If I can stop one Heart from breaking
I shall not live in vain
Emily Dickinson
I shall not live in vain
Emily Dickinson
Stanotte quattro le mie stelle cadenti.
Un tossico autolesionista con il torace completamente tagliuzzato, una straniera confusa e vagabonda condotta dalla polizia, due bipolari, uno con tentato suicidio da farmaci e uno con depressione agitata ed ideazione suicidiaria.
Quattro ricoveri.
Per noi della prima linea è la regola : non c’è agosto che tenga. Mentre i tavoli istituzionali di discussione hanno sospeso le diatribe, nella fucina degli SPDC si batte ferro a caldo. Ma tra una andata e l’altra in PS, il mio pensiero stanotte corre a Clara. Non riesco a dimenticarla.
E’ difficile mantenere non dico l’empatia, ma anche la memoria vivida di qualcuno quando fai 400 ricoveri l’anno. E per ognuno che muore (per cause organiche) ti arrivano denunce. Questa è la psichiatria vera, quella sporca. Ma io non ci rinuncerei per nulla al mondo. Mi dispiace che i giovani qui non ci vogliono venire. Sognano quasi tutti una scrivania ed orari d’ufficio. L’emergenza li spaventa. Il territorio è sgranato e l’unica realtà attiva h 24 è rimasta il PS.
Ma torniamo a Clara. Metto in fila i pensieri. E’ una mattina torrida di agosto. Chiamata di emergenza dal PS. Quindicenne in OBI per intossicazione da numero imprecisato di compresse di paracetamolo. Lasciare l’aria condizionata del reparto ed entrare nella “callara” esterna è lo sforzo più grande che facciamo. Ma il cuore batte. “Quindici anni dottoree? E che dobbiamo fare con questa? Stiamo diventando l’asilo nido?” Il commento degli infermieri è netto e squalificante. Mi ripeto queste parole nello spazio che separa il reparto dal PS “stiamo diventando l’asilo nido..:”. non so nulla di neuropsichiatria infantile e mai avrei fatto il neuropsichiatra infantile. Ma intanto nel 2023 abbiamo ricoverato 22 minori. L’epidemiologia sale vertiginosamente. I Servizi, certo, non la inseguono. All’ingresso dalla porta laterale del PS un clima siberiano ci rianima di colpo. Le tende azzurre dell’OBI coprono una fila di corpi nudi tra lenzuola, cannule ed ossigeno. La collega emergentista ci vede entrare, e senza staccare gli occhi da monitor ci indica con il pollice all’indietro la posizione della ragazza. La scorgiamo e ci approssimiamo. Con me ci sono due giovani colleghi, di cui uno specializzando. Faccio cenno alla madre di lasciarci. “Chiara, perché lo hai fatto?” “Voglio morire. La vita non ha senso. Nessuno si ricorderà di me. E voi lasciatemi perdere”. Risposta netta, senza neanche voltarsi verso di noi, secca, stizzosa, come se noi fossimo gli ennesimi stronzi di questo noioso mondo degli adulti, del quale ella evidentemente non vuole far parte. La ricevo come una fucilata in pieno viso. Ho dolore. La mia contro risposta è di pari portata, bruciante: “Da oggi tu rimani con noi in psichiatria”. Il suo corpicino esile a questo punto sussulta, squassato da un palpito, si volta con piglio saccente, espressione incazzosa, scosta le lenzuola da dosso, emergendo nella sua magrezza :“Non voglio! Tanto non potete fare niente. Quando esco lo faccio. Nessuno potrà fermarmi. E’ l’unica cosa che ancora desidero. L’unica cosa che mi emoziona è morire, lo capite? E’ la sola esperienza che non ho mai fatto”. Mi partirebbe un ceffone, se fossi suo padre. Mio padre, di fronte a me alla sua età, si sarebbe sfilato con finta calma la cinta dei pantaloni e l’avrebbe brandita roteandola nell’aria. Ma io non sono suo padre. Non sono neanche un padre. Anche se davanti a lei più che un medico mi sento paternalistico. Un padre sociale, un padre sanitario. Forse, chissà, non per mia scelta, l’ultimo dei padri rimasti. La mia vita, in fondo, è 4 volte la sua. La mia adolescenza è stata assai diversa. Che mi piaccia o no, che lei voglia o no, sono io, adesso, che ho l’ultima parola. Sono io che, dimettendola, la autorizzo a sperimentare la sua premorte. Ma chi è questa Clara, piccola stronza, la guardo fissa nel fuoco della sua rabbia, i suoi tratti neri contrastano con la mia barba bianca, mi sembra una rondine caduta dal nido, e di colpo, su questa immagine, la mia rabbia si trasforma in tenerezza. Le farei una carezza, se potessi. L’abbraccerei. In fondo, avvolta in queste lenzuola, col cellulare stretto in mano, sembra davvero una di quelle rondini che raccoglievo da bambino cadute dalle grondaie dopo la pioggia, le asciugavo con il phon e volavano. La memoria sensoriale di quei corpicini frementi nelle mie mani è indelebile.
Clara è una rondine: incarnato scuro, esile, piercing ad entrambe le ali del nasino, occhi neri e profondi, capelli lunghi corvini con riccioli alle punte, sopracciglia bionde completamente rasate, tatuaggi tribali e allegorici per il corpo. Cicatrici di tagli agli avambracci. “Clara, quello che vuoi tu adesso non conta più. Decido io per te. Starai qualche giorno con noi e basta. In buona compagnia”. Si volta e smette sdegnata di parlarmi. In reparto abbiamo una diciottenne ipocritica che scambia a raffica con tutti foto dei propri genitali su Instagram, finita da noi a seguito di alterco violento con la madre che la ha scoperta; un diciassettenne reduce da funghetti, acidi, anfetamine e cannabis, che cammina come un robot; un diciassettenne dell’Est Europa, abbronzatissimo, adottato da una coppia italiana, che su una delle nostre isole ha dato in escandescenze dicendo che Putin lo sta cercando, perché lui è un genio. L’età media del reparto adulti, con loro, si è dimezzata di colpo. Nessuno dei quattro giovanissimi ha tenuto la (o è stato tenuto dalla) presa in carico dei Servizi territoriali. Delle coppie genitoriali due sono separate. Scosto la tenda dell’OBI. La madre aspetta fuori, in silenzio, con atteggiamento da spia. Il collega di guardia della notte, chiamato, le aveva già detto che se la poteva portare a casa. E’ inviperita. Disperata ed impotente. Chiede di fermare la figlia, a tutti i costi. Da tempo è una scheggia impazzita e lei non la tiene più. Clara in reparto, il giorno dopo il ricovero, sta coperta come una mummia sotto il lenzuolo. Si rifiuta di rispondere. E’ arrabbiata con me per l’ingabbiamento. SPDC adulti: grate alle finestre, cortile interno a cielo aperto, struttura solida a pianta quadrata, disponibilità del cellulare ad orari, il resto dei pazienti cronici, tossici, acuti, ed un giudiziario in attesa di REMS. Infermieri attoniti. Cibo che fa schifo. Televisore comune che gracchia roba neomelodica. Le colleghe della NPIA si attivano. Vengono tre volte in in reparto, si trattengono a lungo con lei. Cercano strutture alternative all’SPDC. Con gli assistenti sociali si ricostruiscono le trame giuridiche, i tutori, il giudice tutelare, chi è ancora nella patria potestà e chi no. Al letto di Clara dichiaro ad alta voce alle colleghe, durante il giro: “Se Clara non collabora, vuol dire che da qui non esce”. Dal giorno dopo iniziamo i colloqui. Rabbia, veleno, accuse di averla intrappolata, per giunta con accanto h24 la madre che lei odia”. “Tua madre è l’unica risorsa che hai per uscire da qui. Trovaci un accordo”. “Mia madre è malata, è lei non me che dovete curare”. Il ruolo di fare da muro, di sostenere la realtà è pesante. “Non ti ho portata io in ospedale, Clara. Hai tentato il suicidio. Ci sono azioni che chiamano reazioni uguali e contrarie. La tua è stata un’azione violenta contro te stessa. La mia reazione non può non essere altrettanto violenta. Se privarti della libertà è violenza”. Dopo lo scontro inizia l’incontro. Il racconto dei Rave senza fine. Le casse enormi, la musica techno che ti squassa dentro, le amfetamine che pulsano nel cuore e nella testa, il sesso praticato in maniera promiscua e disinibita, fino alla descrizione di “threesome” praticati con estrema nonchalance. Una sicurezza di sé esibita alla sfacciataggine. Poi una sera la sua “migliore” amica si “scopa” il ragazzo che a lei piaceva. Da qui l’innesco autolesivo.“Come è possibile che una tipa come te che ha tutto vissuto si fa prendere la testa da una banale gelosia?” “Non lo so. Ci sono rimasta troppo male. Mi sono sentita non vista”. Non vista. Anche alla barella dell’OBI si era dichiarata “non vista”dalla madre. La madre di Clara. Una donna con i capelli biondi, chiara di pelle, con gli occhi azzurri un po’ sgranati, aria da bambina cinquantenne, che mi dice che le prime due figlie sono perfette. Poi dopo dieci anni arrivano Clara ed il fratello. Il fratello un “bipolare” in carico alla NPIA, che mette in atto fughe da casa. Nel frattempo il matrimonio finisce. Non si rende conto che Clara ed il fratello sono il troncone andato a male con la fine del matrimonio. Portano la croce di non aver salvato la relazione, scopo per cui erano venuti al mondo. Con la loro malattia tengono ancora unita la coppia “per il bene dei figli”. Il padre di Clara non lo ho mai incontrato. Troppo impegnato a lavorare. Non vista. Clara è la figlia non vista. Dopo tre incontri lunghi con le colleghe della NPIA, una neuropsichiatra ed una psicologa che hanno tentato, in extremis, di costruire, ora, a bocce ferme, l’aggancio che sul territorio non era riuscito, Clara appare più distesa. Gli stabilizzatori hanno lenito la sua angoscia. Nel frattempo si è come rassegnata alla confortevolezza di non avere più la libertà di scegliere, neanche più la libertà di farsi del male. Kierkegaard diceva che la libertà è angoscia, perché è decisione arbitraria: al bivio delle possibilità ne puoi prendere una, devi rinunciare alle altre. E’ l’aut-aut la misura della libertà. Non c’è libertà senza aut-aut, non c’è libertà senza rinuncia. Per Clara la libertà è fare tutto. Toltale la possibilità di decidere, scompare l’angoscia. Che cos’è, allora, questa libertà? Una pistola carica nelle mani di un bambino libero di premere il grilletto? Oppure Clara è solo una rondine che ha smarrito la rotta sbattendo contro il tetto del nostro reparto? Alla ricerca di qualcuno che semplicemente la fermasse. Qualcuno che la raccogliesse. Il nido le va stretto, ma il mondo le va largo. Chi sono io? Uno stopper di palloni fuori campo? Un raccoglitore di rondini fuori rotta? In questa notte di stelle cadenti..Possibile che un adolescente, un minore, non abbia oggi più nessuno che lo fermi? Dove sono finiti gli “adulti”? Mi viene in mente Corrado Pontalti che di queste situazioni ci allarma, vox clamantis in deserto, da almeno ventanni. Possibile che l’autoingestione sia servita a Clara “solo” per rendersi visibile? “Vedete il mio dolore? Vedete in mio vuoto? Vedete la mia irrequietezza? Vedete che nulla più mi piace? Perché non mi fermate?” Nessuno, oggi, sembra che fermi più nessuno. Nessuno si interessa più di nessuno? Ognuno è libero di autodeterminarsi, anche se minore? Un minore è libero di uccidersi? Di arrivare a sentire l’intensità della vita procurandosi la soglia della morte? Da casa di Clara al PS di un ospedale e all’SPDC ci sono, nell’ordine. 1) i genitori, la scuola, i servizi sociali, i servizi distrettuali di NPIA. Una rondine che sfreccia, ebbra ed impazzita, che torcola in aria, che intreccia il suo volo, buca tutte le reti e poi picchia dura contro la grondaia del tetto. E cade in un lettino, stracciata. E come la raccogliamo? Posti in NPI zero per tutta la regione. Dunque SPDC, psichiatria adulti, psichiatri adulti. Farmaci, diagnosi di dimissione, responsabilità alla dimissione. Chi se a prende? Ce la prendiamo noi. Gli unici veramente condannati al vetusto e antidiluviano ruolo di adulti in questa storia. Gli psichiatri. Noi. Quelli cattivi. Ci incontriamo con Clara nel cortile dell’ora d’aria l’ultima mattina. Io l’ho chiusa ed io la libero. “Clara quando vuoi andare a casa” “Anche adesso”. Mi sorride. Le prendo un guancia in un pizzicotto, ci avviciniamo. E’ proprio piccola, la sua testa mi arriva appena al petto. Non l’abbraccio fisicamente, ma è come se ci stessimo abbracciando, tanto che siamo vicini. “Ti vuoi ancora uccidere?” “No, non più”. “La tua vita è ancora lunga”. “Si, adesso voglio viverla. Ho capito che ho bisogno di aiuto. Seguirò il programma delle dottoresse.” “Ti ricorderai di noi?” “Si, mi avete aiutata”. “Ti abbiamo solo fermata. Forse, però, ti abbiamo anche vista” “Si, voi qui mi avete vista. Mi avete fermata, mi avete raccolta. Adesso esisto. Non vi dimenticherò”. Può una stella caduta riaccendersi? Può un angelo che ha perduto le ali camminare tra gli umani? Può una sirena che ha perduto la coda andare vie sulle gambe di donna? Nei ripostigli dell’SPDC siamo pieni di code di pesce, di meteoriti raffreddati, di ali perdute, di orsacchiotti e di bamboline. A differenza dei fantasmi che ricoveriamo di solito, esseri senza destino, questi piccolini ci lasciano le parti che non possono più portarsi dietro, se no diventano sintomi, e si portano via la speranza di una vita possibile, la possibilità di un altrove. Lasciano qui la loro infanzia “malata”, escono da qui che si sentono “grandi”. In fondo qui hanno fatto, fino in fondo, poverini, l’esperienza del nulla. Che cosa stiamo diventando noi degli SPDC? La “comfort zone” dove effettuare, non visti dal mondo, la metamorfosi di quella che i tedeschi chiamano la Lebenskrise? All’uscita della quale o si diventa adulti, o si diventa pazzi. Tra qualche anno anche io, per fortuna, sarò dimesso da questo reparto. E ne sono contento. Amavo l’incontro e lo scontro con la follia. Non ho vissuto per chiudere in gabbia i bambini. Mi porto il senso di colpa di non essere riuscito a fare di più per Clara. La psicoterapia, unica cosa che può aiutare lei e la sua famiglia, qui dentro è impraticabile. Qui dentro lavoriamo solo col silenzio, con i gesti, con gli sguardi. con l’urgenza di liberare il posto letto. Con quello che proviamo e che neppure riusciamo ad esprimere. Al mio posto, tra un po’, se il reparto non chiude, arriveranno psichiatri giovani, magari, certo, meno romantici. Forse essi capiranno più di me il vuoto cosmico di questi bambini. Forse perché lo hanno vissuto anche loro. Allora le mie metafore poetiche da neuropsichiatra infantile naif: le rondini, le sirene, gli angeli, saranno sostituite finalmente dai codici statistico-diagnostici edai farmaci della psichiatria di precisione. A quel punto, però, non posso negarlo, spero che le rondini trovino altri tetti, le sirene altri mari, gli angeli altri cieli.
PS. Questa storia è dedicata a Corrado Pontalti, che mi ha insegnato a non smettere mai di cercare la terribile voglia di vivere in tutti quegli adolescenti che vogliono solo morire.
Un tossico autolesionista con il torace completamente tagliuzzato, una straniera confusa e vagabonda condotta dalla polizia, due bipolari, uno con tentato suicidio da farmaci e uno con depressione agitata ed ideazione suicidiaria.
Quattro ricoveri.
Per noi della prima linea è la regola : non c’è agosto che tenga. Mentre i tavoli istituzionali di discussione hanno sospeso le diatribe, nella fucina degli SPDC si batte ferro a caldo. Ma tra una andata e l’altra in PS, il mio pensiero stanotte corre a Clara. Non riesco a dimenticarla.
E’ difficile mantenere non dico l’empatia, ma anche la memoria vivida di qualcuno quando fai 400 ricoveri l’anno. E per ognuno che muore (per cause organiche) ti arrivano denunce. Questa è la psichiatria vera, quella sporca. Ma io non ci rinuncerei per nulla al mondo. Mi dispiace che i giovani qui non ci vogliono venire. Sognano quasi tutti una scrivania ed orari d’ufficio. L’emergenza li spaventa. Il territorio è sgranato e l’unica realtà attiva h 24 è rimasta il PS.
Ma torniamo a Clara. Metto in fila i pensieri. E’ una mattina torrida di agosto. Chiamata di emergenza dal PS. Quindicenne in OBI per intossicazione da numero imprecisato di compresse di paracetamolo. Lasciare l’aria condizionata del reparto ed entrare nella “callara” esterna è lo sforzo più grande che facciamo. Ma il cuore batte. “Quindici anni dottoree? E che dobbiamo fare con questa? Stiamo diventando l’asilo nido?” Il commento degli infermieri è netto e squalificante. Mi ripeto queste parole nello spazio che separa il reparto dal PS “stiamo diventando l’asilo nido..:”. non so nulla di neuropsichiatria infantile e mai avrei fatto il neuropsichiatra infantile. Ma intanto nel 2023 abbiamo ricoverato 22 minori. L’epidemiologia sale vertiginosamente. I Servizi, certo, non la inseguono. All’ingresso dalla porta laterale del PS un clima siberiano ci rianima di colpo. Le tende azzurre dell’OBI coprono una fila di corpi nudi tra lenzuola, cannule ed ossigeno. La collega emergentista ci vede entrare, e senza staccare gli occhi da monitor ci indica con il pollice all’indietro la posizione della ragazza. La scorgiamo e ci approssimiamo. Con me ci sono due giovani colleghi, di cui uno specializzando. Faccio cenno alla madre di lasciarci. “Chiara, perché lo hai fatto?” “Voglio morire. La vita non ha senso. Nessuno si ricorderà di me. E voi lasciatemi perdere”. Risposta netta, senza neanche voltarsi verso di noi, secca, stizzosa, come se noi fossimo gli ennesimi stronzi di questo noioso mondo degli adulti, del quale ella evidentemente non vuole far parte. La ricevo come una fucilata in pieno viso. Ho dolore. La mia contro risposta è di pari portata, bruciante: “Da oggi tu rimani con noi in psichiatria”. Il suo corpicino esile a questo punto sussulta, squassato da un palpito, si volta con piglio saccente, espressione incazzosa, scosta le lenzuola da dosso, emergendo nella sua magrezza :“Non voglio! Tanto non potete fare niente. Quando esco lo faccio. Nessuno potrà fermarmi. E’ l’unica cosa che ancora desidero. L’unica cosa che mi emoziona è morire, lo capite? E’ la sola esperienza che non ho mai fatto”. Mi partirebbe un ceffone, se fossi suo padre. Mio padre, di fronte a me alla sua età, si sarebbe sfilato con finta calma la cinta dei pantaloni e l’avrebbe brandita roteandola nell’aria. Ma io non sono suo padre. Non sono neanche un padre. Anche se davanti a lei più che un medico mi sento paternalistico. Un padre sociale, un padre sanitario. Forse, chissà, non per mia scelta, l’ultimo dei padri rimasti. La mia vita, in fondo, è 4 volte la sua. La mia adolescenza è stata assai diversa. Che mi piaccia o no, che lei voglia o no, sono io, adesso, che ho l’ultima parola. Sono io che, dimettendola, la autorizzo a sperimentare la sua premorte. Ma chi è questa Clara, piccola stronza, la guardo fissa nel fuoco della sua rabbia, i suoi tratti neri contrastano con la mia barba bianca, mi sembra una rondine caduta dal nido, e di colpo, su questa immagine, la mia rabbia si trasforma in tenerezza. Le farei una carezza, se potessi. L’abbraccerei. In fondo, avvolta in queste lenzuola, col cellulare stretto in mano, sembra davvero una di quelle rondini che raccoglievo da bambino cadute dalle grondaie dopo la pioggia, le asciugavo con il phon e volavano. La memoria sensoriale di quei corpicini frementi nelle mie mani è indelebile.
Clara è una rondine: incarnato scuro, esile, piercing ad entrambe le ali del nasino, occhi neri e profondi, capelli lunghi corvini con riccioli alle punte, sopracciglia bionde completamente rasate, tatuaggi tribali e allegorici per il corpo. Cicatrici di tagli agli avambracci. “Clara, quello che vuoi tu adesso non conta più. Decido io per te. Starai qualche giorno con noi e basta. In buona compagnia”. Si volta e smette sdegnata di parlarmi. In reparto abbiamo una diciottenne ipocritica che scambia a raffica con tutti foto dei propri genitali su Instagram, finita da noi a seguito di alterco violento con la madre che la ha scoperta; un diciassettenne reduce da funghetti, acidi, anfetamine e cannabis, che cammina come un robot; un diciassettenne dell’Est Europa, abbronzatissimo, adottato da una coppia italiana, che su una delle nostre isole ha dato in escandescenze dicendo che Putin lo sta cercando, perché lui è un genio. L’età media del reparto adulti, con loro, si è dimezzata di colpo. Nessuno dei quattro giovanissimi ha tenuto la (o è stato tenuto dalla) presa in carico dei Servizi territoriali. Delle coppie genitoriali due sono separate. Scosto la tenda dell’OBI. La madre aspetta fuori, in silenzio, con atteggiamento da spia. Il collega di guardia della notte, chiamato, le aveva già detto che se la poteva portare a casa. E’ inviperita. Disperata ed impotente. Chiede di fermare la figlia, a tutti i costi. Da tempo è una scheggia impazzita e lei non la tiene più. Clara in reparto, il giorno dopo il ricovero, sta coperta come una mummia sotto il lenzuolo. Si rifiuta di rispondere. E’ arrabbiata con me per l’ingabbiamento. SPDC adulti: grate alle finestre, cortile interno a cielo aperto, struttura solida a pianta quadrata, disponibilità del cellulare ad orari, il resto dei pazienti cronici, tossici, acuti, ed un giudiziario in attesa di REMS. Infermieri attoniti. Cibo che fa schifo. Televisore comune che gracchia roba neomelodica. Le colleghe della NPIA si attivano. Vengono tre volte in in reparto, si trattengono a lungo con lei. Cercano strutture alternative all’SPDC. Con gli assistenti sociali si ricostruiscono le trame giuridiche, i tutori, il giudice tutelare, chi è ancora nella patria potestà e chi no. Al letto di Clara dichiaro ad alta voce alle colleghe, durante il giro: “Se Clara non collabora, vuol dire che da qui non esce”. Dal giorno dopo iniziamo i colloqui. Rabbia, veleno, accuse di averla intrappolata, per giunta con accanto h24 la madre che lei odia”. “Tua madre è l’unica risorsa che hai per uscire da qui. Trovaci un accordo”. “Mia madre è malata, è lei non me che dovete curare”. Il ruolo di fare da muro, di sostenere la realtà è pesante. “Non ti ho portata io in ospedale, Clara. Hai tentato il suicidio. Ci sono azioni che chiamano reazioni uguali e contrarie. La tua è stata un’azione violenta contro te stessa. La mia reazione non può non essere altrettanto violenta. Se privarti della libertà è violenza”. Dopo lo scontro inizia l’incontro. Il racconto dei Rave senza fine. Le casse enormi, la musica techno che ti squassa dentro, le amfetamine che pulsano nel cuore e nella testa, il sesso praticato in maniera promiscua e disinibita, fino alla descrizione di “threesome” praticati con estrema nonchalance. Una sicurezza di sé esibita alla sfacciataggine. Poi una sera la sua “migliore” amica si “scopa” il ragazzo che a lei piaceva. Da qui l’innesco autolesivo.“Come è possibile che una tipa come te che ha tutto vissuto si fa prendere la testa da una banale gelosia?” “Non lo so. Ci sono rimasta troppo male. Mi sono sentita non vista”. Non vista. Anche alla barella dell’OBI si era dichiarata “non vista”dalla madre. La madre di Clara. Una donna con i capelli biondi, chiara di pelle, con gli occhi azzurri un po’ sgranati, aria da bambina cinquantenne, che mi dice che le prime due figlie sono perfette. Poi dopo dieci anni arrivano Clara ed il fratello. Il fratello un “bipolare” in carico alla NPIA, che mette in atto fughe da casa. Nel frattempo il matrimonio finisce. Non si rende conto che Clara ed il fratello sono il troncone andato a male con la fine del matrimonio. Portano la croce di non aver salvato la relazione, scopo per cui erano venuti al mondo. Con la loro malattia tengono ancora unita la coppia “per il bene dei figli”. Il padre di Clara non lo ho mai incontrato. Troppo impegnato a lavorare. Non vista. Clara è la figlia non vista. Dopo tre incontri lunghi con le colleghe della NPIA, una neuropsichiatra ed una psicologa che hanno tentato, in extremis, di costruire, ora, a bocce ferme, l’aggancio che sul territorio non era riuscito, Clara appare più distesa. Gli stabilizzatori hanno lenito la sua angoscia. Nel frattempo si è come rassegnata alla confortevolezza di non avere più la libertà di scegliere, neanche più la libertà di farsi del male. Kierkegaard diceva che la libertà è angoscia, perché è decisione arbitraria: al bivio delle possibilità ne puoi prendere una, devi rinunciare alle altre. E’ l’aut-aut la misura della libertà. Non c’è libertà senza aut-aut, non c’è libertà senza rinuncia. Per Clara la libertà è fare tutto. Toltale la possibilità di decidere, scompare l’angoscia. Che cos’è, allora, questa libertà? Una pistola carica nelle mani di un bambino libero di premere il grilletto? Oppure Clara è solo una rondine che ha smarrito la rotta sbattendo contro il tetto del nostro reparto? Alla ricerca di qualcuno che semplicemente la fermasse. Qualcuno che la raccogliesse. Il nido le va stretto, ma il mondo le va largo. Chi sono io? Uno stopper di palloni fuori campo? Un raccoglitore di rondini fuori rotta? In questa notte di stelle cadenti..Possibile che un adolescente, un minore, non abbia oggi più nessuno che lo fermi? Dove sono finiti gli “adulti”? Mi viene in mente Corrado Pontalti che di queste situazioni ci allarma, vox clamantis in deserto, da almeno ventanni. Possibile che l’autoingestione sia servita a Clara “solo” per rendersi visibile? “Vedete il mio dolore? Vedete in mio vuoto? Vedete la mia irrequietezza? Vedete che nulla più mi piace? Perché non mi fermate?” Nessuno, oggi, sembra che fermi più nessuno. Nessuno si interessa più di nessuno? Ognuno è libero di autodeterminarsi, anche se minore? Un minore è libero di uccidersi? Di arrivare a sentire l’intensità della vita procurandosi la soglia della morte? Da casa di Clara al PS di un ospedale e all’SPDC ci sono, nell’ordine. 1) i genitori, la scuola, i servizi sociali, i servizi distrettuali di NPIA. Una rondine che sfreccia, ebbra ed impazzita, che torcola in aria, che intreccia il suo volo, buca tutte le reti e poi picchia dura contro la grondaia del tetto. E cade in un lettino, stracciata. E come la raccogliamo? Posti in NPI zero per tutta la regione. Dunque SPDC, psichiatria adulti, psichiatri adulti. Farmaci, diagnosi di dimissione, responsabilità alla dimissione. Chi se a prende? Ce la prendiamo noi. Gli unici veramente condannati al vetusto e antidiluviano ruolo di adulti in questa storia. Gli psichiatri. Noi. Quelli cattivi. Ci incontriamo con Clara nel cortile dell’ora d’aria l’ultima mattina. Io l’ho chiusa ed io la libero. “Clara quando vuoi andare a casa” “Anche adesso”. Mi sorride. Le prendo un guancia in un pizzicotto, ci avviciniamo. E’ proprio piccola, la sua testa mi arriva appena al petto. Non l’abbraccio fisicamente, ma è come se ci stessimo abbracciando, tanto che siamo vicini. “Ti vuoi ancora uccidere?” “No, non più”. “La tua vita è ancora lunga”. “Si, adesso voglio viverla. Ho capito che ho bisogno di aiuto. Seguirò il programma delle dottoresse.” “Ti ricorderai di noi?” “Si, mi avete aiutata”. “Ti abbiamo solo fermata. Forse, però, ti abbiamo anche vista” “Si, voi qui mi avete vista. Mi avete fermata, mi avete raccolta. Adesso esisto. Non vi dimenticherò”. Può una stella caduta riaccendersi? Può un angelo che ha perduto le ali camminare tra gli umani? Può una sirena che ha perduto la coda andare vie sulle gambe di donna? Nei ripostigli dell’SPDC siamo pieni di code di pesce, di meteoriti raffreddati, di ali perdute, di orsacchiotti e di bamboline. A differenza dei fantasmi che ricoveriamo di solito, esseri senza destino, questi piccolini ci lasciano le parti che non possono più portarsi dietro, se no diventano sintomi, e si portano via la speranza di una vita possibile, la possibilità di un altrove. Lasciano qui la loro infanzia “malata”, escono da qui che si sentono “grandi”. In fondo qui hanno fatto, fino in fondo, poverini, l’esperienza del nulla. Che cosa stiamo diventando noi degli SPDC? La “comfort zone” dove effettuare, non visti dal mondo, la metamorfosi di quella che i tedeschi chiamano la Lebenskrise? All’uscita della quale o si diventa adulti, o si diventa pazzi. Tra qualche anno anche io, per fortuna, sarò dimesso da questo reparto. E ne sono contento. Amavo l’incontro e lo scontro con la follia. Non ho vissuto per chiudere in gabbia i bambini. Mi porto il senso di colpa di non essere riuscito a fare di più per Clara. La psicoterapia, unica cosa che può aiutare lei e la sua famiglia, qui dentro è impraticabile. Qui dentro lavoriamo solo col silenzio, con i gesti, con gli sguardi. con l’urgenza di liberare il posto letto. Con quello che proviamo e che neppure riusciamo ad esprimere. Al mio posto, tra un po’, se il reparto non chiude, arriveranno psichiatri giovani, magari, certo, meno romantici. Forse essi capiranno più di me il vuoto cosmico di questi bambini. Forse perché lo hanno vissuto anche loro. Allora le mie metafore poetiche da neuropsichiatra infantile naif: le rondini, le sirene, gli angeli, saranno sostituite finalmente dai codici statistico-diagnostici edai farmaci della psichiatria di precisione. A quel punto, però, non posso negarlo, spero che le rondini trovino altri tetti, le sirene altri mari, gli angeli altri cieli.
PS. Questa storia è dedicata a Corrado Pontalti, che mi ha insegnato a non smettere mai di cercare la terribile voglia di vivere in tutti quegli adolescenti che vogliono solo morire.
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