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Che cos'è il piacere, quanto lo stesso si muove tra soggettività e pensiero comune, tra libertà e divieto? Chi decide fino a dove può spingersi la fisiologica ricerca dell'essere umano a proposito del godimento? Chi stabilisce cosa all'interno di questa ricerca può dirsi lecito e cosa illecito?
La dimensione del piacere, così come quella del consumo di sostanze psicoattive (legali e illegali) o quella dei comportamenti a rischio, non è facilmente definibile, considerata la sua estrema polimorfia e la conseguente assenza di linearità. Diversi fattori, infatti, intervengono a definirne i contorni, il “come”, il “dove”. Ciò che appare ineludibile, pena la mancata sia pur comunque parziale comprensione del fenomeno, è il “perché”. Tutti gli esseri viventi agognano il piacere, declinabile in diversi modi: scarica di tensione, benessere, appagamento dell'ideale di sé, superamento dei limiti, felicità, euforia, assenza di dolore, accesso a nuove esperienze percettive ecc. Dovremmo attingere al gran fondo della diagnostica per prevedere una tensione differente.
Nell'ascolto quotidiano di consumatori/dipendenti patologici di sostanze psicoattive, alla domanda “perché?”, la risposta più frequente è: per ricavarne piacere, intenso, spesso breve, foriero di conseguenze in alcuni casi devastanti; eppure piacere. Questo testo intende avvalersi soprattutto delle parole e delle storie di persone che utilizzano le sostanze psicotrope (legali o illegali). Troppo spesso, infatti, quando se ne discute, la voce dei diretti interessati è ignorata. Da addetti ai lavori comprenderemo i meccanismi tradotti dalle neuroscienze, dalla psicologia clinica, le strade percorse dai neurotrasmettitori, i cambiamenti neuroadattivi e tanto altro ancora, ma poco comprenderemo dei consumatori senza un ascolto che, solo se reale e appassionato, potrà tradursi in responsabilità da parte di chi racconta.
Se trascuriamo questo assunto, assecondando il bisogno di tacitare la dissonanza cognitiva che discende dall'apprendimento dei rischi, difficilmente riusciremo a trovare soluzioni alternative al consumo dilagante.
Libertà o divieto. Malattia o vizio. Innocenza o colpa. Riduzione del danno o tolleranza zero. Manieristica e sempre più asfittica continua ad essere la discussione attuale sul consumo di sostanze psicotrope, nella distrazione (voluta o culturalmente imposta) dal concetto di piacere.
Questo scritto intende provare ad inserirsi nel dibattito culturale intorno all'uso/dipendenza da sostanze in risposta all'egemonia del modello biochimico, declinato secondo il paradigma dominante delle neuroscienze, proponendo una riflessione sullo stigma e la colpevolizzazione cui il consumatore va incontro soprattutto nel superamento del limite, nel consegnarsi all'eccesso.
Alla necessità di far collimare sintomi e diagnosi bisognerebbe, infatti, aggiungere un sapere problem, setting and pleasure oriented per rispondere più efficacemente ad un indubbio e diffuso bisogno di strumenti curativi e trasformativi, oltreché meramente descrittivi.
Perché un piacere diverso è possibile; rispetto alle sostanze è altro. È espressione del proprio autentico Sé e incontro con l'Altro.
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