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LA TERAPIA DELLE TOSSICODIPENDENZE IN CARCERE: NUOVE PROSPETTIVE

3 Dic 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

 

PREMESSA

 

Queste riflessioni nascono dal lavoro di alcuni anni svolto con i tossicodipendenti reclusi all'interno della Se.A.T.T. della Casa Circondariale di Rimini.
La Se.A.T.T. che significa Sezione Aperta Trattamento Tossicodipendenti, è una Sezione che è stata aperta a Rimini nell'Aprile del 1991 in seguito al D.P.R. 309. Una "Sezione a Custodia Attenuata" che presenta alcune peculiarità.
Innanzitutto è separata dall'Istituto carcerario: è una piccola palazzina, all'interno della cinta muraria, che può ospitare 10 – 12 persone (2 camere) con una cucina, una sala da pranzo, una stanza ove è possibile fare attività sportiva, ed un altra ove stiamo allestendo un laboratorio di rilegatura che sostituirà quello di Off Set impiantato precedentemente.
1A tale sezione possono accedere detenuti da tutte le carceri d'Italia, tossicodipendenti che ne facciano richiesta, che abbiano una pena compresa tra i 4 mesi ed i 4 anni 1/2 per i definitivi o, che si presume tale, per i non definitivi.
Il programma complessivamente dura un tempo definito. Solitamente è di 4 mesi, può variare fino agli 8 – 9 mesi. La gestione della struttura è autonoma da parte dell'equipe della Se.A.T.T.. Questa equipe multidisciplinare è composta da operatori del SER.T. (4), Agenti di Polizia Penitenziaria (attualmente 11), un operatore del C.S.S.A. ed inoltre dai capi settori e da un delegato dell'Amministrazione Penitenziaria.
I capi settori sono dipendenti di un ente privato, la Cooperativa Cento Fiori che si occupa delle attività lavorative (formazione al lavoro) e che sono responsabili dei laboratori. Attualmente tali laboratori sono: la Florivivaistica – Cantiere Nautico, entrambi sul territorio fuori del Carcere.
In questo programma sono previsti, oltre alle attività lavorative, gruppi terapeutici e momenti ricreativi, ludici e culturali organizzati con il volontariato.
La giornata, organizzata come all'interno di una Comunità Terapeutica permette all'utente-ospite-ristretto, di cimentarsi nelle attività, nel seguire corsi di formazione.
I ritmi – le regole – gli impegni, consentono l'emergere di un "materiale" a vari livelli utile all'utente e all'equipe.
Questo materiale, le riflessioni, la quotidianità vengono portati nel gruppo terapeutico che diviene "contenitore di una mente gruppale" (Bauleo) dove è possibile la sua elaborazione.
Il potere pensare ad un cambiamento, un cambiamento dello "stile di vita", delle "abitudini" come può essere considerata l'assunzione cronica di sostanze stupefacenti è il presupposto fondamentale affinché il soggetto possa effettivamente fare delle scelte diverse.
Offrire le condizioni perchè questo avvenga, offrire lo spazio, la possibilità perchè un soggetto possa imparare a pensare è stato allora l'obiettivo che ci siamo posti all'interno della struttura, utilizzando il gruppo terapeutico quale strumento e luogo dove poter analizzare tale processo.

 

L'osservazione

 

Ci siamo trovati sin dall'inizio di fronte a storie di vita piene di disastri affettivi, a persone incapaci di prendersi cura di sè e del "proprio sè", senza uno "spazio mentale", (Resnik parla di una psicopatologia dello spazio mentale), dove il linguaggio era azione, un mettere in atto e dove ogni piccola riflessione poteva scatenare un vortice di affetti.
Persone disperate, ma disperato inteso come quello stato senza più dolore per la propria storia, come anestetizzate, dove l'adattamento aveva preso il posto del vivere, dove il movimento era verso il fuori, poter uscire il prima possibile per poter riprendere a "fare quello che facevano prima".
Attraverso il nostro dispositivo informazione – gruppo, regole-gruppo che è proprio della Concezione Operativa abbiamo potuto renderci conto di alcune difficoltà. Difficoltà nello stare insieme, nel comunicarsi, nel comportarsi, nell'imparare anche cose semplici, come regole di vita, sul come alimentarsi…….
Questa "osservazione" ci ha fatto pensare come a tutto un "complesso di problema" che può essere pensato nella sua interezza come ad un "non apprendimento", che un non apprendimento, può essere il sintomo, la risposta, la difesa ad una situazione.
Tutto questo mi sembra importante per pensare a quale tipo di dispositivo dobbiamo o possiamo attivare all'interno del contesto Carcere.

 

L'obiettivo

 

Se inizialmente la nostra idea era che, attraverso la Se.A.T.T. potevamo ottenere un cambiamento e cioè potevamo offrire uno spazio di elaborazione della propria storia, oggi, a distanza di 5 anni (……………..) ci sembra che i lavoro sia più verso:
"come rimettere in moto un apprendimento, come poter riattivare un processo dinamico di apprendimento" che si è bloccato. Detto in altre parole è: come far uscire il soggetto dalla strada dell'adattamento per metterlo in un percorso di apprendimento
Allora "educare" – il "rieducare" parola che utilizza il Carcere potrà assumere un significato. Non tanto tirar fuori qualche cosa che spesso è solo nella testa di chi si im – pone come "educatore" ma potrà ruotare intorno alla nozione di cambiamento.
Ma apprendere per noi significa poter modificare i propri comportamenti al fine di operare con maggiore possibilità su aspetti del quotidiano. Il processo è rappresentato dal confronto tra vecchie nozioni, vecchi atteggiamenti e nuove modalità di approccio.
Ma questa modifica di "modelli interni" di conoscenza ha un costo emotivo molto alto. Oltre a ciò non si può dimenticare che è possibile entrare in questo processo solo se c'è la possibilità di "sopportare una certa conflittualità".
Nel nostro caso il problema dell'apprendimento è quello di riuscire a disapprendere vecchi schemi e modelli di conoscenza disapprendere regole, luoghi comuni, stereotipi della devianza,ma non solo.
I contesti familiari, altro luogo di apprendimento, sono spesso conflittuali: famiglie emarginate, multiproblematiche e sono questo il "tessuto di provenienza" di questi soggetti e che insegna a volte la legge della sopravvivenza, del più forte, dell'emarginato.
Occorre pensare allora che il processo di maturazione del soggetto "delinquente" deve passare attraverso il fallimento dell'ideale delinquenziale.
Attraverso questo passaggio si ha la possibilità di poter costruire una identità differente da quella fino ad oggi dimostrata.
Il cambiare un gesto, una parola, un comportamento può avvenire solo nel momento in cui il soggetto scopre da una parte l'inutilità di un certo sistema di riferimento, di un certo "modo di fare" ma dall'altra, che esiste la possibilità concreta di "agire" in un modo diverso sulla realtà.
Allora l'internamento in Carcere, che "dovrebbe essere l'inizio della maturazione del soggetto il quale dovrebbe rendersi conto che……." ci accorgiamo che diviene l'inizio di un processo cronico di deformazione caratteriale in seguito al quale il soggetto svilupperà un adattamento alle regole del Carcere.
Imparerà a modulare la propria sofferenza attraverso l'annichilimento di sè del proprio sè o di quella del compagno di cella stabilendo una scala gerarchica basata sulla violenza, sul chi è il più forte, il più delinquente, questa modalità attenua senz'altro il proprio stato di rabbia e le proprie angosce.
Quello che fuori, ha commesso i crimini peggiori dentro potrà essere il migliore. Del resto si entra devianti e si può uscire peggio.
Il Carcere per come è organizzato ancora oggi pretende di rieducare chi trasgredisce la legalità costringendolo a vivere in una microcultura in cui le norme e le regole sono contraddittorie. Si usa la violenza per curare la violenza.
In queste condizioni il Carcere non può assumersi il compito di recuperare il soggetto ma solo mantenere emarginato chi è di per sè emarginato. In questo senso il Carcere diviene deposito di ogni situazione che devia dalla norma. Deposito, con la funzione di occultare le parti malate della società che in questo modo si protegge dai suoi devianti.
Il complesso carcerario con i suoi cancelli, le sue mura diviene così barriera inpenetrabile tra il "dentro" e il "fuori" della società.

 

Il dispositivo

"In questa mattinata
privata del fuori
mi sogno le scarpe
nelle strade di questa città" 
(Giacomo. "I mari che ho in me" Se.A.T.T. 1993)

 

Concludo questa "osservazione" a tratti anche dura, ma necessaria per poter chiarire il tema proposto e cioè su quale sia il dispositivo e perchè.
Pensare, organizzare, il " dispositivo" vuol dire pensare al contesto in cui si deve intervenire.
Cioè per pensare il dispositivo occorre avere chiaro dove siamo Carcere – Tossicodipendente – Famiglia, ma occorre anche che il dispositivo abbia uno spazio per essere rielaborato. Questo spazio per noi è la "supervisione", spazio e tempo per rivedere gruppalmente le fantasie, gli incubi, in relazione alla chiusura, la trasgressione, la pazzia e momenti in cui a distanza è possibile pensare alle modifiche ai cambiamenti.
Anche per noi ci sono stati cambiamenti, per questo come ho già detto, abbiamo anche variato il tipo di intervento.
Cambiamento nato dalle pausee di riflessione "organizzate" ma anche dalle pause obbligate che il Carcere ci ha posto.
Periodi di grave tensione, per le difficoltà dovute alla ridefinizione delle regole, dei ruoli, degli spazi di intervento, che questa esperienza innovativa ha posto al carcere ed anche, come voi saprete, delle vicende interne: dal Giugno '95 l'Istituto non ha un Direttore stabile.
Ritornando al compito: "come mettere in moto un processo di apprendimento che si è fermato".
Provo a definire cosa è per noi apprendimento: "cioè un processo di formazione interiore in cui non 'è solo da ritenere delle nozioni ("così non si fa") quanto la costruzione di uno spazio della struttura della mente (Bion) che si modula nell'esperienza e che di essa farà un uso diverso".
Ogni conoscenza nasce dalla capacità di pensare, e questa può funzionare solo quando, in qualche modo, emotività e sofferenza sono contenute. 
Questo sarebbe: come trasformare le emozioni in pensiero, trovando un posto interno dove i conflitti, che di volta in volta si presentano, possano essere affrontati.
Allora apprendere significa anche lasciare una situazione di sicurezza per entrare in una corrente di possibilità, dove ansia e confusione sono le protagoniste e dove la paura di pensare, perdersi, perdere il controllo, ostacolano continuamente il processo.
Quindi, per tornare alla Se.A.T.T., la prima operazione è avere un dispositivo che riapra la nozione di tempo e spazio per permettere l'emergere della storia personale del soggetto.
Alla Se.A.T.T. viene fatto un contratto che prevede un impegno (4 – 8 mesi) in un tempo definito.
Questo è il tempo che permette all'equipe Se.A.T.T. di formulare una "ipotesi", concordare un progetto concreto con l'U.S.L. di appartenenza e dare avvio al processo di apprendimento.
Poi uno esce, e avviene l'inserimento (Diurno – Comunità Terapeutica – inserimento lavorativo – colloquio al SER.T.).
Inserire un tempo permette al dispositivo di rompere un modello che l'istituzione carceraria è "costretta a tenere"e cioè cancellare il tempo.
Nel Carcere il tempo è il tempo della pena il momento dell'internamento e l'inizio di un tempo non vissuto dove i giorni e le notti si confondono.
Il tempo è importante anche perchè così può diventare un processo pedagogico e si può riattivare un "movimento" che è quello del fuori, "normale".
Nella società, c'è il tempo, il lavoro, gli orari. Allora mettere la quotidianità gli impegni significa far sentire un pò di conflittualità, che vuol dire dare la possibilità di pensare. Per questo l'organizzazione quotidiana prevede un modello tipo comunitario. Anche gli impegni, l'attività lavorativa, i momenti di gioco, che occupano la giornata sono spazi personali dove il soggetto si cimenta , sperimenta se stesso, con la collaborazione degli altri.
Sono riconosciute le proprie difficoltà e le proprie capacità, si "impara un mestiere". Si definiscono dei limiti nella giornata, si danno dei significati, così nel quotidiano, nel manifesto, come all'interno della propria persona.
Fare un compito determinato in un tempo ed in uno spazio (il concetto di operatività) con la possibilità di pensare a questo, è l'inizio di uno spazio anche della mente.
Si comincia ad attivare uno spazio interno di costruzione che è fatto di impegni, responsabilità, di timori e di ricordi, si inizia a prendersi cura di sè e del proprio corpo.
Il "potersi prendere cura di sè" presuppone la nozione di un tempo e di spazio. Collocarsi in un luogo, entrare in un posto, significa anche la possibilità di pensare il proprio corpo.
Resnik parla di: "abitare il proprio corpo", avere la possibilità di occupare uno spazio che è il corpo.
Allora lo spazio diviene l'elemento per poter pensare che c'è un'altra maniera di vivere la stessa situazione e in termini diversi poter collocare un'idea in un luogo psichico.
L'analisi della propria storia, è connessa con il recupero dell'idea del tempo.
Il soggetto deve avere un'idea della propria storia: che c'è un prima ed un poi e questo mi sembra uno degli elementi dove carcere e patologia della tossicodipendenza entrano in collusione.
Di quale riabilitazione ed educazione parlare senza che vi sia la possibilità di una elaborazione psichica che articola il prima con l'adesso e l'adesso con il poi?
Questa variabile temporale e la difficoltà a ricordare i vissuti ci obbliga a pensare l'apprendimento operativamente; cercando di ristabilire un qualche filo di continuità psichica un ricordo, una storia.
Le attività lavorative sul territorio divengono allora la possibilità di pensare al fuori, di sapere qualche cosa sul fuori, per immaginare il "dopo".
La capacità di pensare, in un programma di cambiamento, nasce dalla possibilità di elaborare la propria storia: "la presa di coscienza".
Questa "elaborazione" significa per il soggetto, dare un senso alla propria, potersi sedere in un certo posto ad ascoltare le proprie emozioni, il proprio dolore.
Potere anche tollerare un "dolore mentale" e sperimentare di poter apprendere delle cose nel vivere questo dolore.
"Credevo che non avrei mai raccontato questo", "è la prima volta che ne parlo", "dopo che ne ha parlato mi sono sentito un po' meglio".
Il "gorgo" nel quale occorre tuffarsi ha però bisogno di un'appiglio per potere essere affrontato.
Questo è direttamente collegato con il contenitore inteso non solo come luogo fisico, ne come il gruppo da solo ma inteso come il tipo di clima che si può instaurare all'interno della situazione gruppale che, a sua volta, è costituita dall'intrecciarsi di tutte le relazioni che si instaurano nella situazione Se.A.T.T..
Per questo è importante che il dispositivo sia accogliente, capace di far sentire al soggetto una certa affettività, sviluppando una cooperazione, dove sia possibile instaurare legami diversi da quelli dell'ambiente carcerario sia con gli altri componenti del gruppo, sia con gli operatori.
Avere a disposizione una situazione dove poter parlare, poter comunicare per imparare l'ascolto. Tutto ciò anche in relazione al fatto che questi soggetti hanno sperimentato situazioni di abbandono, di privazioni affettive anche gravi, oltre che di isolamento, già prima del carcere. Le relazioni che si possono instaurare sono importanti: poter fare legami nuovi, che siano fondati su di un rispetto reciproco. Anche quì il dispositivo deve poter immettere elementi di conflittualità con le "regole carcerarie" ma anche con le regole della loro "istituzione interna".
Utilizzare il sapere, e un saper diverso, per trasformare il proprio sapere imparando ad esempio a collaborare con la struttura, a ridefinire le regole, a prendere delle decisioni, a migliorare la situazione.
Un'attenzione particolare è rivolta alle regole che devono avere una certa possibilità di discussione. Il poter stabilire o ristabilire almeno una parte delle regole con gli utenti ha un significato importante.
Questo significa che anche loro possono ripensare alle regole e che anche le regole interne possono cambiare. Le "regole delinquenziali" possono diventare altre.
E' anche un modo per mettere in una diversa relazione il soggetto – la regola, il soggetto – l'altro che conosce, il soggetto – l'autorità.
Una diversa relazione che attraverso la partecipazione e la responsabilizzazione rinforza la parte adulta e la sua capacità di decisione.
Tutto questo che fa ancora parte della quotidianità è aiutato dal personale di Polizia Penitenziaria che da noi è chiamato chiamato: "collaboratori".
Per loro sono stati organizzati corsi e momenti di formazione, (secondo il metodo della concezione operativa di gruppo), si è avviato un lavoro di cambiamento, iniziato con l'apertura della Se.A.T.T. e che ha richiesto del tempo.
Il personale di Polizia Penitenziaria è all'interno della struttura un elemento importante. Da un lato è quello che più risente della situazione in cambiamento, dall'altra è parte della struttura del "contenitore", che cura il diverso clima.
Non sto a specificare troppo, dico solo che gli Agenti lavorano in borghese, e fino a poco tempo fa per 5 anni hanno, a loro discrezione, mangiato con gli utenti, seguendo le attività lavorative, ricoprendo appieno il compito pedagogico – educativo che all'interno di queste Sezioni possono svolgere.
Essere concretamente parte dell'equipe. Riscoprirsi capaci di utilizzare strumenti diversi, essere in grado di conoscere il significato dell'osservazione, poter dare dei significati alla vita del detenuto.
Questo ci ha permesso di fare un'esperienza importante della quale abbiamo verificato la validità e nella quale abbiamo riconosciuto una possibilità per modificare la cultura del Carcere.
Infine il gruppo, il luogo ove elaborare, poter pensare, dove mettere la propria storia con le proprie angosce.
Noi pensiamo che il gruppo sia lo spazio dove ciò è possibile. In questo il gruppo operativo ha alcune caratteristiche che differenziano la concezione operativa da altre concezioni.
Il lavoro con il gruppo coordinato con Tecnica Operativa si sviluppa a partire da 3 nozioni di base:
1 – il compito: è il tema o la finalità sul quale si centra il gruppo; permette di discriminare gli spazi di ognuno degli integranti e di ricercare sul perchè e sulle finalità del gruppo.
Implica un lavoro da compiere per integrare i pensieri e l'affettività presenti nel gruppo.
L'esplicitazione del compito manifesto mette in moto il processo gruppale e permette di svelare per ciascuno e per il gruppo nel suo insieme i diversi significati del compito (compito latente).
Il compito viene scelto in base alle caratteristiche della patologia.
Alla Se.A.T.T. abbiamo individuato come più pertinenti i seguenti compiti:
Il progetto – la responsabilità – il parlate di voi.
Il gruppo dura un'ora e trenta ha un coordinatore ed un osservatore (tre gruppi settimanali).
L'altra nozione è quella di:
2 – emergente: significa "il punto di urgenza" della situazione gruppale.
L'emergente segnala gli elementi significativi che appaiono nel processo e che connotano i diversi momenti per i quali il gruppo passa.
La terza nozione è quella di resistenza al cambiamento.
Ciò che tiene uniti gli integranti del gruppo è un legame di disconoscimento rispetto al desiderio di cambiare.
L'idea di cambiamento che il gruppo può prospettare è avvertita come catastrofica, caotica e destrutturante.
Ci si difende dall'angoscia che provoca il momento della discriminazione, dell'effettivo riconoscimento dell'altro, della dipendenza.
A partire dal compito il Coordinatore, attraverso segnalazioni e interpretazioni, favorirà da un lato il fluire della comunicazione e, dall'altro, lavorerà per rendere tollerabili le angosce.
L'interpretazione è la strada per costruire uno spazio mentale perché significa dare un nome ad un sentimento che dentro di loro non ha nome.
Nella concezione operativa di gruppo il Coordinatore non è il leader del gruppo, non indirizza il gruppo verso obiettivi (da lui) prestabiliti, ma interviene per elaborare le resistenze che man mano nel gruppo si presentano. Per questo il coordinatore non ha idea sul come deve svolgersi il processo.
Questa è la cosa più terapeutica per il gruppo perché questo assetto mentale favorisce il dispiegarsi del processo.
Al contrario, il Coordinatore con una direzione stimola in questi gruppi l'adattamento, il "come se" e la "dipendenza"; può succedere che certe affermazioni vengano fatte solo per il coordinatore che desidera un certo comportamento, non permettendo così ai membri del gruppo di esplicitare i propri dubbi, le difficoltà le paure che il processo di cambiamento suscita.

 

 

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