Siamo negli anni ‘60 del secolo scorso: dei 188 “malati psichici ricoverati nel periodo 1965-66 nella Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Genova, il 26% erano immigrati: di essi il 55% ebbe diagnosi di depressione, il 20% di schizofrenia, il restante 23% di “altre forme”.
Il prof. Romolo Rossi ne scrisse cercando di mettere a fuoco tanto i fattori psicogeni collegati ai problemi ambientali e psico-sociali, quanto quelli personali legati all’esperienza dell’immigrazione che agirebbero “ a livello patogenetico, a volte patoplastico”. L’attenzione di Romolo Rossi si concentra sulle depressioni che sarebbero in maggioranza reattive, o meglio, a mezza via fra l’endogeno e il reattivo, come già evidenziato da psichiatri di lingua tedesca in italiani immigrati in Germania. Di particolare rilevanza risultava lo sradicamento, agente di traumatismi cronici. Gli autori tedeschi si erano soffermati sull’azione dei tratti socio-psicologici dei luoghi di insediamento, ma più importanti emergevano i tratti socio-psicologici dei luoghi di partenza , “base della costituzione della self-image” ed elementi formatori dei modelli di reazione al nuovo ambiente.
La Liguria, in cui Romolo Rossi operava, era diventata un’area di forte immigrazione dall’Italia Meridionale e la situazione risultava sovrapponibile a quella già osservata in Germania:
– quanto alle località di arrivo, osservate situazioni di pseudo-inserimento con isolamento sociale, bassa autostima, una sofferenza psichica vissuta come fallimento. Come difesa, il ritiro in “isole” fra compaesani, con forti spinte depressive, in cui si condividono ragioni ed esperienze di incapacità, impotenza, paura del “fuori” ma anche “una notevole diffidenza all’interno” per la quale spesso i pazienti sono rifiutati più dai corregionali che dagli altri.
In particolare, Rossi annota che quando la scelta di migrare non è libera, la condizione del migrante è simile a quella dei deportati e dei perseguitati politici. E, ancora, quando le donne (mogli e figlie) tendono ad allontanarsi dagli schemi dei luoghi di origine, si verificano situazioni di una “perdita più globale e attuale in senso psicogenetico e sociogenetico generale. Questo senza considerare fattori costituzionali ed altri quali:
Fattori di traumatizzazione |
Aspetti dinamici |
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Stereotipi culturali diversi |
Efficienza del compenso |
Tendenze al riferimento |
Vissuti di perdita |
Difficoltà economiche |
Rinunzia alla leadership |
Problemi famigliari |
Caduta dell’autostima |
Isolamento |
Rigore superegoico |
Perdita dell’immagine di sé |
Richiesta di apporto affettivo |
Aggressività esterna |
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Fattori di vitalizzazione |
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Fattori costituzionali Circoli chiusi legati all’autoriferimento |
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Disagio somatico e debilitazione |
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Regressione narcisistica |
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Tabella pag. 110 |
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Ma “la vera radice del male” si sarebbe dovuto cercarla nei “luoghi di partenza”, secondo quanto avevano evidenziato gli studi francesi di Lengran e Rovan condotti nel 1961 in Calabria nelle comunità di provenienza di migranti nelle quali “gli uomini in questo mondo non sono che in piccolissima parte artefici della propria vita”. E ancora: “Il calabrese (come più in generale il meridionale di tutte le regioni) sogna l’azione anziché condurla a termine, soprattutto quando sarebbe necessario rompere lo stretto cerchio della necessità quotidiana. L’emigrazione mal preparata è spesso seguita da effetti disastrosi, è stata una forma di evasione “. Il mondo sociale, come quello naturale è subìto: le strutture sono viste come qualcosa di estraneo, lontano, ostile. (…) la paura si manifesta anche nei confronti di qualsiasi cambiamento. L’esistenza è un equilibrio instabile, minacciato ad ogni istante (…). Le istituzioni tradizionali, anche le più tiranniche assumono l’ aspetto di un rifugio e di una valvola di sicurezza contro questa grande paura di vivere”.
Secondo i due sociologi francesi, in Calabria non si poteva parlare di una vera società a causa dell’isolamento culturale e della polverizzazione sociale, con famiglie che non funzionavano come reti di comunicazione dentro e con il mondo.
Di qui non solo l’assunto che i fattori che stanno alla base della depressione da sradicamento dell’immigrato meridionale andrebbero ricercati nella società da cui proviene, ma anche il riconoscimento dell’inefficacia degli interventi nelle società di arrivo: “lo psichiatra, l’assistente sociale non potranno mai comprendere né penetrare questo mondo, a cui sono estranei”.
Qui Rossi prende le distanze e afferma che “le equipes psichiatriche nel settentrione tendono ad operare secondo un atteggiamento discriminatorio nei riguardi degli immigrati: lo psichiatra, dunque, è incatenato al pregiudizio”. Così egli spiega la grande prevalenza della scelta dell’ECT negli immigrati a differenza di quanto accadeva nei non-immigrati per i quali si faceva ricorso ai farmaci. Non solo, ma il distanziamento emotivo dei professionisti impediva loro di adottare “atteggiamenti psicoterapici” fino ad arrivare ad “atteggiamenti di reiezione”.
E conclude affermando che di fronte ai problemi dello sradicamento l’intervento psichiatrico a qualsiasi livello “è ben misera cosa”: queste situazioni hanno radici economiche, culturali, sociali e politiche, ed è su questo piano che vanno affrontate, a più ampio respiro”.
Buon Primo Maggio a tutte e tutti.
Romolo Rossi, Aspetti psicogeni nella psicopatologia della immigrazione – osservazioni sulle depressioni da sradicamento, Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, 1971, 32, pp.103 -114
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