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Sulla fenomenologia del dono

16 Giu 24

Di FRANCESCO BOLLORINO
un’operazione di riduzione tra percezione delirante, fobia e intuizione eidetica

Nella metafora del “dono del fenomeno” Calvi descrive come l’atto di scegliere un regalo per qualcuno significhi ricevere una sorpresa insperata, ossia il trovarsi con evidenza davanti alla scelta corretta, l’unica possibile.

Appare -d’un tratto- quell’oggetto e, nella sua salienza, da esso emerge la qualità che lo distingue dagli altri e lo identifica come “il dono”, si staglia come figura rispetto allo sfondo, ogni altro oggetto svanisce.

Analogamente ma discostandoci dal piano ontico, nella percezione delirante (ben lontano dall’essere una mera interpretazione cognitiva) il dato si erge, iper-chiaro e colpisce in tutta la sua potenza.

Ecco che, nel momento inequivocabile in cui si verifica una salienza aberrante, un anonimo oggetto reale viene iper-caricato di significato, è investito di un eccesso di realtà, fuoriesce dalla trama dei significati e di rapporto, perde la sua neutralità.

Proprio all’interno di questa esuberanza della percezione (che proviene dall’oggetto stesso), in una “iper-sensorializzazione” (Correale), il senso si svincola, prende corpo altro e autonomo nella percezione delirante.

Dal momento apofanico dell’albeggiare delirante, così, un senso nuovo risorge, si mostra quella verità privata che trafigge dall’esterno” (Ballerini).

Aprendo uno spaccato sul divenire incipiente della schizofrenia, si mette in luce che alla percezione delirante precede un terreno che potremmo definire fertile, un campo preparatorio connotato da un senso angoscioso di presagio, di vago sospetto, un’inquietante e indefinibile trasformazione del mondo.

Siamo dentro l’improvvisa e dolorosa esperienza disgiuntiva che si avverte di fronte all’epifania del delirio: la “Wahnstimmung/umore pre-delirante” (Jaspers), in cui qualcosa di imprecisato e terrificante ha leso la capacità di carico narrativo, in cui il tutto è avvolto improvvisamente da stranezza, rarefazione e precarietà.

Lo smarrimento iniziale prima che arrivi il delirio, quell’atmosfera sinistra, provvisoria, obliqua delle cose che apre alla cristallizzazione delirante.

È il momento in cui il soggetto si domanda “was ist loss?/che cosa sta succedendo?”, gettato nella confusione e senza piu coordinate, immerso in uno stato incomprensibile di alterazione della rappresentazione del mondo, che appare inaspettatamente vergato da irrealtà e dalla quasi ineffabilità.

Il gioco continuo tra figura-sfondo si disarticola proprio di fronte ai suoi occhi increduli e ha luogo una drammatica e vertiginosa espansione dell’orizzonte di significato.

Questo vissuto si pone ai limiti del dicibile, resta opacizzato, a stento traducibile in forma dialogica per il suo alone nebuloso, è quasi invivibile per la sua insopportabilità e alienità.

In questo stato di “trema” (Conrad) -tipicamente di ingresso nella schizofrenia- l’orizzonte dei significati si distorce e perde le sue caratteristiche abituali, l’esperienza naturale (che costituisce il tessuto connettivo del nostro abitare) si sgretola.

In questa eclissi “niente è più come prima, ma non è ancora come dopo”, la relazione di intimità e familiarità che ingaggia il soggetto al mondo viene lacerata dal fare breccia nelle cose dell’ignoto, dell’inconsueto, del non-familiare, dell’estraneo.

Diviene palpabile la “crisi della presenza” (De Martino) ossia il percepire distintamente che ciò che rende il mondo confidenziale, ciò che dà un senso di dimora, di tepore e intimità manca, va incontro a rottura.

Sopraggiunge l’esperienza del “unheimlichkeit/spaesamento” (Heidegger): un non sentirsi più a casa propria, l’impossibilita di riconoscere un luogo consueto come conosciuto e familiare.

È proprio questa perturbante sospensione tra confidenza ed estraneità a caratterizzare il vissuto psicotico dell’esordio, in cui tutto ciò che è naturale è macchiato irrimediabilmente da un mistero di ambiguità e inaccessibilità.

Viene meno, in questa condizione, “la qualità dell’esser noto” (Callieri): ciò che accompagna la quotidianità e che fonda le proprie radici nell’apriori della regolarità del nostro mondo vissuto.

Si chiude quella possibilità di un’originaria apertura al mondo e all’altro da parte della coscienza intenzionale, che è l’intersoggettività.

Con la liquefazione delle sicurezze implicite (legata alla dimensione dello sfaldamento delle usuali categorie interpretative e gerarchiche di significato) si avverte una grave minaccia imminente ma imprecisata, il presagio di un incombente cambiamento apocalittico.

Ecco che in questa atmosfera segnata dalla sospensione dei significati, in questa “perplessità” (Callieri) è racchiusa la “perdita radicale dell’ovvietà dell’utilizzabile” (De Martino).

È, difatti, il momento in cui i significati del mondo (sui quali basiamo la tenuta del nostro esser-ci) cadono, lasciando spazio alla disperazione e all’insostenibilità del nulla.

Il soggetto è costretto ad una sofferenza incomparabile nella quale -prendendo in prestito il racconto di Paolo (paziente di Callieri)- tutto è in pezzi, i pilastri del pensiero e il senso delle cose si perdono, il significato delle parole e la capacità di integrare mancano, sono cambiate improvvisamente le dimensioni dello spazio e del tempo.

In bilico tra il tramonto del mondo comune e una nuova aurora psicotica, Paolo vive nel turbamento, nell’insicurezza, ormai non è più datore di significati: sono per lui inafferrabili, non più alla mano.

La sua capacità di storicizzarsi e la sua intenzionalità rimangono sospese, nessun progetto di mondo è, per lui, possibile.

Il perplesso, allora, rappresenta solo un significante senza significato, una noesi che ha perso il suo noema.

L’esperienza psicopatologica della Wahnstimmung si configura come il punto di rottura dell’intenzionalità, una vera e propria l’interruzione fra l’intenzione di significare e il compimento di significato.

Sull’orlo della crepa dell’evidenza, questo vissuto permette di toccare contemporaneamente il passaggio da un mondo denaturato alla ricostruzione delirante, l’istante di tempo oscillante fra la riva del noto che si sta abbandonando e quella dell’ignoto verso cui si sta procedendo, l’attesa di qualcosa che sta per accadere, qualcosa di minaccioso e catastrofico ma, allo stesso tempo, catartico e salvifico.

È il punto in cui si incrina il rapporto del soggetto con la realtà, è il luogo in cui si sfiorano -nel loro darsi legati- il vuoto che precede il pieno, il silenzio che precede il rumore.

Allora, il collegamento fra sperdimento e allucinatorio si mostra in quanto assolutamente essenziale.

Nell’apofania il soggetto oltrepassa lo smarrimento, costituisce una barriera contro l’esperienza di sprofondare nel nulla, contro il senso insopportabile di sperdimento, tutto adesso diventa immediatamente chiaro.

Lo svelamento apofanico consente il ritorno ad una dimensione di ristoro, di stabilità, di certezza.

Il soggetto ritrova il conforto di una patria abitabile dove restare: dentro il punto di arrivo di una irreversibile metamorfosi strutturale dell’esperienza.

Una ri-fondazione identitaria e del reale, dalla quale diventa impossibile sottrarsi.

La tessitura del delirio consente di scorgere un unico disegno che rende gli elementi del sistema iper-coerenti, rimanda ad una trama di significato che permette di decifrarne la cripticità e di dare al mondo un senso non ambiguo.

Il delirante è consegnato -una volta e per sempre- a un solo tema a-temporale e a-spaziale che interrompe drasticamente l’iper-diffusione dei significati, il prisma attraverso cui osservare la realtà diventa, così, unico.

Questa esperienza ricostituisce un mondo di significati, restituisce una realtà non piu eternamente fluttuante, conferisce al tutto un senso, appaga, a fronte di una terrorizzante estraneità al mondo consueto.

A partire da una condizione in cui tutto vacillava, ora si possiede una narrazione univoca e solida di ciò che accade, proprio attraverso questa granitica e “patologica donazione di senso” (Stanghellini) che è il delirio.

In questo richiamo dell’allucinatorio per fronteggiare la crisi della presenza, l’angoscia di svuotamento di senso è riempita con il momento vivificante dell’iper-sensorializzazione.

Così, il collasso della presenza -di fronte all’enigmaticità dell’oggetto- iper-sensorializza.

Dentro quel dispositivo antropologico rifondativo che è la rivelazione” (Conrad), l’evoluzione delirante ri-significa l’esperienza traumatica, indicibile e indecifrabile della perplessità e, allora, aspetti visionari, iper-sensoriali, fantasmatici saturano di pienezza un mondo che, improvvisamente, si è svuotato di senso.

In questa vivida trasfigurazione del reale -avvolta dall’atmosfera delirante- è racchiusa, per il soggetto, tutta la verità dell’esistenza.

II delirante delega interamente alla solidità del delirio il senso del suo vivere.

Esemplificando il portato di un tale vissuto attraverso Blankenburg, la vista di quel quadro che rapisce e assorbe completamente Albrecht è per lui così intensa da fargli vivere un’esperienza di perdita del carattere inoffensivo del mondo, tale che la potenza del sentimento di penetrazione e di violazione della propria intimità -scaturita da quella visione stessa- determina in lui, un mutamento irrevocabile e ineludibile.

Quell’esperienza si configura come una vera e propria illuminazione che irrompe inaggirabile, frantuma la storicità di vita e, sempre rimanendo isolata in uno spazio privato e non consegnabile all’intersoggettività, impone il suo significato e discontinua la biografia, escludendo ogni possibilità dialettica.

E, dentro quello “sguardo che trafigge e mette a nudo” (Rilke), il dettaglio perde il suo contesto, si realizza la prominenza e l’iper-trofia del particolare visionario che, quasi fosse iper-colorato, fuoriesce dall’ombra, dalla collocazione nello sfondo oscuro del resto.

Spostandoci -con Calvi- sul piano nevrotico, fin dentro la sua immanenza, troviamo che, allo stesso modo, anche il fobico si trova costretto dalla potenza s-mondanizzante dell’angoscia a mettere tra parentesi ogni ovvietà del suo oggetto.

L’orizzonte esperienziale in cui è immerso si impernia proprio attorno quel particolare ente che, ora, gli si manifesta non più anodino e insignificante ma, piuttosto, imponente nella fisiognomica totalitaria e unificante della repulsività.

Al nucleo del suo vissuto, osserviamo una riorganizzazione spaziale del mondo in cui è data un’assoluta centralità dell’oggetto, laddove il fobico, temendo il contatto con quel “qualcosa originario” amorfo, terrorizzante e nebuloso che è incapace di decodificare, è proprio attraverso la metafora fobica che ne trova una solida lettura; essa si autonomizza e si auto-mantiene, dando origine alla fobia.

Dentro una salvifica scomposizione fra l’esperienza originaria e una ri-significazione involontaria e inconsapevole, quell’emozione inarticolata si coagula e acquista concretezza in un preciso e definito oggetto intenzionale, viene confinata in una dimensione spazialmente circoscritta e non più onnipresente, non piu illimitata, non più nell’impossibilita di attribuirvi un senso.

Così, difensivamente, in questa implicita condensazione di senso sull’oggetto fobico, l’informe viene ridotto a oggetto mondano (Stanghellini), è perduto il contatto con la derivazione dall’esperienza primaria, abbandonata la non-significazione di ciò che è accaduto, controllata e resa maggiormente tollerabile l’ambivalenza emotiva.

Da questo sventurato tentativo esorcizzante -che dissipa un eccesso di angoscia, che sposta un desiderio non voluto, che scioglie il terrore del contatto con ciò che di incontrollabile, dilagante, inarticolato l’oggetto incarna e richiama- origina la fobia, che si configura come una ri-mondanizzazione di un’angoscia senza nome” (Calvi).

In rilievo è “la dimensione dell’apparizione” (Calvi) laddove l’incontro con l’oggetto fobico (qualitativamente differente rispetto a quello di una persona estranea a questo specifico modo-di-essere-nel mondo) ha le caratteristiche di una vera e propria apparizione, sempre imprevedibile, sempre nuova.

L’oggetto fobico, infatti, nonostante la sua ovvia tipicità, si ripresenta sempre per la prima volta, ogni volta, accompagnato dallo stesso stupore angoscioso e terrifico, che lascia il fobico attonito e inerme rispetto a questa manifestazione.

Rimanendo all’interno della dimensione della temporalità e spazialità vissuta, questo incontro ha la caratteristica dell’improvvisità: l’oggetto si materializza e cessa di essere un elemento abituale del mondo, occludendo e ingombrando interamente il campo percettivo.

Calvi -che ha sempre scritto a proposito della psicopatologia della vita quotidiana- fornisce un esempio di questa condizione attraverso il vissuto del cinofobo, che si caratterizza per una percezione del cane in quanto isolato dallo sfondo, mai abbandonato in mezzo alle consuetudini mondane, al di fuori della rete di rimandi fra enti.

L’angoscia impedisce che il suo incontro venga vissuto come una banalità quotidiana, frammenta la continuità dell’esperienza temporale e spaziale, fa scomporre le qualità materiali dell’oggetto e ne lascia emergere il significato aberrante, iper-caricato, amplificato: un’assoluta ferocia.

In questo ancoraggio esistenziale per il fobico (costretto, altrimenti, all’insopportabilità dell’angoscia), l’oggetto si manifesta subitaneo nel modo dell’improvvisità e diviene possibile l’apparizione del cane, che emerge come fenomeno nella sua “caninità” (Calvi).

È possibile ammirare questo nucleo emotivo e di senso al centro del mondo della vita del cinofobo a patto di giungere ad una generalizzazione e universalizzazione, tale che il cane cessa di essere un ente fra altri enti e, dissolvendo le abituali categorie pre-costituite, appare in quanto essenza della caninità, ossia l’εἶδος di quel fenomeno.

Possiamo, secondo Calvi, esprimerci in termini di epochè psicopatologica (oggetto-specifica) a proposito del mondo fobico: nel momento dell’incontro al cinofobo accade che l’angoscia s-mondanizza la figura del cane, che non si presenta più secondo l’assioma affidabile e abituale dell’atteggiamento naturale, ma in quanto apparizione luminosa.

Questo momento é definibile come un atto di epochè in quanto avviene al suo interno la messa in evidenza del dono che appare (assieme alla messa tra parentesi di tutto ciò che non lo è); quel “qualcosa” che si presenta alla mente come dato, come un dono appunto, merita di chiamarsi fenomeno.

Sono messe tra parentesi le consuete caratteristiche dell’oggetto, è sospeso il suo significato ordinario, tra i suoi diversi profili ne è rilevato ed evidenziato uno solamente, che lo cristallizza in un’unica essenza, quella fobica: della minacciosità, della repulsività, del disgusto.

Fenomenologo e paziente partono da un’esperienza similare (che hedeggerianamente si potrebbe definire s-mondanizzante) all’interno di una profonda analogia e consanguineità fra l’esercizio

-compiuto volontariamente- del fenomenologo e ciò che accade in certe configurazioni di mondo psicopatologiche: si attinge all’apriori antropologico, che è l’epochè.

Con l’epochè del clinico, ecco che il fenomeno, ecco che ciò che accade alla coscienza del paziente, appare nella mente del terapeuta proprio dall’interno del soggetto, si erge e gli si presenta di fronte, esattamente come nello psicotico apofanico si verifica una epochè psicopatologica.

La percezione delirante, però, chiude all’alterità ed apre all’autismo, all’auto-riferimento; all’opposto, l’intuizione eidetica del clinico, la sua epochè fenomenologica, apre all’intersoggettività e alla possibilità di condivisione.

Talvolta i nostri pazienti si trovano, dunque, in una posizione fenomenologica naturale ma se l’epochè del fenomenologo concerne un punto e un tema specifico, quella psicopatologica del paziente è circolare in quanto copre tutta la circonferenza del suo mondo e investe totalmente il suo campo di coscienza, è non scelta, è subita, di sola andata.

Alla semplice e a-problematica messa tra parentesi delle evidenze naturali del fenomenologo, si contrappone, nel paziente schizofrenico, una sottrazione basale.

Per il fenomenologo, la quotidianità evidente del Dasein/esser-ci” (Heidegger) permane intatta, le oggettività del senso comune vengono mantenute, sono solo sospese e, nonostante venga oltrepassato, il terreno di base su cui si poggiano gli assiomi della vita è indenne.

Nell’epochè psicopatologica, raggiunta passivamente e non attivamente cercata, si assiste alla perdita di ciò che -in modo implicito, pre-riflessivo e pre-tematico- riposa su di uno scivolamento quasi inavvertito: non sono le tesi della conoscenza oggettiva del mondo, non è il rapporto teorico con il mondo ad essere l’ambito danneggiato nello schizofrenico.

Incapace di muoversi fluidamente nel mondo della vita, immerso dentro il bisogno incessante di interrogarsi sullo statuto ontologico delle cose (che non si danno più in modo tacito) il malato deficita, piuttosto, nel -va da sé- su cui giace l’ovvietà del vivere, i cui utensili relativi all’esistenza diventano inutilizzabili e privi di significato.

Lo schizofrenico tenta disperatamente di ritornare nell’evidenza e non riesce, non afferra più il mondo, il suo corpo non è più atteggiato agli altri, “la concavità delle sue mani non si adatta alla convessità del mondo” (Callieri), le sue dita non sono più fatte per le spine dei rovi della vita.

In posizione opposta è, invece, il fenomenologo che si immerge ma non si lascia sommergere, che tenta di sottrarsi al dominio silenzioso dell’evidenza per riuscire ad attuare l’epochè e sostarvi dentro, che lotta contro la sua inclinazione vitale, contro la gravità dell’atteggiamento naturale, vi si imbatte incontrandola sotto forma di resistenza e di opposizione.

II clinico abbandona -dentro questa parentesi- il flusso delle cose, rimanendo comunque ad esso legato, approda in quel “al-di-fuori”, che viene avvertito dallo schizofrenico come una tortura, come un naufragio dopo tanti sforzi, ma che rimane per il fenomenologo, sempre, una faticosa conquista.

Anche Blankenburg ci offre un parallelismo fra l’esercizio epochizzante volontario del fenomenologo e la sospensione dell’esperienza di senso comune (mondo-specifica) che accade nella persona schizofrenica, portandoci come esempio la sua paziente, Anne, che ha perduto l’evidenza naturale, che esperisce una frattura del mondo.

Entrando nella visionarietà, si scorge in Anne un’esistenza che precipita in un vuoto senza fondo, priva di forza di gravità, galleggiante in un’atmosfera rarefatta, senza più il reale, in un’apnea dove non c’è l’attrazione alle cose, inglobata da una tendenza che, senza posa, la sospinge da un interrogativo all’altro sulle condizioni di possibilità della realtà, senza alcuna risposta.

Anne, al centro di una rottura del senso comune, ha perso la tattilità nei confronti della vita, non la sente, non la costituisce più, è immersa in una dolorosa e straziante incapacità di essere con l’altro.

Il “sentire come gli altri sono” le è estraneo, gli altri la “disarcionano”, racconta Anne, disorientata, mentre rimane quasi schiacciata sotto il peso della loro “naturalità” e della “sorgente dell’evidenza naturale” (Blankenburg) che tutti accomuna.

In questo quadro di sradicamento rispetto al terreno dell’evidenza (su cui si appoggia la vita), in questa evanescenza radicale della fiducia, in questo sprofondare silenzioso del senso comune, in questa insicurezza della fondazione, Anne subisce lo scacco del “semplicemente così” su cui giace la banalità del Dasein, la sua evidenza. Anne non riesce a essere.

Manca ad Anne quella sintonizzazione tacita con la realtà, in lei non viene più sentita nell’immediatezza del contatto, le sfugge, non può concedersi il vivere spontaneamente, in modo a-problematico il rapporto con il reale.

È proprio nella mancanza di tale accordo con il mondo e con la sua intersoggettività (che è la matrice della vulnerabilità schizofrenica e dell’esistenza autistica) il fallimento che di continuo Anne esperisce.

II suo sé non può garantirle il fondamento del quotidiano, tanto meno si offre a lei spontaneamente, il suo apparato trascendentale difetta e non riesce a costituire il mondo, così che Anne vive un non saperne più niente, vive l’impossibilità di sentirne, pre-riflessivamente, l’ovvietà.

Blankenburg, che analizza il disturbo della schizofrenia nella sua forma povera e spoglia, descrive proprio le “psicosi bianche” (Ballerini): quegli schizofrenici senza delirio e senza mondo, esistenze fragilissime, consegnate ad un drammatico abisso dove non è accaduta l’apofania e dove l’essenza della modificazione basale schizofrenica risiede nella logorante evanescenza dell’ovvietà del proprio mondo e dell’altro.

In questa clinica del vuoto, del silenzio, Blankenburg ci racconta le forme umbratili di esistenza, quelle che rimangono sospese -fra la costituzione naturale di un mondo e un presagio, il richiamo ad un altro- come Anne, che fluttua indefinitamente attorno a questa mancanza, cercando penosamente le parole per comunicarla.

La assalgono domande metafisiche irrispondibili nel tentativo misero da parte dell’io empirico di compensare la carenza dell’’io trascendentale, al fine di costituire il fondo di ovvietà perduto proprio attraverso un’iper-soggettivazione dell’esperienza, ossia attraverso quell’ossessivo-morfa coscienza introspettiva che è l’iper-riflessività.

Ecco che, con l’arrivo di questa epochè subita e all’interno della disarticolazione tra il livello ontico-esistentivo e quello ontologico-esistenziale (la cui relazione dialettica non funziona più), viene sfondato quest’ultimo piano e si disintegrano, allora, quelle condizioni di possibilità della soggettività di base.

Si entra in quella dimensione di “insicurezza ontologica” (Laing) e la “perplessità” (Callieri) rivela un’incrinatura profonda del sé e la totale caduta dei riferimenti mondani, il momento in cui i significati abituali del mondo cadono e rimane un’insopportabile estraneità, un radicale spaesamento, lo smarrimento del nulla.

Blankenburg e Anne si incontrano li, proprio sulla visionarietà, si trovano nel livello antropologico che ora li accomuna e che condividono, in quell’assenza di gravità, ne sopportano insieme l’apnea, al di fuori dell’evidenza naturale, al di fuori del vivere quotidiano.

Terapeuta e paziente si trovano insieme dentro quel distacco dalle evidenze dell’esistenza, dentro quell’atto di disancoraggio, che non si scontra più con nessuna resistenza gravitazionale e dove l’evidenza che ci ingloba non è più sufficiente.

La visionarietà rappresenta, infatti, un’esigenza antropologica che coglie lo sguardo, le informazioni che riceve e che la nutrono sono sovra-sensoriali, all’interno di un potente gioco intersoggettivo di rimandi, spontaneo, involontario che accade quando di fronte si ha la soggettività palpitante del paziente che si sintonizza con la soggettività e con la disposizione del terapeuta.

Tale percezione interna coglie il dettaglio qualitativo, all’opposto della vista (che si basa sull’intuizione empirica propria di chiunque e mette in risalto la natura quantificabile e riproducibile del dato).

Questa visione non è semplicemente condivisibile con gli altri, non è il frutto di una caratterizzazione categoriale, è qualcosa di non sensoriale, si da prima ed aldilà della vista, potremmo definirla una sinestesia globale che offre un’immagine altrimenti non visibile.

È, quindi, attraverso l’intuizione eidetica che si colgono in trasparenza -senza mediazione esperienziale- le essenze pre-categoriali, le qualità essenziali, i nuclei strutturali inespressi, questi doni innati che coglie chi è fenomenologicamente educato ed esperto, come frutti quasi passivi, spontanei del suo esercizio attivo.

Questa visione permette di cogliere che il melanconico ha occhi senza sguardo, non prova più niente, che lo sguardo del paranoico è obliquo (mentre scruta il fondo cieco del campo da cui teme che arrivi l’agguato), che lo sguardo dello schizofrenico è altrove (non coglie, non incontra), che lo sguardo dell’angosciato è allarmato (pronto a cogliere tutto ciò che, in quel momento, sta precipitando in una catastrofe e nell’attesa di una pericolosità imminente).

Diventa possibile affermare che la fenomenologia sia una clinica visionaria (Calvi), in questo senso accumunata alla poesia e al delirio: mentre il poeta viene catturato da qualcosa per poi fare della propria fascinazione il tema di un’elaborazione poetica, mentre il delirante è inglobato dall’immagine intraducibile e totalizzante del delirio, il fenomenologo si addentra in questa immagine.

Il terapeuta ne coglie gli aspetti qualitativi, per poi fare ritorno, portando con sé il mandato di tradurre in codici linguistici e dialogabili la propria intuizione, conservando la capacità di oscillare tra vista e visione, tra intuizione empirica ed eidetica, rimanendo sul crinale, sul confine tra queste due posizioni.

Il fenomenologo rompe, dunque, deliberatamente l’atteggiamento naturale per entrare nel mondo delle essenze, la sua epochè, cercata e attiva, è un abbandono di ogni valore di categoria spazio-temporale, non si tratta della negazione o di un interrogativo dubbioso in merito a ciò su cui poggia il principio di realtà, concerne unicamente la sua sospensione.

Procedendo così, nel pieno arbitrio della sua libertà, il terapeuta non nega questo mondo ma pone fra parentesi il valore dell’atteggiamento naturale con il quale lo interpretiamo e abitiamo, giungendo alla progressiva rimozione delle proprietà non essenziali del fenomeno.

Al fine di afferrare l’essenza fin dentro la cosa stessa, attraverso quel distacco metodologicamente orientato che è l’epochè, il fenomenologo si pone fuori dal vortice della vita e delle evidenze dell’esistenza quotidiana.

La riduzione eidetica permette di cogliere quella dissoluzione di strutture categoriali e illumina il nucleo basale, coglie una gestalt di senso, fa emergere l’aspetto strutturale e matriciale del fenomeno, nei suo più intimo modo di essere.

Andando oltre i pregiudizi fondativi del senso comune e le sue valenze tacite mondane, facendo ingresso in un terreno dove spazio geometrico e tempo cronologico non si danno più, si raggiunge -in questo sperdimento- proprio la visionarietà, si offre allo sguardo una rappresentazione immediata e intuitiva, figurale, assolutamente paradigmatica dell’essenza.

In un’operazione di restringimento del campo e di neutralizzazione delle proprietà non essenziali, è attraverso l’esercizio fenomenologico che la visionarietà sedimenta, inizia un percorso che plasma e che procede, esplorando, per variazioni immaginative tra esempi approssimabili e perfettibili del fenomeno, fino ad enuclearne il solo che ne racchiude l’essenza nuda.

Fino ad arrivare come all’apparire di una “lichtung” (Heidegger) e della sua luce, che rischiara -in modo del tutto improvviso e intuitivo- l’εἶδος del fenomeno.

In questo spazio quasi-sacro della relazione, d’un tratto, nel processo percettivo sopraggiunge avvolgente e concreta un’intuizione, l’unica esatta dopo aver errato e variato attorno al tema, la sola che racchiude, rivela e abbraccia l’essenza dell’oggetto nella sua globalità.

Ecco che il percetto scompare, al suo posto appare, per un singolo frammento di tempo e come all’interno di una radicale metamorfosi, il prodotto genuino, primigenio dell’immaginazione.

Così, una prototipica figura antropologica, che si deposita e poi -inaspettatamente- risalta nel clinico (attraverso il suo esercizio di variazione che, infine, dà forma all’immagine) racchiude in trasparenza la caratteristica centrale del modo di essere al mondo del paziente, le sue proprietà distintive, le sue qualità pre-categoriali e costitutive.

È in questo vissuto patico ed extra-sensoriale -che travalica l’ovvietà mondana e addensa il senso in un altrove sospeso- che si apre l’accesso a quell’esperienza estetica che sovrasta, avvolge, che rischiara, che afferra il nucleo, la sua essenza, quel dono autentico del fenomeno.

Concludo con una mia nota, a proposito dell’inatteso che trafigge, disorienta e si imprime:

Dedico questo scritto al dono della mia vita, che mi ha sorpreso all’improvviso e senza che io lo volessi un tardo pomeriggio d’inverno, in quel frammento di tempo inconfondibile, che è stato uno squarcio così potente e così assoluto da dare accesso ad un infinito -che è impossibile consegnare alle parole- in cui la bellezza del suo viso, che semplicemente arrossiva, ha assunto dentro me qualcosa di lacerante e commovente.

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