In un periodo di accesi dibattiti politici sul tema dell’immigrazione, si sta verificando anche per gli ambulatori territoriali psichiatrici (C.S.M. e Ser.T.), la necessità di occuparsi di una fascia di popolazione che sino ad ora si è tentato di nascondere ed escludere pure dall’accesso alle cure.
L’etnopsichiatria sta improvvisamente diventando una disciplina urgente, ma lo sta diventando sullo sfondo di uno scenario politico particolare, in cui l’immigrazione viene gestita secondo logiche di controllo sociale, produttività territoriale e riduzione dell’accesso alle risorse. Queste nuove forme di colonialismo esercitano il loro potere sugli immigrati attraverso leggi che concorrono in modo determinante a creare quelle situazioni complesse che li mantengono nello stato di clandestinità e irregolarità.
Confondere e intrecciare i concetti di criminalità, devianza, malattia, disagio, sofferenza nel contesto psichiatrico, può portare a pericolosi equivoci che stanno alla base di manifestazioni di esclusione sociale estremamente pericolose sotto il profilo della salute psichica delle persone. Utilizzare i concetti di cultura, etnia, religione per sottolineare le diversità e le differenze, può mascherare impliciti tentativi di scissione e marginalizzazione, sotto le mentite spoglie del rispetto e della convivenza.
Ciò che si vuole evidenziare con queste considerazioni è quanto la politica e l’economia giochino un ruolo determinante pure nell’ambito della costruzione del sapere medico e psichiatrico in particolare.
Leggi che regolano i flussi migratori, i ricongiungimenti familiari, i criteri di regolarizzazione, leggi che legittimano le possibilità esistenziali delle persone decretandone i limiti e le condizioni; leggi che, agendo sulle variabili economico-organizzative del servizio sanitario pubblico, contribuiscono a eleggere i gruppi di persone da curare e l’efficacia delle strategie terapeutiche da utilizzare, fino a costruire intere categorie diagnostiche.
Che l’esperienza etnopsichiatrica si sia da subito intrecciata a quella politica e coloniale non è una novità, eppure il rischio, ancora oggi, è che questo legame venga sottovalutato; la bio-psichiatria occidentale si esaspera nella continua ricerca di un’origine della sofferenza psichica all’interno del nostro corpo, attraverso macchinose elaborazioni di dati, classificazioni di esperienze, strategici protocolli terapeutici, per ricondurre tutto a ciò che si vorrebbe oggettivabile, visibile e controllabile.
La banalizzazione dell’approccio psichiatrico all’incontro con gli immigrati passa attraverso la formulazione di nuove categorie diagnostiche, con risvolti più o meno esotici e folcloristici, attraverso la considerazione del problema linguistico come unico motivo di non comprensione, attraverso la discussione sulla veridicità di ciò che è solo considerato superstizione legata a pensieri inattuali e primitivi; la banalizzazione più pericolosa sta nella stigmatizzazione superficiale della storia personale di ogni immigrato, una storia sempre fatta di opportunismo, devianza, criminalità. E’ diventata esasperante questa continua battaglia al pregiudizio, perché si tratta di atteggiamenti e pensieri ben consci e organizzati, strategie elaborate che conoscono i valori che vogliono promuovere, la società che vogliono costruire, i poteri che vogliono gestire e le ricchezze che vogliono tutelare.
L’attività etnopsichiatrica, come ci ricorda Hounkpatin (‘02), è un processo di complessificazione, che non riguarda solo i riferimenti ai sistemi di cura tradizionali, le logiche di costruzione degli individui, i rapporti tra mondo dei vivi e mondo dei morti; essa è un processo di complessificazione pure nello sforzo continuamente teso ad evidenziare gli intrecci politici, economici e sociali che regolano gli spostamenti, i rapporti e le strategie di sopravvivenza degli individui.
La pratica etnoclinica, allora, cessa di essere una specializzazione di una più vasta materia che è la psichiatria, facendosi portatrice di un approccio più ampio alla sofferenza psichica; portatrice di interdisciplinarità, negoziazioni, mediazioni, discussioni, approfondimenti che escono dal corpo biologico del paziente, per appropriarsi anche degli spazi, dei luoghi, delle dimensioni visibili e invisibili, dei pensieri, dei riti, degli oggetti che portano le persone che incontriamo nel grosso mercato della cura.
Il mercato è un posto in cui si improvvisano incontri, si scambiano merci e si intrecciano storie. L’etnopsicoterapia è un luogo in cui gli incontri avvengono senza far riferimento a modelli d’intervento preconfezionati, né a linee guida, né a precise strategie comunicative; è un luogo in cui si costruisce ogni volta un percorso di cura originale, un luogo in cui si impara ad ascoltare prima di interpretare. Le conoscenze etnologiche e antropologiche diventano allora fondamentali al pari di quelle psicologiche e psichiatriche, così come la valutazione degli affari politici ed economici lo diventano al pari di quelli sociali e comunitari.
Le appartenenze culturali o etniche, le artificiose affiliazioni costruite ad hoc entro precisi contesti politici ed economici, sono anch’esse materia cui si rivolge la pratica etnoclinica, che esplora le conoscenze, le teorie, i modelli della sofferenza, del corpo, della terapia presenti in altre società e spesso in conflitto con quelle egemoni nella nostra cultura (Beneduce,’02).
Poiché non esiste azione terapeutica priva di contenuti politici, concetto che diventa ancor più evidente quando le nostre azioni sono dirette alle fasce deboli della popolazione, può essere importante valutare le opportunità riflessive che ci offre l’etnopsichiatria, partendo da un atteggiamento criticamente costruttivo nella significazione dell’organizzazione dei nostri servizi pubblici, dei nostri strumenti terapeutici e dei nostri saperi specialistici.
Gli immigrati che si rivolgono direttamente ai servizi di salute mentale o ai Ser.T. sono molto pochi in confronto a quanto ci si aspetterebbe dalla loro presenza in altri reparti ospedalieri, o dai loro passaggi al Pronto Soccorso, eppure sono sempre più frequenti le richieste di supporto e le segnalazioni che arrivano da realtà, istituzionali o private, che non si occupano di sanità. Le scuole, i servizi sociali dei comuni, le comunità, i centri di accoglienza, i carceri, le parrocchie sembrano rappresentare i luoghi in cui le difficoltà degli immigrati trovano maggiori possibilità per poter essere denunciate e avvertite. Forse, suggerisce Beneduce (’02), le istanze ghettizzanti nascono dall’incapacità delle istituzioni di aprirsi in modo opportuno ai diversi linguaggi della salute e della sofferenza, rifiutando a priori la possibilità di mettere in discussione le proprie pratiche o i propri presupposti.
E’ sorprendente che sia stata la società dei trasporti pubblici a voler organizzare una giornata di incontro con le autorità e i servizi sanitari, per poter discutere dei disagi e delle problematiche che mostrano i minori extracomunitari sul nostro territorio (quello che fa riferimento all’A.S.L. 4 chiavarese). Una presenza che è stata successivamente convalidata dal dato inquietante di oltre 600 passaggi di minori stranieri al Pronto Soccorso degli ospedali della zona. Le richieste erano in questo caso da riferirsi a problematiche somatiche od organiche di scarsa importanza, che si risolvevano spesso con incontri incentrati sull’ascolto, piuttosto che con azioni terapeutiche specificatamente mirate sul sintomo. Sarebbe ingenuo parlare di somatizzazioni o di dolori psicosomatici in genere, sarebbe estremamente grave sottovalutare quella inquietante presenza, scotomizzandone il significato sociale oltre che prettamente sanitario; dobbiamo allora tornare ad interrogarci in una prospettiva di complessificazione: i sintomi "strani" degli immigrati sono tutt’altro che"semplici" somatizzazioni, dal momento che rappresentano e rinnovano in modo quanto mai significativo tutte le tensioni che hanno attraversato i corpi singoli e quelli collettivi all’interno dei paesaggi che essi hanno abitato. La loro storia e quella dei loro contesti plurali è scritta nel corpo in segni che si svelano nei loro significati più intimi solo nel momento in cui si è disposti ad interrogarli nella loro complessità relazionale, tenendo insieme invece di separare tutte le possibili scene della loro rappresentazione (Vacchiano, ‘02).
Lavorando in un contesto istituzionale è possibile agire sulla base di questi presupposti?
I servizi territoriali delle Aziende Sanitarie funzionano in relazione alla capacità produttiva di salute; essendo la valutazione della salute in quanto prodotto, una variabile estremamente complessa da quantificare, sia in rapporto alla sua diffusione che alla sua qualità, l’indicatore che si utilizza per valutare l’efficienza di un servizio pubblico è rappresentato dal suo carico di lavoro, ossia dal numero e dal tipo di prestazioni fornite. Tali prestazioni sono preordinate in tabelle che assegnano ad ognuna un punteggio. I punteggi sono gli indicatori di qualità dei servizi. Le prestazioni preordinate fanno riferimento alla struttura del servizio, la cui organizzazione è costruita su particolari modelli d’interpretazione della sofferenza.
Ogni sofferenza è definita da una diagnosi che si offre come chiave di lettura e di significazione di tutto ciò che appartiene alpaziente, nel tempo trasformatosi in utente e in cliente. Ad ogni diagnosi corrispondono protocolli terapeutici giudicati efficaci per il tipo di patologia che le stesse diagnosi sottendono.
Facendo una breve digressione sull’uso strumentale di certe categorie diagnostiche, vorrei considerare come l’interpretazione psicopatologica legittimi operazioni di controllo sociale piuttosto che di cura o di sostegno.
I Tossicodipendenti si offrono a questo riguardo come una categoria di pazienti molto particolare.
L’aspetto che voglio considerare è quello della comorbilità.
Rounsaville (‘01) sostiene che, rispetto alla Tossicodipendenza, in tutto il mondo la comorbilità più grave è rappresentata dai problemi antisociali, dalla Personalità Antisociale. In passato si sosteneva l’ipotesi che l’Antisocialità fosse sintomo di unamalattia protettiva rispetto alla Depressione, dato che la comorbilità della Tossicodipendenza con la Depressione era molto rara. Questo perché, in passato, gli specialisti nel trattamento dei tossicodipendenti non ponevano mai la diagnosi di Depressione.
La Tossicodipendenza era considerata essenzialmente una condotta comportamentale deviante e, di conseguenza, antisociale.
Dal punto di vista psicopatologico l’Antisocialità prevede che il paziente non sia in grado di sentire tristezza né senso di colpa.
I pazienti Tossicodipendenti Antisociali erano molto pericolosi perché l’antisocialità li rendeva immuni dal provare qualsiasi emozione, mentre la tossicodipendenza ne alterava le capacità critiche e cognitive; persone che potrebbero uccidere anche senza sentire nessun senso di colpa (Rounsaville, 01). Erano pazienti imprevedibili, acritici e reticenti a farsi curare.
Dati successivi hanno invece dimostrato che esistevano pazienti Antisociali Depressi: sono molto importanti perché anche se è molto difficile curare la Personalità Antisociale nonostante nuove tecniche psicoterapeutiche, si ritiene che la Personalità Antisociale non possa essere risolta, che queste persone non possano migliorare (Rounsaville, ‘01). L’assunto che sembra sostenere queste riflessioni è che un paziente che prova un senso di colpa è destinato a guarire, mentre chi non prova rimorsi è destinato a restare malato. Il Disturbo di Personalità Antisociale è una diagnosi che prevede contemporaneamente, come sintomi, sia attività e comportamenti devianti, sia disturbi della sfera emozionale, che si esplicitano soprattutto nell’incapacità di provare un senso di colpa.
Le teorie della bio psichiatria sostengono che il deficit che sta alla base delle malattie mentali sia sempre a livello del sistema di neurotrasmisione o a livello genetico.
Questo concetto vale anche per i Disturbi di Personalità, quindi l’alterazione morale implicitamente presente nel disturbo di Personalità Antisociale sarebbe dovuta ad un’alterazione biologica, così come la predisposizione alla tossicodipendenza. Rounsaville (‘01) sostenendo l’incurabilità dell’antisocialità, afferma che il Tossicodipendente Antisociale non è curabile, se non forse per l’aspetto della dipendenza fisica dalle sostanze, nel qual caso rimarrebbe comunque un paziente Antisociale.
Di nuovo il pensiero corre alla pratica etnoclinica e alla valutazione dei rapporti di forza che tenta di svelare nella sua critica ad una psichiatria sempre più disposta a farsi manipolare da logiche che con la cura non hanno niente a che fare. La creazione di modelli interpretativi e terapeutici di alcune patologie, così come la creazione di servizi e comunità specializzate nella presa in carico di particolari diagnosi, non fanno altro che generare esclusione; esclusione di storie e di persone, di categorie di persone.
Non pare opportuno, quindi, costruire altrettanti manuali di strategie etnopsichiatriche proprio perché i presupposti da cui muove l’attività etnoclinica conferiscono all’individuo l’unicità del luogo che rappresenta. L’individuo come luogo di cura richiama quel concetto di identità che attraverso gli interventi che le sono propri, la medicina contribuisce a forgiare.
Siamo quindi obbligati ad interrogarci sull’individuo come luogo di cure, ma anche sulle logiche che influenzano e muovono la pratica medica e psichiatrica, in un complesso gioco di forze che possono spostare il fuoco dell’azione terapeutica in un luogo diverso da quello che è l’individuo. Le riflessioni che l’antropologia medica ci obbliga a considerare a questo riguardo, introducono una prospettiva etica da cui considerare criticamente il nostro operato. E’ uno sguardo che ci può aiutare ad interrogarci sul significato delle nostre azioni mediche quotidiane, incastrate in un contesto sociale, politico, economico e culturale imprescindibile nel condizionare le nostre attività, oltre che l’identità delle persone che dobbiamo curare.
Parlando di un’etnopsichiatria capace di strutturarsi senza definirsi e senza congelarsi, diventa naturale abbattere i confini dell’utenza cui si rivolge questa disciplina che, automaticamente, si propone come strumento teorico e operativo capace di rivolgersi ad ogni paziente psichiatrico e, forse, suggestivamente, considerandoli tutti immigrati: immigrati nella sofferenza. La pratica etnoclinica così torna a rivolgersi all’immigrato. Questo procedimento terapeutico che, attraverso lo sviluppo delle possibilità narrative, tenta delle originali strategie di cura, ci porta inevitabilmente a riflettere sul significato che la malattia assume a sua volta come strategia di sopravvivenza. Paradossalmente, infatti, proprio attraverso quella sofferenza, quelle crisi, quella confusione, quella destrutturazione, il malato può riuscire a individuare uno spiraglio percorribile, per potersi ricostruire e ricontestualizzare nell’intricato groviglio di relazioni che lo circondano. La malattia mentale si offre a questo riguardo come occasione in un percorso di ridefinizione non solo privata ma anche pubblica e sociale.
Queste riflessioni possono aiutarci a interrogarci ancora sul significato della diagnosi partendo da una duplice prospettiva: la diagnosi che si fa matrice responsabile della costruzione clinica del malato, attraverso una serie di rimandi tra lettura del sintomo e interventi terapeutici, e la diagnosi che offre al malato, attraverso il corredo sintomatologico che essa sostiene, le forme conosciute, cioè le forme pubbliche, per esprimere e quindi ridefinire socialmente i conflitti. In questa seconda ipotesi le patologie descritte nei manuali diagnostici psichiatrici sembrano potersi proporre come linee guida alla scelta dei sintomi. Può paradossalmente succedere, infatti, di incontrare persone rassicurate nell’idea di ricevere una diagnosi nota (certo sempre in rapporto alla sua gravità), almeno durante le prime consultazioni e i primi colloqui, quasi rinfrancate dalla possibilità di soffrire a causa di qualcosa che la medicina o la psicologia conoscono. Le richieste di spiegazione, l’interesse che si muove intorno alla diagnosi enunciata, sottendono l’acquisizione, da parte del paziente e dei suoi familiari, di tutta una serie di caratteristiche proprie di quella malattia, che legano i sintomi, ossia le forme in cui si manifesta, alla diagnosi.
Lo stato di malattia, quindi, può diventare uno spazio neutro e codificato, di per se sussistente, che offre i modi, i tempi e i confini per esprimere qualcosa che altrimenti potrebbe tacere. Ciò che mi domando e se la suggestione fornita dalle malattie che la psichiatria ha costruito e codificato, possano in qualche modo funzionare da rassicuranti contenitori, quasi come forme rituali, all’espressione della sofferenza dei pazienti che ne sono affetti.
La perversione di questa suggestione, tuttavia, si manifesta clamorosamente nella presa in cura di quei pazienti.
Mentre i rituali terapeutici delle società tradizionali offrono realmente quelle auspicate possibilità di ricostruzione originale dell’individuo, proprio in quanto a tal scopo strutturatisi, le cure psichiatriche, che sulle diagnosi si fondano, finiscono col convalidare, attraverso le pratiche psico-mediche, l’invalidità che quelle patologie sanciscono.
A partire dal concetto di riabilitazione bio-psico-sociale il nostro malato viene valutato e sezionato, attraverso momenti di verifica e di controllo, in una prospettiva di cittadino socialmente utile che modula le variabili dei costi della cura in relazione alle possibilità di ciascuno di divenire un essere – produttivo.
La diagnosi psichiatrica nel nostro sistema sanitario, infatti, legittima il costo delle cure in relazione alle presunte possibilità di recupero del malato, possibilità che sono valutate proprio in riferimento alla diagnosi posta. E’ evidente allora come il malato venga inserito in una spirale diagnostico-valutativa che lo definisce socialmente abile, laddove la socialità si riferisce alla spesa pubblica in una prospettiva politico economica di ampio respiro.
Per gli operatori che lavorano in un contesto istituzionale diventa indispensabile riflettere opportunamente sull’uso strumentale, ancor prima che filosofico, delle diagnosi dato che è quella una variabile decisiva nel legittimare l’accesso alle cure.
Bisognerebbe quindi mantenersi in una posizione di equilibrio instabile tra le forze che gestiscono l’interpretazione della diagnosi che, se da un lato costruisce i pazienti proiettandoli in una spirale di rimandi che di continuo si allacciano e si rafforzano, dall’altro ne giustificano le possibilità terapeutiche.
Gli utenti dei nostri servizi allora dovrebbero essere considerati un po’ più "pazienti", nell’accezione che li richiama ad una maggiore vicinanza alla sofferenza piuttosto che all’utilizzo del servizio nei termini del rapporto clientelare. Gli operatori, d’altro canto, dovrebbero sentirsi più vicini alle necessità ed ai bisogni delle persone che incontrano in quei luoghi di cura, approfondendo, in un lavoro di complessificazione delle loro storie, i significati che quelle sofferenze raccontano. Certo questa predisposizione rischia di esporci in un campo ricco di interrogativi, uno spazio anzi più adatto a destrutturare le nostre certezze e per questo, forse, più difficile da ricercare come dimensione in cui ricostruire una cura.
Negli U.S.A. è stato inventato un cerotto che si incolla al paziente e che può rivelare la presenza di sostanze stupefacenti nel suo organismo. Il presupposto da cui è partita la ricerca di uno strumento di questo tipo, è che i tossici non dicono la verità ai medici. Per guadagnarsi la loro fiducia, per spostare la relazione ad un livello comunicativo più profondo, i medici elaborano stratagemmi sempre più sofisticati per smascherare le frottole che i loro pazienti raccontano; i medici inoltre dispongono di procedure e tecniche comportamentali per premiare ed incentivare le persone che hanno smesso l’uso di queste sostanze(Rounseville, ‘01).
Come può migliorare anche la cura?
Simone Spensieri: Psichiatra Ser.T. A.S.L. 4 Chiavarese, collabora col Centro Frantz Fanon di Torino.
e-mail sifraga@hotmail.com
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