C'era una volta, in un paese lontano lontano, alla periferia della regione della Roeupa, oltre i monti Pial, in un paese chiamato Tailia, un bambino piccino piccino che era stato chiamato Segiuppe.
Segiuppe viveva con il papà, con la mamma e con un fratellino più grande che si chiamava Rimano; ma, mentre Rimano era cresciuto libero e felice, Segiuppe già quand'era nato era sembrato un po' strano.
Non voleva attaccarsi al petto della mamma, e sì che Rimano, che occhieggiava di lontano, al solo guardare sentiva un languorino ma un languorino che non vi dico neanche, cioè ve lo dico solo per dire che faceva voglia anche ai bambini più grandi. Poi piangeva.
Piangono tutti, i bambini. Sì, è vero, ma questo piangeva strano: la mamma lo prendeva in braccio e non si consolava che dopo ore e ore. Poi bastava che la mamma se ne andasse per un momento e lui pronto riattaccava. Il papà, che era un buon uomo e grande lavoratore, si seccava un po' perché, che è, che non è, a poco a poco la moglie era passata a vivere nella stanza dei bambini. Egli voleva bene ai tigli, ma voleva bene anche alla moglie e soffriva di vederla deperire a causa di Segiuppe; e poi rimpiangeva, e un po' si vergognava di questo suo sentimento, quel periodo in cui, prima che nascesse Segiuppe e quando Rimano era già grandetto da dormire da solo, poteva a volte coccolarsi come dio comanda sua moglie e insomma, sempre come dio comanda, amarla.
Però Segiuppe cresceva bene ed era un bambino bellissimo. Non giocava, è vero, ma gli altri, al solo guardarlo, si sentivano come affascinati da questo bimbetto. Non rispondeva, è vero, ma la mamma poteva sempre dire che faceva apposta, tanto è vero che se niente niente uno scartava una caramella di nascosto, lui si girava con lo scatto d'un levriero verso il goloso. Però, e anche questo era strano, non faceva nulla per prenderla, la caramella.
Allora la mamma, che era di cuore grande, ma grande così, prendeva la caramella e gliela metteva nella manina. Ma lui niente, se la teneva lì per ore intere, senza mangiarla. Poi d'un tratto, oplà, la caramella era sparita e si trovava solo la carta.
Divenne più tardi un bambino buonissimo: passata la fase in cui piangeva sempre, amava stare da solo, sempre nella sua stanzetta e la mamma sapeva che, se usciva per fare le spese, poteva lasciarlo lì tranquillo tranquillo e così, tranquillo tranquillo, lo avrebbe trovato al ritorno. Solo, si arrabbiava tantissimo se appena Rimano faceva per cambiare qualcosa in camera, spostare un gioco (che peraltro Segiuppe non toccava mai), tirare una stuoia più in là. Si arrabbiava tanto che la mamma, quando lui (che aveva ormai due anni) aveva rotto ogni bendidio in camera solo perché Rimano aveva spostato l'orsacchiotto, aveva pensato di far dormire Rimano in camera grande, cioè quella matrimoniale, per lasciare a Segiuppe la stanza tutta per se.
Segiuppe, intanto, cresceva ma non parlava. Il papà gli faceva ghirighiri sotto il mento e lui non rideva, non diceva niente, pareva che il papà fosse fatto di vetro e lui guardasse di là.
La mamma gridava «Segiuppe, Segiuppe, vieni a mangiare, la pappa e pronta » e lui non diceva né ai né bai. La mamma gli portava da mangiare in camera e lui prendeva la mano della mamma e la guidava al cucchiaio per farsi imboccare. « Segiuppe, sei grande, devi mangiare da solo, con il cucchiaio, come tutti i bravi bambini ». Macché: lui sorrideva, d'un sorriso vago, estatico, che pareva venisse di lontano lontano, che se si guardava bene era anche un poco triste, e stava lì.
Venne l'età dell'asilo, ma Rimano dovette continuare ad andar da solo perché Segiuppe urlava, si dimenava, mordeva, ma non voleva andarci. Un giorno che la mamma era riuscita a portarlo, dovette tornare a prenderselo dopo un paio d'ore perché lui era stato lì, da quando era entrato, fermo sulla porta, duro e pallido come fosse stato di pietra. I bambini lo pizzicavano e lui manco ci badò; la maestra lo carezzava e lui giù un morso.
I genitori cominciarono a preoccuparsi. Parlane oggi e parlane domani, decisero infine di portarlo da un prete, famoso in tutto il paese per la sua bontà. Egli aveva beneficato molti. Aveva ospitato ciechi in luoghi panoramici, portato sordi a concerti di pianisti famosi, aveva istituito prigioni in tutti i quartieri della città perché i prigionieri non si sentissero soli, l'antropia era tanto nota che lo avevano nominato grande sicché poteva decidere, per tutti , quali fossero i bisogni, e stabilire le misure per soddisfarli.
Il suo nome era Sabaglia.
Nonostante fosse indaffaratissimo ricevette subito i poveri genitori e chiese loro perché mai avessero chiesto di parlargli. « Don Sabaglia, ci aiuti, disse la mamma, abbiamo un bambino che ci fa perdere il sonno dai tanti pensieri che ci fa venire. » e, in quattro e quattr'otto, raccontò la storia di Segiuppe. Don Sabaglia annuiva annuiva mentre la mamma parlava e lei aveva l'impressione che fosse forse anche inutile parlare, che lui sapesse già tutto. Ma, già che era lì si fece forza e raccontò.
Alla fine Sabaglia disse: « Ah, amici miei, compagni miei, quanto vorrei potervi accontentare! Ma mi chiedete una cosa sbagliata, non una sabagliata, cioè una cosa che posso fare io. Dovete invece fare come vi dirò io e allora, vedrete, saremo tutti contenti. Dico saremo perché questo problema è di tutti, non vostro solo e a tutti parlerò perché venga affrontato per il verso giusto ». Cosi i genitori se ne andarono con l'accordo di ritrovarsi di lì a pochi giorni, alla riunione del quartiere, dove don Sabaglia teneva le prediche ogni venerdì.
Don Sabaglia aveva detto di portare anche Segiuppe e il giorno fatidico, eccoli lì, i genitori ben vestiti, Rimano ancora con il cestino dell'asilo (si era dovuto portare anche lui, se no chi gli badava?) e Segiuppe. I due genitori un po' si vergognavano: erano gente schiva e non si sentivano a loro agio, tanto più con Segiuppe che si divincolava e d'improvviso, cosa che non aveva mai fatto si buttava a capofitto contro il muro, con un colpo sordo e secco che faceva sussultare tutti. Qualcuno protestò, ma, quando i genitori dissero che erano lì perché lo aveva detto don Sabaglia si tacque. E don Sabaglia, giunto di li a poco, parlò.
Dovete sapere che in quel paese i preti da lungo tempo non dicevano più di essere preti e in chiesa non ci andava più nessuno perché le cerimonie liturgiche si facevano, sotto mentite spoglie, in locali che si chiamavano centri sociali. Era un paese tremendamente afflitto dalla vergogna e, se uno avesse chiesto a un altro, l'obbligo di buona educazione sarebbe stato di rispondere di no, in modo che tutti e due capivano di sì, ma senza dover affrontare la vergogna di dir come stavano le cose: per questo i preti non dicevano di esser preti, le chiese non si chiamavano più chiese, le prediche non si chiamavano più prediche. Ma noi, qui, continueremo a chiamare le cose col loro nome, perché se no non capiremmo più niente.
Dunque don Sabaglia parlò.
La sua voce, bassa, un po' strascicata, non aveva nulla del tono dell'arruffapopolo. Era, semplicemente, convincente. Disse che un grande problema si poneva alla comunità, ma anche una grande occasione per fare un salto qualitativo. Si trattava di vedere se tutti, non a parole ma a fatti, erano disposti a caricarsi del problema di questa famiglia. Non era giusto che essi, soli, si trovassero a gestire Segiuppe. Tutti dovevano farsene carico. Segiuppe doveva restare sul territorio e tutti, anche quella maestra che aveva chiamato la mamma perché venisse a prenderselo, dovevano non solo accettare ma anche valorizzare la diversità di Segiuppe. Segiuppe doveva diventare il nodo cruciale sul quale verificare la volontà politica di cambiare. Solo così si sarebbero affrettati i tempi di una vera rivoluzione. (Volendo tradurre per chi non è abituato al linguaggio tailiano, la predica di don Sabaglia si può riassumere così: il dolore del fratello è un mistero mandatoci da dio, noi dobbiamo tutti insieme viverlo, giacché nel dolore si prepara la venuta del regno del messia).
Fu un intervento (predica, nel nostro linguaggio) memorabile.
Il popolo piangeva e si batteva il petto, la maestra giurava di volersene far carico anche subito, i genitori, benché duramente provati da quel che era accaduto finora, avevano un così grande desiderio di sperare che si abbandonarono al clima generale. Così, dal giorno dopo, tutti i cittadini di quella città presero a farsi carico di Segiuppe; ogni mattina si presentava uno e diceva: « Oggi me ne faccio carico io », lo acchiappava, lo metteva sulle spalle e lo portava in giro per la città, incurante dei morsi, dei pugni, degli schiaffi e dei pizzicotti che Segiuppe con innato senso dell'uguaglianza distribuiva a ciascuno. Poiché erano tanti e Segiuppe era piccolo, il peso quasi non si sentiva: per un giorno! Ma dai e dai passava il tempo e Segiuppe cresceva: farsene carico diventava sempre più difficile. Solo alcuni giovanotti resistevano tutta la giornata con Segiuppe sul groppone, i più dopo un paio d'ore crollavano.
E i giovanotti, poi, erano seccati di dover sempre star lì a bloccargli le mani per non arrivare dalla morosa, la sera, tutti segnati. Si decise di acquistare un carrozzino, tirato da un cavallo. Il sindaco approvò, la regione dette il suo assenso, i contribuenti tirarono fuori i soldi e Segiuppe fu scarrozzato, che volesse o non volesse, per tutto il santo giorno per le strade della città. Sul carrozzino era stato scritto, perché i cittadini non dimenticassero: questo è Segiuppe, tutti dobbiamo farcene carico, deve restare sul territorio.
Una volta un ragazzino, forse un po' invidioso del carrozzino, chiese:
« Ma perché non gioca un poco con noi? », ma il padre gli diede uno smataflone e gli disse: « Zitto, stupido, Segiuppe è diverso e noi dobbiamo accettarlo così com'è: se diventasse come te, che diverso sarebbe? ».
Nessuno se lo portava a casa, perché doveva restare sul territorio e nessuno stava a cercare di farlo parlare, perché bisognava accettarlo così com'era. Bisogna sapere che in quel paese tutti avevano paura della violenza e, benché qualche mattacchione ogni tanto lanciasse un petardo per spaventare il popolo, nessuno avrebbe costretto un altro a fare alcunché. Figurarsi costringere Segiuppe a parlare. La libertà di parola era considerata sacra. Se qualcuno, con mezzucci, avesse niente niente tentato una cosa del genere, sarebbe stato bollato degli insulti più atroci; violento, tecnocrate e individualista era il meno che potesse aspettarsi.
Ma il tempo passava, impietoso.
Rimano andava già all'università, già era entrato in quella fase della vita, lunga in quel paese, in cui si cerca lavoro: e Segiuppe sempre sul carrozzino. I genitori, poi, diventavano vecchi. Anche lui aveva, ovviamente, cambiato aspetto. Sempre però con quello sguardo strano, un po' selvatico e un po' assente. Di tanto in tanto, ma di rado, mollava uno sberlone a qualcuno senza tanto pensarci su (o, chissà, ci pensava ma non si capiva). Bisognava radergli la barba tre volte la settimana, aveva deciso il sindaco all'atto di far la delibera per pagare il barbiere, e, al tempo stesso, imboccarlo.
I genitori si sentivano anche a disagio: tutta questa gente che si dava da fare per Segiuppe e loro che provavano un sentimento misto, come se glielo portassero via, da un lato, e se non si fosse mai fatto niente davvero per lui dall'altro. Poi si sentivano in colpa di pensare cosi di gente che li aveva aiutati tanto e piangevano. I vecchi! Ritornano bambini, si sa.
Segiuppe, intanto, era ancora sul territorio ma, poiché il cavallo che tirava il carrozzino era morto e trovarne un altro era un'impresa, e poi costava tanto con i tempi duri che correvano, era stato allocato nei giardini pubblici, che erano ben grandi, come sempre nelle città di quel paese. Più sul territorio di così, dissero tutti, e quasi se ne scordarono. Sennonché un giorno cominciò a circolare la voce che si masturbava, proprio li, in mezzo al giardino, senza, immaginate, il minimo senso della vergogna.
Fu cosi che anch'egli ebbe una funzione sociale, anzi, a vero dire, un reale lavoro: si pensò infatti che, lungi dal reprimere il fenomeno, bisognava in incoraggiarlo, se era possibile. Comunque era bene che, contrariamente alle opinioni di alcuno, lo vedessero anche i ragazzini delle scuole: così avrebbero imparato a tollerare la diversità in tutte sue manifestazioni. Dunque nei programmi di educazione sessuale fu inserita una gita al parco: si spiegava voce suadente la sessualità dei diversi, e come bisognasse accettarla. Beninteso era la sessualità dei diversi.
E qui la storia volge alla fine, tristemente perché la fine è la morte dei genitori che, inzaccherato o cencioso che fosse; acchiappavano Segiuppe ogni sera, se lo ripulivano e se lo mettevano a letto. Ma morti loro, che fare? Il fratello, per necessità di lavoro era emigrato, parenti non ce n'erano. Si riunì il consiglio comunale, si riunirono il consiglio di quartiere, ciascuno propose qualcosa e le proposte andarono vagliate, poi ridimensionate, poi riunite, quindi meditate e di nuovo discusse: insomma passò del tempo.
Qualcuno, intanto, visto il tempo passava e Segiuppe restava territorio, gli aveva costruito un capannino di frasche e lui vagolava tra dentro e fuori, sempre zitto come un pesce, forse, con uno sguardo ancora più triste. Il capannino fu visto, fu considerata una proposta popolare, dunque giusta e fu elaborata una proposta: di costruire una casetta li, nel parco, per Segiuppe, anche con un appartamentino per un custode, che gli badasse un po' e un po' tenesse in ordine il giardino. Era la soluzione giusta, tutti lo capirono subito, ma come chiamarla?
Qualcuno proposte: Nimacomio? E così fu.
E vissero felici e contenti per un secolo e più.
A VENT'ANNI DA "UNA FAVOLA PSICHIATRICA"… LEGGI SEGUENDO IL LINK