ascolto tesa all’inseguimento di criteri il più "oggettivi" possibili. Non sappiamo invece se il modo antropofenomenologico di illuminare l’umana presenza sarà fondamentale per tutta la psichiatria, o resterà <<une glorieuse inutilité>>. (A.Tatossian,1979,1997).

In attesa di problematiche convergenze dobbiamo, sembra, convivere con la poliparadigmaticità dell’esercizio psichiatrico e constatare, come recita la citazione di C.H. Rumke riportata dallo stesso Cargnello a prova della disponibilità dello psichiatra , che <<il prend son bien où il le trouve>>? Frase che a me sembra più espressione di rassegnazione che di disponibilità alla convergenza fra saperi diversi.

D’altronde per uno come me immerso da sempre nella psichiatria clinica, un problema non trascurabile è quale modello di psicopatologia può sottendere la ricerca e la terapia psicofarmacologica e contribuire ad accrescere i suoi brillanti successi.

Tenterò sul tema del rapporto fra approccio fenomenologico e biologico in psichiatria, di delineare la mia opinione su di una loro non solo possibile ed utile, ma inevitabile integrazione, sia nella prassi, sia nella ricerca, senza che questo costringa noi psichiatri al ruolo di "saltimbanchi dell'epistemologia". Mi riferirò a tal fine alla teoria della conoscenza che parte dalla rigorosa indagine di E.Husserl (1913) sui fatti e fenomeni manifesti nella coscienza lungo il percorso del conoscere, e in particolare al modello epistemico che dobbiamo al pensiero di H.G. Gadamer(1993).

 

Ritengo:

1)che una volta evidente che la nosografia psichiatrica convenzionale è un compagno inaffidabile non solo per la terapia ma anche per la ricerca neuroscientifica (H.M.v.Praag 1993), il piano di riferimento che resiste sia quello della psicopatologia e della sua vocazione trans-nosografica;

2) che, a un livello più teorico, la vecchia divaricazione-opposizione diltheiana fra Scienze della Natura e Scienze dello Spirito, come del resto quella jaspersiana fra Erklaren e Verstehen, ha mostrato continui varchi e passaggi e non è più sostenibile una secca dicotomia, non solo nella concreta presa in carico di una persona, ma proprio dal punto di vista della ricerca, allorchè si tenga presente che una cosa è un utile riduzionismo "metodologico", altra cosa è un impossibile riduzionismo "ontologico", del resto ben lontano, mi sembra, dall'orizzonte biologico di oggi.

4)che la indispensabile pluralità dei metodi di ricerca in psichiatria ed il loro rinvio a saperi specialistici diversi, riguardi appunto delle tecniche, ma comporti tuttavia una unitaria cornice, comune del resto ad ogni conoscere, che proprio perché in comune ne permette e ne rende necessaria la loro integrazione, in una virtuosa complementarità fra ricerca fenomenologica e ricerca empirica.

Vale a dire, il nostro modo di procedere nella conoscenza implica comunque un <<circolo ermeneutico>> (H.G.Gadamer) nel quale si verifica, che il ricercatore ne sia consapevole o no, un continuo reciproco passaggio e rinvio fra pre-cognizioni generalizzanti, o, per chiamarle con il loro nome, "intuizioni eidetiche di essenza", e loro verifica o invece disconferma mediante i dati della ricerca empirica.

La psichiatria ha da sempre – si sa – una multidimensionalità di orizzonti conoscitivi e, nella storia delle idee, si sono affiancate tesi così opposte quali quella che fu di J.Heinroth (1818) che i disturbi mentali derivino sempre da peccati o passioni tumultuose, o quella che fu di W.Griesinger (1845) che le psicosi siano linearmente equiparabili a malattie del cervello. E' anche evidente che le grandi tesi di fondo della psichiatria sono ampiamente in relazione con visioni del mondo coeve, connesse al succedersi di prospettive filosofiche. Tuttavia la psicopatologia è sovrattutto un metodo, non ha una preordinata teoria della mente, ed i suoi presupposti metodologici sono chiaramente dichiarati. Anche per questo ha avuto ed ha la pretesa di essere una sorta di lingua comune, di "koinè" di base dei vari dialetti psichiatrici, e non mancano buone ragioni per sostenerlo, anche se non si può ignorare la persitente differenza fra connessioni di causa e connessioni di significato. Tuttavia, ricercando una sistemazione tipologica delle strutture di significato e tendendo ad individuare degli ordinatori psicopatologici di livello superiore rispetto a frammenti sintomatologici, la psicopatologia ha portato avanti il tentativo di fondare una scienza oggettiva – nel senso del rigore e della comunicabilità – dei fenomeni soggettivi, delineando la cogente integrazione fra la dimensione "impersonale-biologica" e quella "individuale-storica" nel concreto attualizzarsi dei disturbi mentali e nel concreto approccio terapeutico ad essi.

Nella prassi terapeutica continuiamo ad avere bisogno della psicopatologia nella particolare accezione della fenomenologia "soggettiva" di derivazione jaspersiana. Poiché se si trascura o si sottostima il tessuto di sfondo di quella psicopatologia che fa del vissuto del paziente lo strumento ordinatore essenziale, si è sull'orlo non solo di reificazioni arbitrario-convenzionali, ma anche di perdere l'unica base solida delle nostre prescrizioni farmacologiche. Potrebbe peraltro accadere che anche adottando una psichiatria meno categoriale e più dimensionale, il paradigma di riferimento delle prescrizioni farmacologiche divenga da diagnostico semplicemente sintomatico (magari transnosografico, visto che è stato dimostrato come i sintomi singoli non abbiano alcuna specificità diagnostica), ma senza alcuna preoccupazione per quale struttura globale della persona malata il sintomo traduca, nè alcuna considerazione per il rapporto veramente fondamentale, assai spesso fluido e modificabile dalle terapie, fra esperienza e sua possibile o impossibile elaborazione da parte della persona.

Un punto essenziale che la psicopatologia, nelle sue varie declinazioni fenomenologiche ha proposto, è la centralità del rapporto fra la globalità della persona, se volete la persona "spirituale" nel senso di M.Scheler (1950) e l'abnorme esperire che può pervaderla. La scelta terapeutica, di qualsiasi tipo sia, di questo deve anche tener conto: del confronto fra persona ed esperienza abnorme o, meglio, abnorme perché sproporzionalmente prevalente; in termini più pragmatici, del rapporto fra "primary illness" e "coping". Il binswangeriano rapporto fra "altezza" dell'esperire e "larghezza" della base personologica è, penso, la matrice propriamente antropologica della patologia psichica. Tutta la fenomenica psichiatrica quale si manifesta nella clinica potrebbe essere ricondotta alle vicissitudini di questo rapporto, ed io sospetto che sia essenzialmente su di esso, su questo equilibrio, che può essere irrigidito ma anche fluido e dinamico, su questa proporzione-sproporzione fra esperire ed elaborare, che noi incidiamo con i nostri farmaci.

Non c'è, nè potrebbe esserci, psichiatria che non risenta di un qualche sistema filosofico, ma una impresa scientifica dovrebbe essere massimamente attenta sovrattutto alla propria fondazione epistemica, ai propri presupposti. Vi è invece la tentazione da parte di una certa psichiatria di non considerare tali presupposti, illudendosi di essere del tutto "ateoretica". Un'altra tentazione è che ogni psichiatria si consideri un tutto in sè autosufficiente ed esaustivo, in quanto appunto sottostima o ignora gli assunti di fondo e i presupposti pre-conoscitivi che inevitabilmente ne sono alla base.

Se questo è vero per ogni impresa scientifica, lo è ancor più per la psichiatria, un ambito nel quale ci confrontiamo e lavoriamo con funzioni basiche dell'essere umano, lo studio fenomenologico delle quali resta fondamentale. Naturalmente per studio "fenomenologico" io non intendo- come purtroppo qualcuno fa – una semplice elencazione di sintomi, o una lista di frammenti comportamentali, ma uno studio delle esperienze vissute (nel senso di Jaspers), e inoltre una ricerca, attraverso la variazione eidetica e la ricerca di essenza, (nel senso di Husserl), di come la persona si profili come un tutto e progetti il suo mondo.

Così la fenomenologia fornisce un metodo per descrivere gli stati della mente, i fatti psichici quali essi sono, i fenomeni in quanto fenomeni e non quali vengono teorizzati o reificati. Questo metodo descrittivo è uno strumento da un lato per delineare e ordinare i fenomeni psicopatologici, dall'altro ci fornisce il materiale fenomenologico-empirico e descrive la strada che ci conduce all'"eidos" dei fenomeni, alle caratteristiche generali e di nucleo appartenenti a tutti gli esempi possibili della classe di oggetti considerati.

In mancanza di tale intuizione eidetica globale, di essenza, che inevitabilmente precede l'osservazione delle parti e la raccolta dei dati, nessuna conoscenza è possibile, nè quella quotidiana, nè quella diagnostica, nè quella di un progetto di ricerca. La scientificità è proprio garantita non dalla impossibile assenza di preconcetti e precognizioni generali, ma dalla consapevolezza dei sentieri eidetici che ci hanno condotto alle precognizioni e dalla disponibilità a cambiarle nell'urto con i dati empirici, se ciò lo rendesse necessario.

La psicopatologia fenomenologica, sovrattutto nei suoi sviluppi post-schneideriani, offre dispositivi di conoscenza che possono scambievolmente integrarsi con la ricerca empirica ed in specie biologica, evitando un riduzionismo sterile, ma anche evitando di costruire, in opposizione ad una psichiatria "mind-less", una psicopatologia votata ad essere per sempre "brain-less". La psicopatologia fenomenologica ritiene cioè che i fenomeni che osserva e che lascia comparire, a partire dall'interno esperire delle persone, oltre che essere traducibili in "sintomi", siano "segnali" che rinviano ad aspetti essenziali di particolari modi di esistere, sottesi da particolari modi di funzionamento della mente: il che non è indifferente per la ricerca neurobiologica.

Teniamo presente che uno dei fulcri della fenomenologia husserliana della conoscenza è il problema della formazione attraverso la <<variazione eidetica>> di concetti generali, concetti che toccano l'essenza, l'eidos appunto, di un oggetto. La variazione eidetica è una maniera di ragionare che è costantemente implicita in ogni lavoro scientifico (M.Spitzer e F.A.Uehlein, 1992), nel quale non semplicemente aggiungiamo dati a dati, che potrebbero tuttavia essere privi di senso, come quelli accumulati da un potente computer maneggiato però da una scimmia, ma formuliamo – esplicitamente o implicitamente – concetti generali, che riguardano il tutto prima ancora di conoscere le parti e senza i quali nemmeno sapremmo quali dati aggiungere e quali lasciare.

Insomma se gli epistemologi dicono che non esiste un occhio innocente, Luigi Pirandello aveva già scritto che <<un fatto è come un sacco: non sta su, se non ci metti dentro qualcosa>>. E' questo che rende meravigliosamente assurda la pretesa di una ricerca ateoretica, vergine di assunti di fondo e di pre-cognizioni mentali. << Senza la proprietà eidetica, l'oggetto (e quindi anche l'oggetto della ricerca, aggiungo) perde la sua identità>>, annota J.Z.Sadler(1992).

Lungi dall'impedirci di conoscere, le presupposizioni generali, di globalità, di essenza eidetica, ci rendono capaci di vedere le cose che sono. L'assenza di precognizioni, anche se fosse raggiungibile, ci accecherebbe rispetto a ciò che vi è da vedere.

Noi interpretiamo gli eventi solo sullo sfondo di presupposti e preconcezioni inevitabili e necessarie all'attività stessa del conoscere. Così facendo ci muoviamo all'interno del << circolo ermeneutico >> ove una precognizione globale, frutto della ricerca eidetica degli attributi di nucleo ed invarianti che indicano l'essenza di un oggetto, si confronta con la ricerca dei dati parziali, i quali a loro volta possono modificare la visione di essenza precedente. <<Il circolo (ermeneutico), scrive H.G. Gadamer (1986,1996) , non deve essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario…>>. << Un comprendere orientato con coscienza metodica dovrà non solo sforzarsi di realizzare le proprie anticipazioni, ma anche di renderle consapevoli di se stesse per vagliarle…>>, affinché <<il tema scientifico sia assicurato dalle cose stesse>>, prosegue Gadamer.

Questa non è una ricetta di una scuola di pensiero, ma lo stare sui "fatti" dell'esperienza, riaffermando contro astratte tesi la semplice constatazione che conoscere è intuire. La husserliana "visione eidetica di essenza", la "intuizione categoriale" non sono sofisticati teoremi filosofici, ma i modi con i quali avviene fattualmente nella coscienza il riempimento della intenzione di conoscere. La distinzione fra "essenza" e "fatto", ( vale a dire fra intuizione di essenza e rilievo dei dati), se può definire il terreno della ricerca fenomenologica rispetto a scienze particolari, apre alla consapevolezza metodologica che il dato di fatto empirico, l'oggetto della ricerca empirica, non è un che di ultimo già da sempre fatalmente determinato dalla pre-comprensione della essenza, ma anche un che di primo e fondamentale, del quale non si può nella conoscenza fare a meno e <<che supporta a sua volta ogni comprensione evidente di essenza>>, precisa ancora Gadamer.

Non si deve cioè credere – e questa è una delle grandi lezioni della fenomenologia – che pre-comprensione abbia l'attributo negativo di pre-giudizio: ha invece il senso di giudizio globale inevitabilmente e intuitivamente anticipato: la sua messa in luce ed il suo uso critico, e pertanto modificabile, sono la via regia della conoscenza.

Questa via epistemica è del resto stata applicata, come si sa, al complesso e perfino imbarazzante problema di come lo psichiatra pone concretamente la diagnosi, al di là di quelli che egli può ritenere essere i suoi criteri di scelta, sottolineando il ruolo fondamentale, anche nella conoscenza diagnostico-nosografica, di quel pocesso mentale indicabile come "typification" (M.A.Schwartz e O.P. Wiggins, 1987), quale maniera essenzialmente pre-concettuale, formatasi tuttavia nel contatto con l'esperienza. Anche qui è in atto il circuito fra intuizione globale e rilievo delle parti. E i possibili errori pre-concettuali possono essere corretti solo attraverso i dati incontrati, dati che tuttavia non avrebbero rilevanza conoscitiva, identità di senso, senza lo sfondo intuitivo eidetico generale che ne permette il rilievo. Una attitudine scientifica proprio in ciò sembra consistere: nell'essere consapevoli delle proprie pre-concezioni che informano il progetto di ricerca e nel non darle per garantite.

Si torna così al valore essenziale del "circolo ermeneutico" nel processo di conoscenza. Qualunque sia il nostro punto di partenza o la nostra specifica competenza e modalità di ricerca, noi siamo in quel circolo e dobbiamo necessariamente raggiungere,(e la fenomenologia mostra come), un pre-concetto, che è in realtà una visione di essenza , una ipotesi intuitiva delle caratteristiche generali ed invarianti dell'oggetto di studio, una visione che orienta il nostro conoscere ed i nostri progetti di ricerca, ed abbiamo poi bisogno di una conoscenza e verifica empirica dei dati,(e la ricerca biologica ci può insegnare come), significanti rispetto all'eidos del fenomeno ed in grado di dire la loro, retroagendo su di esso e modificandolo, in una circolarità senza fine .

Come potremmo noi, ad esempio, progettare e condurre uno studio neuroscientifico sul fenomeno "allucinazione" senza una preventiva preconcezione degli attributi di ciò che chiamiamo allucinazione; come potremmo affrontare il problema dell'eventuale specificità neurobiologica del processo schizofrenico e della vulnerabilità ad esso senza prendere in considerazione gli studi fenomenologici sui Sintomi Base e le <<sequenze di transizione>> (G.Gross e G.Huber 1995), o visioni di essenza indicate come "autismo" o come "perdita dell'evidenza naturale" (W.Blankenburg 1971); come potremmo condurre uno studio empirico-statistico sulla personalità premelanconica senza confrontarlo con visioni fenomenologiche quali quella del typus tellenbacchiano ? (G.Stanghellini,C.Mundt 1997), etc.

Il problema non è quindi la impossibile eliminazione del circolo ermeneutico fra fenomenologia ed empirismo, ma lo starci dentro adeguatamente.

 

Certo, noi proveniamo dalla antica parabola di Karl Jaspers secondo la quale le ricerche di psicopatologia fenomenologica e quelle di tipo somatico in psichiatria sono come l'esplorazione di un continente sconosciuto condotta da spedizioni di ricerca approdate su sponde diverse, divise da una distanza così grande da impedirne l'incontro. Noi oggi possiamo però aggiornare l'apologo di Jaspers non solo correlandoci a strutture più generali che la psicopatologia ha messo in luce a livello presintomatico, ma anche nella consapevolezza di un unico paradigma del conoscere, di un unico circuito che lega ricerca psicopatologica fenomenologica e ricerca empirica, quale è prevalentemente quella neurologica, sullo sfondo di una neuroscienza in comune.

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