Il problema del rispetto ci pare un argomento di estrema rilevanza nell'ambito delle relazioni umane in genere e in particolare nel contesto psichiatrico, in cui interagiscono operatori e pazienti in un equilibrio inevitabilmente non facile. Il predominio di una medicina e di una psichiatria dominate dalla tecnica rendono l'argomento "rispetto", con le sue implicazioni etiche, ancora più pregnante.
Il modus operandi di una spiritista nella cura di un paziente homeless ci sembra un esempio di rispetto da cui imparare e che può essere usato come orientamento per gli interventi sui pazienti. Lo esamineremo punto per punto, cercando di schematizzarlo.
Il caso è riferito da Sam Tsemberis e Ana Stefancic, in “The Role of an Espiritista in the Treatment of a Homeless, Mentally Ill Hispanic Man”.
A New York Mr. V, un uomo di 68 anni di origine ispanica senza dimora, viene ricoverato perché ritenuto a rischio per la vita e curato per cinque mesi con aloperidolo per allucinazioni uditive e deliri riguardanti la convinzione di essere posseduto da spiriti maligni. Dopo la dimissione, invece di andare in un dormitorio fornito dagli operatori, ritorna nello stesso posto su un marciapiede. Le sue condizioni psicofisiche peggiorano nei mesi successivi e richiedono un nuovo ricovero.
Nel momento in cui l’uomo viene fatto salire sull’ambulanza un altro homeless dice agli operatori che il ricovero sarà inutile perché il paziente “crede di essere posseduto”.
Lo psichiatra, l'infermiere e l'assistente sociale che hanno in carico il paziente raccolgono il suggerimento e decidono di rivolgersi a una spiritista. Julia, una donna ispanica di 72 anni, che percepisce una pensione sociale, presta la sua opera gratuitamente presso l’ospedale, che gestisce la sua agenda di appuntamenti (circa 8 alla settimana).
Tutti i passi del suo intervento, avvenuto alla presenza degli operatori, vanno esaminati uno per uno.
- Julia si presenta: cosa che medici e infermieri specie in ospedale almeno in Italia non fanno quasi mai. La presentazione, come ancora prima il saluto, implica il riconoscimento dell’interlocutore, la personalizzazione del rapporto, il non automatismo nello svolgere il successivo intervento, la creazione di una relazione e soprattutto di un dialogo tra due persone, che si trovano così in una situazione se non di parità almeno di non totale asimmetria.
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Julia dice a Mr. V che in questa vita le persone sono ricche o povere, ma è ciò che si trova nelle loro anime a determinarne il valore. Qui c’è un riconoscimento esplicito e molto sottile dal punto di visto psicologico del contesto culturale e sociale in cui si svolge il colloquio. Il contesto è preso molto seriamente in considerazione, invece di essere ritenuto non importante o addirittura disturbante ai fini della terapia.
Julia prende atto delle condizioni socio-economiche dell’altro, non finge di ignorarle o di metterle tra parentesi in base a una presunta neutralità/identità di tutti davanti a un intervento impersonale puramente chimico/farmacologico. Non evita di far riferimento alle sue reali e gravi condizioni di marginalità, pensando di poterlo offendere con considerazioni politicamente scorrette. Inoltre prende atto del sistema di valori in cui vivono il paziente, lei stessa, gli operatori e l’ospedale, cioè una divisione delle persone (a New York) in vincenti e in perdenti in base al livello economico (retaggio della divisione puritana delle persone in eletti/salvati e non giustificati in base al successo). Non solo prende in considerazione il contesto, ma non lo accetta acriticamente così com’è, bensì lo valuta in modo critico, esprimendo, senza preoccuparsi di dover essere neutrale, il proprio parere personale e divergente: le persone hanno un valore comunque indipendentemente dallo stato economico e si valutano in base ad altri criteri, che riguardano la loro interiorità. Inoltre Julia si sforza di capire lo stato d’animo del paziente e la sua visione di sé. Immagina che possa sentirsi senza valore per aver accettato e fatto propri i criteri di valutazione del contesto: povero, senza dimora, straniero e anche malato/pazzo. -
Julia dice che come Mr. V lei è nata povera ma che crede di essere, come lui, una brava persona. Julia a questo punto fa un riferimento a se stessa, non per fare una narcisistica self-disclosure di tempestose vicende personali, ma per sottolineare che condivide con lui la stessa situazione sociale, culturale ed emotiva. Anche lei ha dovuto fare un lavoro emotivo per distinguere tra i valori espressi dalla società circostante e la sua propria valutazione di se stessa. Crea così un terreno comune, non generico ma concernente proprio i problemi fondamentali attuali dell’esistenza del paziente.
Julia riconosce che Mr. V ha un’identità, una visione di sé, che questa è importante ai fini del trattamento, che è influenzata da tutto quello che gli è successo prima e che gli sta succedendo ora. Non solo, ma che la visione di sé è oggetto di conflitti, di rimaneggiamenti, di influenze da parte di quanto viene comunicato dagli operatori. Inoltre, programmaticamente, Julia dichiara di credere nel valore di chi le sta davanti e introduce altri possibili criteri di giudizio oltre a quelli basati sulla ricchezza/povertà o sulla salute/malattia o sulla giovinezza/vecchiaia. - Julia rivela di aver trovato sollievo e conforto nella fede in Dio, altra comunicazione di esperienza personale che non vuole imporre all’altro, ma che dichiara come riferita a se stessa. Implicitamente ammette di aver avuto bisogno nel passato di sostegno e di consolazione, introducendo in modo molto discreto l’idea che tutti, prima o poi, si trovano in condizioni di sofferenza e necessitano di essere aiutati. Non si presenta come una superdonna immune da qualsiasi debolezza, o come un robot che eroga prestazioni ma anche lei come una persona con una sua storia e che perciò si trova su un terreno comune con l’altro anche in materia di difficoltà vissute da entrambi.
- Si noti en passant che finora il dialogo, durato ad occhio e croce una decina di minuti, non ha richiesto procedure complesse, come somministrazione di test o questionari. Alla fine, come si vedrà, risulterà tuttavia molto efficace.
- Tutto quanto è stato detto finora da Julia ha comunicato abbastanza chiaramente al paziente 1) chi è lei; 2) quali sono le sue intenzioni; 3) che visione ha dell’altro e come lo considera.
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Julia a questo punto chiede a Mr. V quali siano le sue convinzioni e le sue pratiche religiose. Da notare che la domanda non è fatta a bruciapelo, ma dopo tutta una premessa che fa comprendere al paziente il perché della richiesta. La domanda non fa parte di un’anamnesi medica né di un questionario diagnostico o statistico da barrare con delle crocette, ma è inserita in un discorso in cui si parla di valori e di convinzioni personali, in cui Julia è stata la prima ad esporsi e a dichiarare il suo punto di vista.
Il paziente non è un oggetto da stimolare per avere delle risposte, oppure a cui applicare dei protocolli, ma una persona. Inoltre a questo punto Julia di nuovo non teme di essere politicamente scorretta, affronta un tema che può essere scottante e sensibile, ma lo fa a ragion veduta senza inutili remore. -
Mr. V immediatamente si coinvolge nel dialogo e risponde di essere sempre stato credente fin dall’infanzia e di aver sempre frequentato i servizi religiosi ogni domenica. La sua vita aveva preso una svolta negativa quando la ditta dove lavorava era fallita, era rimasto disoccupato, aveva cominciato a bere, la moglie e i figli lo avevano abbandonato ed era stato sfrattato da casa. Ovvio notare che il paziente, che aveva una diagnosi di demenza, depressione, disturbo psicotico non altrimenti specificato e che passava il tempo borbottando parole sconnesse su Dio, risponde e reagisce subito alla domanda, descrivendo non una vicenda medica ma la storia della sua vita spirituale, emotiva e familiare, che appare estremamente dolorosa.
Considerato come un interlocutore, si comporta come tale, rimane se si può dire così nel tema, dando risposte pertinenti al problema profondo affrontato e comunicando una serie di notizie come l’alcolismo che potrebbero farlo giudicare negativamente e che ora si sente di poter portare a conoscenza di chi gli parla. - Mr. V dice che le sue disgrazie e le sue sofferenze sono dovute al fatto che è posseduto da uno spirito maligno. Il fatto di trovarsi senza dimora, l’alcolismo, le piaghe che stando sempre seduto in strada si sono aperte nei suoi piedi sono irrilevanti rispetto al danno irrimediabile alla sua anima. A questo punto sente di poter dire qual è la sua autodiagnosi, quale è secondo lui la causa dei suoi problemi, il significato e il valore che attribuisce al suo disagio, che non interpreta come una malattia, perché non si considera malato, ma che collega a tutte le circostanze, sia azioni proprie che eventi subiti, che lo hanno portato a trovarsi in questo momento in questa situazione. Il tutto avviene all’interno di uno scambio e di un dialogo. Il paziente mette la sua parte nel costruire una comunicazione che si svolge nei due sensi.
- L’ospedale non gli piace, il personale non fa niente per lui, non vuole partecipare a nessun trattamento e non accetta neppure le medicazioni alle piaghe che ha nei piedi. Il paziente, forse anche perché si trova davanti una persona che non fa parte dello staff della struttura, dice la sua, cioè esprime un parere anche nettamente in contrasto con la visione generale condivisa nell’ambiente. Cioè si esprime: la spiritista con il suo comportamento non gli ha impedito la libertà di parola, che vuol dire anche conflitto e non totale accordo di punti di vista. Ora il paziente ha anche la libertà di dire di no, di non mostrare compliance rispetto a un trattamento a cui non sente di partecipare ma che vive come imposto. Si apre uno spazio per la contrattazione e la negoziazione. Il rispetto è la possibilità di uno scambio di opinioni, anche divergenti. En passant si sottolinea che per rendere possibile il rispetto deve esistere sempre un canale di comunicazione con l’esterno dell’istituzione, un terzo punto di vista accessibile (parenti, associazioni), anche se spesso è vissuto esclusivamente come un fastidio e un impaccio. Per quanto bene e disinteressatamente l’operatore pensi di stare agendo, finirà per non rispettare il paziente se non deve rispondere delle sue azioni a un referente esterno. È un aiuto e una garanzia in primo luogo per l’operatore stesso.
- Julia allora introduce un’altra sottile e importante distinzione tra le azioni del paziente e la sua anima. Tutte le difficoltà e anche le colpe che ha commesso possono essere cattive ma non hanno reso cattiva la sua anima. Julia come si è detto prende in considerazione la storia del paziente e non la trascura/annulla a favore di una visione ‘scientifica’ intesa come abolizione del contesto e delle differenze. Julia non compatisce il paziente, non diventa la sua paladina in modo acritico, non lo considera una vittima della società (forse lo è anche), lo considera responsabile delle sue azioni, non lo giustifica né lo assolve, né minimizza o consola o distrae. Lo tratta come una persona adulta come è lei stessa. Pensa che il paziente possa sentirsi colpevole perché si è messo a bere e perciò anche arrabbiato, infelice, disperato e in un certo modo meritevole della propria situazione e che non veda la possibilità di cambiarla. Gli dà credito di provare dei sentimenti, anche negativi come si è visto sopra, cioè di esprimere anche dissenso. Si noti cosa Julia non fa: non compatisce il paziente, non lo assolve, anticipando qualsiasi richiesta, da ogni responsabilità della propria situazione, non lo abbraccia e non lo bacia, anzi si mantiene piuttosto distaccata, non fa leva sulla comune appartenenza etnica per istituire un’alleanza contro qualcuno o per crogiolarsi nel vittimismo. Non appare vistosamente empatica, ma si esprime in modo sobrio, non particolarmente caloroso. Considera l’altro come una persona dotata di capacità morale nel bene e nel male e non come una povera vittima. In nessun momento sembra che classifichi il paziente secondo un qualche criterio, neppure come posseduto, ma lo tratta sempre come un interlocutore capace di rispondere e di capire.
- Julia gli dice di essere in grado di allontanare lo spirito cattivo che lo possiede e gli chiede il permesso di poterlo fare. Cioè dichiara esplicitamente qual è il suo modo di vedere la situazione, il rimedio che può essere efficace secondo il sistema di riferimento in cui crede, ma date tutte queste premesse non lo applica automaticamente bensì chiede al paziente se può applicarlo. Non c’è quasi niente da aggiungere, se non che la richiesta di permesso non è una formalità, bensì scaturisce da tutto l’atteggiamento precedente e che la convinzione di avere a disposizione una cura efficace non rende doveroso, eticamente giusto e obbligatorio applicarla tout court al paziente. Si noti anche che Julia non si dilunga a convincere, spiegare o insistere, si limita a comunicare quello che pensa. Non dà il consenso del paziente per scontato o inevitabile dopo una serie di informazioni, bensì lo fa derivare da una condivisione precedente di idee e anche di valori. Non c’è, si badi bene, nessuna suggestione o manipolazione. Trattandosi di un esorcismo forse sarebbe stato ragionevole aspettarsi qualche scena drammatica, ma tutto il procedimento è quasi asettico.
- Il paziente accetta.
- Julia legge un passo della Bibbia, tocca la fronte, le mani e i piedi di Mr. V con l’acqua presa da una bottiglietta. Dà importanza a una vicinanza non invadente e discreta, riconosce un’importanza ai gesti e non soltanto alle comunicazioni verbali, cioè a tutto il mondo comunicativo condiviso degli esseri umani. Sarebbe interessante sapere quale passo della Bibbia è stato letto (parabola del figliol prodigo? altri passi che parlano di perdono? esorcismi da demoni?). La Bibbia in questo contesto appare un riferimento condiviso da entrambi, uno sfondo valoriale che entrambi capiscono e al quale attribuiscono un’importanza (come il DSM per gli psichiatri? soltanto in meglio, meno schematico e più articolato). Va notata la pochissima teatralità di tutto il rituale, sicuramente minore rispetto ad alcune procedure mediche.
- Alla fine del rituale Julia dice al paziente che non è più posseduto e gli consiglia di collaborare con il personale e cominciare a cambiare le medicazioni. Julia non dice di aver risolto tutto una volta per tutte o che il suo trattamento è il migliore o che sostituisce tutti gli altri. Non si mette in antagonismo e non lo costringe a prendere le parti di una o dell’altra visione del mondo, ritiene che al paziente debba essere data una comunicazione equilibrata e lo considera in grado di recepirla. La differenza, non da poco rispetto a prima, è che ora il paziente non è più un oggetto passivo ma è diventato un interlocutore attivo e responsabile. Le medicazioni sono esattamente le stesse, ma il loro significato nella vita e nella storia del paziente è completamente cambiato.
- Julia informa il personale che non c’è necessità di ulteriori sedute di follow up ma che è d’accordo di tornare se questo può confortare gli operatori. Sottile (neanche tanto) ironia? Forse. Oppure riconoscimento che gli operatori sono persone anche loro e che come il paziente hanno diritto a una considerazione dei loro sentimenti e delle loro difficoltà, anche quando si tratta di senso di impotenza e di rabbia.
- Il paziente nei successivi tre anni sta bene, collabora con il trattamento, viene dimesso e inserito in una struttura protetta e non torna più a vivere per strada. Miracolo? Coincidenza? Assoluzione rispetto ai sensi di colpa? Effettivo esorcismo?
Considerazioni conclusive
In primo luogo si devono ringraziare gli autori dell’articolo che hanno descritto nei particolari quanto è avvenuto, dando la possibilità ai colleghi anche nel futuro di riflettere su un’interazione umana complessa e ricca. Inoltre si deve essere grati al Progetto HELP di cui fanno parte, perché provvede a osservare le persone senza dimora in strada, impedisce che muoiano di freddo o di malattia, le cura e le ricovera. Il paziente da morto non avrebbe potuto trarre giovamento da nessun trattamento, medico o spirituale. Il progetto HELP evidentemente si basa su una serie di valori: la vita umana è importante; è importante anche la vita di persone marginali, malate, non produttive; vale la pena di investire soldi, energie e anche creatività per salvarle e per curarle. Inoltre gli operatori, disperati come succede in realtà spesso agli operatori psichiatrici, danno ascolto alle parole di un’altra persona senza dimora che durante il ricovero del paziente li informa che il ricovero non serve a niente perché lui (il paziente) crede di essere posseduto. Accettano un punto di vista alternativo, forse anche perché quelli precedenti non hanno avuto molto effetto e si dichiarano disposti a prenderlo in considerazione o perlomeno a non rifiutarlo a priori. A questo punto ricorrono a un’altra figura e sembra che la pratica clinica in un ben preciso contesto urbano e socioculturale li abbia già messi in contatto con una spiritista e che già ricorrano alla sua esperienza. Dalla descrizione del caso risulta evidente che gli operatori non condividono la visione del mondo della spiritista e del paziente, ma questo non gli impedisce di rispettarla, sebbene non sia suffragata da prove evidence-based. (Sarebbe anche difficile reclutare un campione statisticamente significativo di spiriti maligni. O forse no?). (Inoltre il rituale non sarebbe facilmente replicabile, dato che è un incontro irripetibile tra due persone).
Tutto questo procedimento è un esempio di rispetto applicato non soltanto a una singola interazione ma a tutto un programma di intervento (non necessariamente perfetto in ogni suo punto, ma come potrebbe esserlo?). Risulta anche che il rispetto in un certo senso è un processo più che un concetto statico e che ci si arriva tramite un percorso accidentato e non per una posizione programmatica né tantomeno facile.
Cerchiamo di imparare qualcosa da una vera maestra di saggezza.
Il rispetto sembra un concetto profondo e allo stesso tempo sottile: Forse il rispetto come il coraggio uno non se lo può dare e non lo può dare agli altri perché deriva da una lunga elaborazione interiore che non può essere ridotta in ricette o in formule. Intanto si capisce che certe convenzioni sociali, come il saluto o la presentazione possono essere ipocrite, ma si sa che l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù (La Rochefoucauld). Vale a dire, ribelli anticonvenzionali possono vederle come pastoie da superare e cancellare, ma in realtà come tutte le tradizioni contengono un valore implicito. Quando si saluta qualcuno e ci si presenta, si fa un atto di riconoscimento dell’altra persona che giustamente se non lo riceve si può risentire, a ragione e non per una ipersuscettibilità, quasi sempre attribuita ad altri senza neppure consultarli. Probabilmente il politicamente corretto è una caricatura del rispetto e in realtà una sua negazione, perché considera chi dovrebbe in teoria proteggere soltanto come una vittima totalmente inerme, appunto ipersensibile, priva di qualsiasi senso di ironia o autoironia, priva di autodeterminazione o di responsabilità, esclusivamente innocente, incapace di prendere atto della realtà e della storia, che si può aiutare soltanto modificando la realtà stessa anche drasticamente fino a farla coincidere con la sua (presunta) sensibilità.
Tutto il contrario di quanto Julia fa o non fa. Julia considera il paziente come una persona dotata di convinzioni, di emozioni e di valori, di una storia che fa parte della sua identità e che perciò non va abolita, ignorata, cancellata o minimizzata anche se molto dolorosa, trattandolo in modo assolutamente identico a tutti gli altri per paura di commettere un’ingiustizia.
Probabilmente invece mancano di rispetto tutti i procedimenti, di solito animati da buone intenzioni, o dalla necessità di far funzionare nel migliore dei modi qualsiasi istituzione con efficienza ed efficacia, che non riconoscono l’identità della persona, la mortificano e la danneggiano, ledono l’autostima anche in modo permanente e irreversibile, modificano più o meno pesantemente l’aspetto fisico, il vestiario, il nome, impediscono l’uso degli oggetti personali, ostacolano l’autonomia e la capacità decisionale (anche soltanto di entrare e di uscire quando si vuole), riscrivono la storia della persona in base a criteri predeterminati, di solito per convincerla di essere malata, allentano o recidono i legami familiari, sociali e professionali, ostacolano o non favoriscono l’uso delle qualifiche e delle capacità lavorative preesistenti in favore di altre, riducono la persona a una sola delle sue caratteristiche, cioè quella di avere una malattia fino a considerarla come appartenente a un’unica categoria, quella dei malati, giudicano il suo comportamento in base alla maggiore o minore adesione alle cure, riducono atti complessi unicamente a sintomi, come a suo tempo brillantemente sostenuto da Ervin Goffman.
In fondo il paziente che voleva tenersi le sue bende infette non era soltanto psicotico, ma faceva capire che ci voleva veramente qualcos’altro, su un altro piano, per farlo star bene. Il rifiuto delle cure era il suo modo per farsi capire. La persona è tale quando sente di avere un’identità riconosciuta, attiva, apprezzata.
BIBLIOGRAFIA
Goffman E. (1961) Asylums. Le istituzioni totali. I meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 2010
La Rochefoucauld F. (1653) Massime morali, Feltrinelli, Milano, 2014
Tsemberis Sam, Stefancic Ana “The Role of an Espiritista in the Treatment of a Homeless, Mentally Ill Hispanic Man”, in “Psychiatric Services”, Dicembre 2000, Vol. 51 N. 12
(https://ps.psychiatryonline.org/doi/full/10.1176/appi.ps.51.12.1572).
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