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77° MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA: Andrei Konchalowsky “Carì compagni”

9 Set 20

Di Redazione Psychiatry On Line Italia

Andrei Konchalowsky, con i suoi 83 anni, è il decano di questa rassegna 2020 e, dopo i tanti Leoni d'argento collezionati, questa volta potrebbe davvero centrare il bersaglio grosso.  

Film fortemente voluto dal governo russo che l'ha pure finanziato, questo "Cari compagni" con cui si candida alla vittoria finale, narra dei tragici e poco noti fatti accaduti a Novocerkassk, nel sud della Russia europea, nei primi giorni di giugno del '62, allorché l'esercito e la polizia politica aprirono il fuoco contro un corteo di operai che protestavano contro il caro vita e i bassi salari, uccidendone 28 e ferendone un'altra ottantina.   

La vicenda, pressoché ignorata fino al crollo dell'Unione Sovietica, è stata finalmente riportata alla luce all'inizio degli anni '90, quando comunque nessuno dei protagonisti di allora era più in vita e poteva pertanto risponderne. 

Putin, di quella tragedia, ne ha fatto un mosaico della disordinata storia patria con cui ama infarcire la sua retorica nazionalista. Un caotico affresco dove il satrapo moscovita mescola magari guardie bianche e insorti dell'ottobre, zar più o meno grandi e Lenin, primi astronauti ed eroi di Stalingrado; qualsiasi cosa insomma passi il convento, sacra o profana che sia, purché alla fine comunque lui ne risulti l'unico, legittimo erede. 

La stessa operazione Putin ha preteso farla con la strage di Novocerkassk, senz'altro una delle pagine più vergognose della storia sovietica. In questo caso ha prima voluto che, in quella città, venisse eretto un monumento in omaggio a quei caduti e poi ha desiderato essere immortalato nell'atto di deporre un mazzo di fiori. 

All'approssimativo apparato del Cremlino dev'essere apparso di scarso rilievo, in questa messinscena, l'assoluta non credibilità del loro presidente come paladino dei diritti costituzionali e delle libertà concesse alle opposizioni; così come dev'essere sembrata trascurabile il fatto che il principale indiziato di quell'atrocità fosse quello stesso Kgb da cui Putin proviene, circostanza che pure dovrebbe di per sé rendere poco verosimile che l'attuale padrone di tutte le Russie abbia dovuto attendere gli anni Novanta per saperne qualcosa e provarne dolore.  

Ma più interessante delle acrobazie propagandistiche di Putin è invece il film; ed è di quello dunque che qui ci piace parlare.  

Girato in bianco e nero, con il passo di pellicola e il taglio di immagine che andava per la maggiore in quell’inizio dei Sessanta, con evidenti rimandi al modo di filmare del Tarkowsky di allora, di cui Konchalowsky fu assistente e sceneggiatore, il regista pare quasi suggerirci come mai, allora, avrebbe potuto essere raccontato quel fatto, se solo su di esso non fosse stato imposto il silenzio e fosse calata il massimo della censura.. 

Siamo nella tarda primavera del 62, la crisi tra USA e URSS è al massimo della sua tensione e in Unione Sovietica gli obiettivi irraggiungibili dell'ultimo piano quinquennale, invece di spalancare davanti al suo orizzonte il sogno del superamento della produzione nord americana, getta semmai lo spettro minaccioso della carestia.  

Del possibile sopraggiungere di quella, dell'aumento dei prezzi, della mancanza di cibo, temono tutti, ma guai a parlarne, che subito si incrocia chi ti contesterà la scarsa fedeltà al paese, al partito e al socialismo. 

Succederà a Lyudmilla, protagonista del film, funzionaria di seconda fila nella legazione locale dell’organizzazione, immediatamente redarguita dall’amante, più alto in grado in quella mediocre burocrazia e lo farà lei stessa con la figlia, giovane operaia, quando quest’ultima non nasconderà il suo fervore e la sua entusiasta partecipazione alle prime proteste nella fabbrica.  

Le parole pronunciate da Kruscev al Ventesimo Congresso non hanno ancora spento la loro prepotente eco, creando un solco tra chi rimprovera al nuovo segretario di avere infangato il nome dell'eroe della guerra e della rivoluzione e chi invece nel nuovo corso sogna la possibilità di far tornare a valere la propria voce, senza più lo spauracchio dell'arresto, della prigionia e della Siberia.  

A quest'ultima speranza dovevano senz'altro essere aggrappati gli operai di quella città quando scelsero di scendere in sciopero e marciare in corteo verso la sede di un partito che, a loro parere, senz'altro avrebbe dovuto avere il dovere di ascoltarne le ragioni. 

Ad aspettarli però, nonostante le bandiere rosse e le immagini di Lenin che brandiscono, non troveranno orecchie attente e disponibili, ma i mirini dei cecchini che ne ammazzeranno quanti più possibile.  

Sarà una strage. Il sangue sull'asfalto sarà talmente tanto che non basterà l'acqua degli idranti a lavarlo. Sarà imposto il coprifuoco e il silenzio.  

Dopotutto in quel ’62 era ancora uno scandalo in Russia, nonostante Budapest sei anni prima e da lì a poco Praga, sparare addosso agli operai.  

Anni dopo non sarà manco più così e nei sedicenti paesi socialisti lo si userà spesso come monito. In Cina, per dire, una ventina d'anni più tardi Tien an men sarà quasi uno spaventoso spot trasmesso in mondovisione dal regime.  

È un pugno nello stomaco il film di Konchalowsky. Un pugno sferrato a chi, come me, anche se mai filosovietico, ha militato tutta una vita in quella parte. E poco consola che a quella storia e a quella fazione aderissero pure le vittime. La tragedia non cambia e la vergogna non sparisce.  

Konchalowsky, oltre al suo maestro Tarkowsky, qua e là cita tutta la grande cinematografia sovietica; pure La madre di Pudovkin e La corazzata di Einsestein. Se però il grande regista russo inventore del montaggio metteva sempre la macchina da presa tra gli insorti, qui Konchalowsky la tiene forse troppo a ridosso dei gerarchi e dei burocrati del partito.  

Ma chissà non sia giusto così. 

In quel 62 gli entusiasmi della rivoluzione erano già andati svaniti e quand'anche qualcuno provasse ancora a negarlo, le ragioni dell’ottobre erano già state tradite. 

 

 

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