IL MATRICIDIO
"Potevano essere le otto e tre quarti quando sonò la campana del Maggior Consiglio, ed io mi avviai verso la scala dei Giganti. Per quanto avessero fretta i signori nobili di commettere il gran matricidio, le delizie del letto non consentirono che si anticipasse più di un quarto d'ora sul solito orario. I comparsi furono cinquecentotrentasette, numero illegale, giacché per inviolabile statuto ogni deliberazione che non si fosse discussa in un'adunanza di almeno seicento membri si considerava illegittima e nulla"(1) Inizia così la giornata del 12 maggio 1797, nel ricordo di Carlo Altoviti, protagonista delle Confessioni di un italiano, il romanzo di Ippolito Nievo, che ripropone una commossa meditazione sulla decadenza e sulla caduta della Repubblica aristocratica di Venezia. Nelle parole dell'Altoviti, fautore delle nuove idee, ma preda di mestizia e rimorso nel vedere "le grandi cose adombrarsi nel passato e scomparire per sempre"(2) è posto con sensibilità storica e politica prima che letteraria (3) il tema della legalità dell'atto finale, che significò insieme l'irreversibile caduta del vecchio governo e l'inizio della Municipalità provvisoria.
Il 12 maggio è votata infatti al Maggior Consiglio la mozione con la quale è approvata l'abdicazione degli organi dello stato: il mutamento costituzionale voluto da Bonaparte viene così attuato; i poteri passano, come recita il testo della mozione, "al sistema del provvisorio rappresentativo governo". Su un piano più propriamente storico, un saggio, edito negli anni in cui appare il romanzo del Nievo denuncia chiaramente come tale l'illegalità della procedura usata. E' il saggio di G. Dandolo (4) sulla caduta della Repubblica di Venezia, che alcuni elementi, solo apparentemente marginali, uniscono al testo del Nievo. Se infatti il riferimento a fonti molto vicine, i nobili Marin (5), può essere visto solo come una curiosa coincidenza, c'è invece, in entrambi i testi, la pregnante presenza di una Venezia "politica", identificata nella vecchia forma oligarchica; nel Nievo, entusiasta protagonista del nostro Risorgimento, l'ormai decaduta Repubblica pare vissuta con un affetto che la risparmia da un troppo duro giudizio; nel Dandolo, l'antica forma oligarchica è scelta, senza incertezze, come precisa opzione politica. Nel testo del Dandolo siamo all'interno di una interpretazione delle vicende che portarono alla Municipalità che appare ora, quantomeno, priva di sfumature: si mette in rilievo una totale fedeltà delle città della terraferma a Venezia, si accetta senza riserve la subdola responsabilità francese nella vicenda – i gruppi "faziosi" sono comprati dai francesi "con l'oro e con le traditrici speranze" (6) si esaltano la sapienza e la bontà degli antichi governanti e, in particolare, la loro capacitá di garantirsi l'obbedienza spontanea della popolazione. La contrapposizione tra la repubblica oligarchica veneta e i nuovi regimi, le "politiche consociazioni" che sono costrette ad ostentare la loro "forza materiale"(7), fa parte di un recupero dei valori della tradizione: valori che funzionano nella costruzione di un’identità nazionale (siamo ormai in pieno Risorgimento) e che sono in grado di rimandare ad una forma di organizzazione dello stato la cui legittimità non può essere messa in dubbio, contrariamente, appunto, a quanto si può riconoscere alla Municipalità Provvisoria (8).
Così, tutti i particolari di questa giornata diventano cruciali: dall'andamento della riunione del Maggior Consiglio, al numero dei votanti ossessivamente ripetuto (9), all'atteggiamento degli Schiavoni, i soldati dalmati mercenari della Repubblica, ingaggiati con cura nei domini d'oltremare (10) il cui ruolo sembra assumere una notevole importanza nell'andamento degli avvenimenti; ed è altrettanto cruciale definire la reale portata dei disordini che turbarono quel giorno la città e stabilire a chi si debba imputare – agli Schiavoni? al "popolaccio"? alla complice assenza dei tutori dell'ordine pubblico? – la responsabilità dei saccheggi di case e botteghe, compiuti al grido di: "evviva S. Marco, siamo traditi, si scannino gli Giacobini "(11).
Sono tutti elementi che riconducono al tema del passaggio dal vecchio al nuovo regime di governo, al tema della legalità di questo passaggio e, in ultima istanza, al problema della legittimità dei nuovi governi democratici. Due tra le prime polemiche ricostruzioni dei fatti sembrano contrapporsi sostanzialmente su questo punto: da un lato c'è la serrata difesa della legalità di tutte le operazioni che portarono alla Municipalità (12) , dall'altro lato c'è invece l'allusione continua alla confusione della prassi seguita e ad antiche regole non rispettate: il tutto, comunque, all'interno di un giudizio che non riconosce nessuna validità al nuovo passaggio politico, definito, non a caso, "la sedicente Municipalità Provvisoria" (13).
Se ripercorriamo gli avvenimenti nel diario del giacobino Spada, molto attivo nel periodo della Municipalità, non c'è dubbio che ogni passaggio ed ogni iniziativa rispettano le leggi vigenti: ma lo Spada deve difendere, innanzitutto, se stesso, anche se si tratta di una difesa solo morale, visto che, come egli stesso afferma, la pace di Campoformio prevede non possa essere "perseguitato né inquisito" nessuno a causa delle sue opinioni politiche o delle azioni "civili, militari o commerciali" (14) compiute nel corso della guerra. Egli rivendica fino in fondo il ruolo avuto come mediatore tra ambasciata francese ed autorità venete, ma ci tiene a dimostrare che ogni sua azione ed ogni sua iniziativa, in quei giorni che precedettero la caduta di Venezia, si muovevano all'interno di una totale legalità. Quando, all'uscita dal carcere, l'avogador Battaglia gli propone di far parte della pubblica commissione che tratterà con Bonaparte (ma la cosa non avrà poi alcun seguito), egli puntualizza che è disponibile solo se "munito di legale facoltà"(l5).
Lo Spada esce dai Piombi il 4 maggio; il senso del capovolgimento avvenuto è condensato nella breve frase che gli rivolge il suo carceriere: "Coraggio, Ella va a casa: sono posti in prigione invece gli Inquisitori di Stato". Di fatto, la sua liberazione, che avviene poche ore dopo la riunione del Maggior Consiglio, rientra nell'attuazione di una delle richieste di Bonaparte: la liberazione dei detenuti per opinioni politiche.
La situazione è comunque ormai precipitata: la democratizzazione delle città della terraferma è un fatto compiuto, l'esercito francese è ai margini della laguna e la situazione interna della città è irrimediabilmente compromessa. Su questo punto i due diari offrono, loro malgrado, una totale convergenza di vedute: per ambedue é particolarmente significativa la fuga, avvenuta il 30 aprile, del Pesaro (17) . L'autore dell'Esatto diario si limita ad osservare l'inutilità, delle riunioni seguenti, si tratti di Consulta o di Maggior Consiglio, che hanno il carattere delle "convulsioni mortali del languente governo"(18); le osservazioni dello Spada mettono invece in luce come questa fuga, illegale perché – Pesaro se ne è andato senza la "previa licenza" degli Inquisitori o del Consiglio dei Dieci, come doveva fare ogni patrizio, sia in realtà la spia di una situazione non più , controllabile; le leggi di Venezia non hanno più valore, nemmeno per quelli che dovrebbero difenderle e farle rispettare, e questo rende evidente "la necessità di rassegnarsi a qualsiasi legge" che venisse imposta al Senato dal "generale di Francia" (19).
Nelle due riunioni del Maggior Consiglio del 1 e del 4 maggio si accondiscende infatti alle imposizioni di Bonaparte (20) . In queste riunioni vengono decise tre cose fondamentali: si è accettato di trattare sui mutamenti costituzionali, per le materie di costituzione di governo dipendenti dall'autorità del Maggior Consiglio; si sono liberati i prigionieri politici: dovevano essere presentati documenti comprovanti il rilascio -dei detenuti per motivi politici, arrestati dopo l'ingresso dell'armata francese in Italia; sono arrestati i tre Inquisitori di Stato ed il comandante del Castello del Lido, ritenuti responsabili dell'episodio Laugier: questo arresto, su cui non sono state possibili mediazioni, evidenzia, da solo, la profondità e la radicalità dei mutamenti già in atto (21).
L'intervento dello Spada si inserisce quindi in questo quadro politico sostanzialmente mutato, ma che cerca di mantenere intatte le procedure di sempre. Il suo racconto ripercorre, momento per momento, gli avvenimenti che l'hanno visto, in parte, protagonista. Egli è contattato da Lorio, su incarico del Morosini, deputato della salute pubblica, responsabile della custodia interna della città, discusso capo degli Schiavoni(22); viene scelto come la "persona opportuna a conciliare i mezzi" per arrivare in maniera "concorde" alla democratizzazione del governo; ma è Tommaso Gallini, futuro membro della Municipalità, personaggio la cui autorevolezza è da ogni parte riconosciuta, che lo invita ad agire. La sua prima preoccupazione consiste nell'assicurarsi l'assenso del Doge e della Consulta; poi, è ormai tarda notte, esegue la commissione che gli è stata affidata e si avvia quindi all'ambasciata francese. E' la notte dell'8 maggio e da questo momento i contatti tra ambasciata e dogado si fanno più frequenti: alla figura di Spada, mediatore ufficiale, come sarà poi riconosciuto dall'ultimo proclama del Doge e della Signoria, si aggiunge T. Piero Zorzi "speziale da dolci"(23).
All'ambasciata francese, Lallement, chargé d'áffaires à Venise, è assente; lo Spada si incontra così con Villetard, "uomo di spirito molto torbido"(24) , secondo il giudizio dell'ex-doge Manin, il cui ruolo, indubbiamente, va oltre l'ufficialità della sua posizione (25). I contatti, contrariamente alla prassi usueta, sono solo verbali; Villetard si rifiuta di rilasciare dichiarazioni scritte, ma questa rottura della prassi -tutto avviene -"sotto forma di privato dialogo" (26) – non turba la sostanziale correttezza degli incontri. Da parte francese, insiste Spada, vi furono consigli) non ordini; soprattutto, Villetard insistette perché ogni punto discusso trovasse conferma nelle decisioni del Maggior Consiglio, "onde tutto procedesse con legalità e non potesse mai essere imputato di arbitrio e di violenza"(27).
Le riunioni si susseguono i giorni 8, 9, 10 maggio e si configurano come una vera e propria trattativa. Le richieste "indicazioni", da parte francese, sono bilanciate da altrettante "assicurazioni". Tra queste, colpisce l'impegno di continuare a tutelare "i poveri nobili", le "beneficate patrizie", tutti i "provigionati dell'attuale governo"(28). Sono elementi di garanzia di una continuità – ricordiamo che era ancora in ballo la candidatura del doge L. Manin come presidente della futura Municipalità (29) – capaci di far emergere la tematica dell'assistenza, che tanta parte avrà nei futuri orientamenti politici del nuovo governo. La sussistenza dei patrizi poveri, assieme alla continuità della elargizione degli assegnamenti vitalizi concessi dalla Repubblica, verranno garantiti anche dall'accordo siglato a Milano il 16 maggio (30). Certamente, c'è un forte elemento di mediazione sul controverso problema dei diritti del patriziato: esso passa attraverso un'istanza di tipo assistenzialista, che non può che riguardare i nobili, soggetti in un certo modo privilegiati nel contesto delle iniziative di politica dell'assistenza delle Repubbliche Venete. Nonostante la sua lunga storia, l'assistenza a Venezia appare infatti, rispetto ad un contesto europeo, carente e sostanzialmente inesistente nel corso del sec. XVIII. Ma probabilmente l'emergere di questa istanza, apparentemente irrilevante rispetto allo spessore politico della posta in gioco, è già in qualche modo legato alla sostanziale preoccupazione, condivisa dai francesi, dal dogado e dai futuri municipalisti, di tutelare l'ordine pubblico, di disinnescare le tensioni che, a diversi livelli, attraversano la città.
La tensione, d'altra parte, viene invece volutamente provocata dal Villetard su un altro piano. La minaccia reale che egli agita è la presenza dell'esercito francese e la possibilità di farlo intervenire per risolvere la questione della democratizzazione del governo senza rinunciare all'ultimo punto su cui Venezia oppone resistenza, cioé la soppressione dei diritti della nobiltà. "Il generale provvederà egli stesso" (31) : questa frase è la spada di Damocle sulla testa del Maggior Consiglio, nella definitiva seduta del 12 maggio.
DALL ' ORDINE PUBBLICO ALL ' ASSISTENZA
La vita della Municipalità inizia così, con una abdicazione che, legale o no nella forma, riflette l'impossibilità della Repubblica aristocratica di misurarsi, con una sua forza ed una sua credibilità politica, oltre che militare, con l'esercito di Napoleone. Una Repubblica che vedeva riconosciuto il suo deterioramento persino dai suoi più significativi rappresentanti: la lettera di Pesaro a Gallini, che Spada non certo ingenuamente riporta, è estremamente indicativa (32); una Repubblica che aveva sentito delle voci autorevoli contestare la sua legittimità. Quando a Rocco Sanfermo, "in pieno Consiglio di Stato", poco prima dei tragici avvenimenti veronesi, viene chiesto se riconosce o no il principio di Sovranità, questi risponde, rovesciando l'ottica della domanda: "Jl Principe può esigere sacrifici dai sudditi allorquando è in stato di garantirli."(33).
Questa Repubblica finisce in una giornata ricordata con angoscia nelle lettere dei testimoni (34). I disordini tanto temuti esplodono, apparentemente incontrollabili, in parte incomprensibili. Nonostate i timori dei membri del Maggior Consiglio "gli sbarri" che si sentono in Piazza S. Marco non sono provocati dai fautori della rivoluzione. Sono gruppi di Schiavoni e di Bocchesi (altri soldati dalmati delle Bocche di Cattaro), a cui si unisce il "popolaccio inferocito" (36) che cominciano a percorrere la piazza. E "l’insurrezione", così la chiama lo Spada, prende poi l'andamento antigiacobino che la contraddistingue. E' distrutta innanzitutto la bottega di Zatta, che esponeva proclami del nuovo governo; un "luganegher" del Ponte dei Barcaioli è condotto in "fusta"(37), dopo essere stato costretto a fare i nomi dei giacobini; e ci sono poi i saccheggi delle loro case e delle loro botteghe. Morti fra i giacobini non ve ne sono; sono uccisi invece la sera, dai colpi dei cannoni piazzati a Rialto, alcuni Schiavoni che ancora circolavano, a gruppi. La custodia della città é in quel momento affidata a Bernardino Renier; l'"orrore", questa parola ritorna più volte nelle testimonianze, sta finendo; il giorno seguente la città è tranquilla.
Ma per i Municipalisti questo è un episodio che non è possibile liquidare né con l'individuazione dei responsabili, né con le punizioni dei partecipanti ai disordini. Il problema di garantire l'ordine pubblico nasce, concretamente, con la stessa Municipalità e ne condiziona, da subito, le prime iniziative politiche. Il pervicace rancore nel confronti di Morosini, individuato dai Municipalisti come il vero "autor del saccheggio"(38), che avrà un esito spettacolare nella finta esecuzione del 18 fruttidoro (lunedì 4 settembre), non può coprire i timori che l'assenza del consenso popolare pone.
Sul significato e sulla reale partecipazione popolare ai disordini del 12 maggio, si danno giudizi e valutazioni diverse.
Più tardi un certo tipo di storiografia, incline all'apologia dell'antico governo veneto, non avrà dubbi nel definire "stupendi ribelli", mossi da odio antifrancese ed avversione ai fautori del nuovo regime, coloro che al grido di "viva S. Marco!", si uniscono in piazza a Schiavoni e Bocchesi, terrorizzando la città con scontri e saccheggi (39).
Le fonti contemporanee sono però più caute. Certo l'autore dell'Esatto diatio non ha dubbi sul carattere antifrancese dei moti; non ha dubbi nemmeno sulla consistente partecipazione della popolazione ai disordini: ne accentua anzi l'animo popolare con osservazioni sulle note festose che accompagnarono, a suo avviso, gli episodi di violenza: quasi si trattasse, in fondo, davvero, di una festa popolare. Ma questo giudizio rimane isolato. In altri testimoni, pur legati al vecchio regime, non c'è nessun compiacimento per questa esplosione popolare che accompagna il mutamento di governo. Gaspare Lippomano, ad esempio, coglie di quelle giornate la dimensione di sfacelo, quasi il preludio di un crollo irreversibile. Nel valutare la tensione creatasi in città, già nei giorni precedenti il 12, è ben attento a tutte le variabili che la determinarono: accenna così, in una ricostruzione minuta della scena cittadina, alle voci di insurrezione filofrancese (e a questo si pensò nell'ultima seduta del Maggior Consiglio sentendo i primi spari), allo scontento degli Schiavoni che univano l'ostilità antifrancese alla insoddisfazione di non essere stati ancora pagati dal governo, alla decisione, che egli disapprova, di mettere, per ogni evenienza, dei cannoni in piazza S. Marco, militarizzando così la città. L'atteggiamento del popolo rientra così in un quadro variamente articolato e gioca qui la diffidenza del consumato uomo di governo sulla possibilità di valutare e magari usare politicamente la fedeltà delle popolazioni nei confronti di Venezia (40).
Da parte di altri aristocratici c'è però una maggior preoccupazione per quello che viene definito "furor di popolo". Così insieme ad un giudizio che nega ogni valore patriottico all'insurrezione, rispunta, in osservatori con dichiarate simpatie francesi, l'immagine di un "popolaccio inferocito" il quale, più che essere trasportato da falso patriottismo vuole in realtà' rubare (41). Ed ancora, secondo una tesi che sarà poi gestita con convinzione anche dai municipalistí, si fa strada la teoria del complotto: i disordini risultano così fomentati e manipolati dagli avversari politici del nuovo regime, primo fra tutti il diabolico Morosini.
Proprio nel '97 l'abate Barruel pubblica a Londra le sue Mémoires pour servir à l'histoire du jacobinisme, dove sostiene che la rivoluzione francese è il frutto di un complotto, l'abile operazione di una setta che aveva operato a questo scopo per almeno 20 anni: niente era dovuto al caso, tutto era stato accuratamente preparato e pianificato. Questa tesi, che ha origine da posizioni violentemente antirivoluzionarie, troverà anche in seguito largo credito tra gli accaniti oppositori della Rivoluzione. Si assiste quindi ad un singolare capovolgimento di posizioni. In questo caso sono i simpatizzanti della rivoluzione che riducono ribellioni, scontenti e movimenti di piazza entro la rigida griglia della congiura.
Da parte dei Municipalisti però, l'accettazione, a volte palesemente strumentale, di questa teoria del complotto, non li esime da una più approfondita riflessione sul fenomeno. La diffidenza, così violentemente esplosa, nei confronti della nascente Municipalità è un problema politico che va affrontato immediatamente.
Innanzi tutto, con rassicurazioni inerenti alla natura stessa del processo rivoluzionario: è passato ormai qualche giorno e già sono in via di formazione i diversi comitati. Il 17 maggio esce, sulla scia del "Monitore" di Parigi, il primo numero de "Il Monitore Veneto". Proprio qui, nel numero seguente, in un lungo fondo, si parla delle rivoluzioni, che sono "necessari cambiamenti e regolazioni di governo" e si chiamano "Rivoluzioni perché succedono con un ritorno, ossia una vicenda inevitabile in tutte le umane istituzioni".
La naturalità di questo fenomeno, il suo provocare "un ritorno dei diritti, della giustizia, della felicità" e "il rivolgimento da un governo pessimo in un governo ottimo" (42), come sarà ribadito più avanti su un altro importante giornale con molta più convinzione, e per ora invocata solamente come cauzione contro i timori di sovversione di "religione… giustizia… proprietà … onore e pubblica fede"(43).
Anche l'immagine della Francia è per ora tenuta a distanza: si ricorda che non è detto che tutte le nazioni debbano soffrire delle convulsioni di cui essa ha sofferto: l'isolamento, causa dei suoi mali, è stato superato, e Venezia, in questa sua scelta, non è sola.
C'è dunque inizialmente, da parte dei membri della Municipalità, una cautela che tende a rassicurare, ad avviare un dialogo con le diverse, e per ora incontrollabili, componenti della città. Ma, da subito, inizia anche l'attività più specificamente politica dei Municipalisti, attraverso lo strumento che la caratterizzerà in quei brevi mesi: il decreto. Il Comitato di salute pubblica, di cui fanno parte personaggi che acquisteranno importanza e rilievo (44), emette i primi decreti il 17 maggio. Tra le prime decisioni dei membri del Comitato vi sono Giuliani, Dandolo, Tommaso Gallini, la cui capacità di mediazione politica emergerà più di una volta nei dibattiti – vi è l'emanazione di atti che provocano un abbassamento dei prezzi. I prezzi di alcuni generi alimentari vengono direttamente ribassati, per altri viveri si procede invece all'abolizione dei dazi (45). Proprio tra i primi decreti, un altro é, a nostro avviso, particolarmente interessante: si stabilisce, infatti, che "Leonardo, Da Riva mentecatto debba essere ricevuto a S. Servolo con � 1: 10 al giorno"(46). In questi primi provvedimenti è possibile individuare il nucleo di un intervento che andrà assumendo, via via, una dimensione organica, fino a divenire un vero e proprio progetto in grado di dare soluzione a problemi per ora solo allusi: si tratta del piano di costruzione di una Casa Patria, presentato da Giuliani il 15 fruttidoro (1 settembre), progetto che troverà subito unanimi consensi e che si pone come momento di sintesi e di rilancio di un complesso intervento sul sociale che inizia, appunto, in questi giorni. Per ora, si tratta di interventi appena abbozzati; è pero significativo, e costituisce un importante momento di novità, che accanto ai provvedimenti sui prezzi, un evidente espediente per ottenere il consenso, se non l'appoggio, della popolazione, vi sia quest'intervento che riguarda un pazzo, di cui si ordina il ricovero in una struttura ospedaliera e per il cui mantenimento ci si assume la spesa. Questa decisione dei Municipalisti non è isolata e non riguarda solo S. Servolo, ma anche l'isola di S. Spirito, dove da tempo venivano ospitati pazzi e detenuti (47). Inoltre, una decisione della Municipalità che riguarda San Servolo, con la quale si ordina che venga adibita, per i pazzi, una stanza apposita, avvicina ancor più queste iniziative al progetto Giuliani.
Tuttavia, prima di arrivare all'elaborazione complessa ed articolata del progetto della Casa Patria, gli interventi dei Municipalisti per far fronte alla difficile situazione veneziana, che vede aggravarsi di giorno in giorno il problema della povertà, sono diversi e numerosi. Spesso sono proposte che non riescono a diventare operative, spesso si nota la mancanza palese di una prospettiva strategica – trovano infatti risonanza e credito le proposte più contraddittorie – ma questo non occulta in nessun modo l'individuazione lucida del problema e la volontà di arrivare a soluzioni convincenti. La sfiducia che i primi provvedimenti suscitano viene registrata con un certo stupore; le voci raccolte tra "la ex-plebe", dove si dice che i prezzi abbassati sono "zucchero sulle fragole" e che in poco tempo saliranno del doppio, se da un lato indicano ignoranza e "stupidità affatto inesplicabile"(48) del popolo, elementi negativi che possono rischiare di vanificare "le riforme del governo" e di distorcerne il significato, d'altro lato non fanno che stimolare la varietà di proposte e di iniziative. Su questo terreno si impegna da subito, siamo alla fine di maggio, Vincenzo Dandolo. La consapevolezza delle difficoltà economiche della situazione veneziana – più avanti sarà sua una esauriente relazione sullo stato economico della città (49) – e la constatazione della grande massa dei cittadini indigenti, inducono ad una prima analisi (50); si nota che molti poveri sono tali a causa della "passata tirannide", ma si riconosce che molti cittadini sono stati impoveriti dal cambiamento rapido del sistema politico, che non può "non portar seco l'arenamento del commercio, il ristagno delle arti, la sospensione del foro"(51). Dandolo si fa portavoce di due proposte: presenta innanzitutto il progetto per l'erezione di un Monte di Pietà (52); poi, come misura più immediata per affrontare la situazione, propone di estrarre dalla Pubblica Zecca 14 mila ducati da distribuirsi ai cittadini indigenti. La proposta prende la forma di un decreto (31 maggio 1797), che stabilisce puntualmente le modalità della distribuzione (53). La discussione su quale tipo di assistenza dare al poveri e, in giugno, uno dei temi centrali del dibattito tra i Municipalisti. Se la speranza che la prosperità nazionale risorga attraverso la costruzione di nuove fabbriche e manifatture é ancora al centro di discorsi inaugurali (54), la realtà della situazione preme in maniera inequivocabile anche attraverso la "folla di petizioni" (55) dei cittadini indigenti. Tra i Municipalisti emergono contrasti e valutazioni diverse; la realizzazione del decreto già approvato trova ostacoli di tipo economico: e qui le posizioni si differenziano anche in modo notevole. Qualcuno, lo Spada ad esempio, pare ricondurre la proposta ad una iniziativa umanitaria di dubbio effetto: "la carità è bella e buona"(56), egli afferma, ma lo sbilancio dello stato è di 44 milioni.
Altri, e il Dandolo é tra i più decisi, ribadiscono invece che "il soccorso urgente de' poveri interessa la pubblica tranquillità'"(57). Anche Giuliani interviene su questo punto; egli afferma che il malcontento del popolo può essere un'arma in mano agli aristocratici e soprattutto per questo si deve, urgentemente, deliberare. Qualcuno insiste con una non soluzione – "se la zecca non può somministrare i soldi non si paghi"(58) ma è la soluzione prospettata, che vede alleati Dandolo e Giuliani, di "levare la sospensione ai pro di zecca in quanto alle fraterne"(59) che suscita le maggiori perplessità. Pochi giorni più avanti, ed è una misura legata a questo problema, si cominciano a minacciare le confische dei beni dei ricchi veneziani emigrati(60).
Nel frattempo, da altre parti, sono attuate delle iniziative. La Società patriottica fa intervenire alle sue riunioni 10 capi di famiglia, poveri, tratti a sorte e distribuisce loro denaro (61). Il Comitato sussistenze e di pubblici soccorsi organizza una raccolta di denaro di "volontari contribuenti"(62), che verrà poi distribuito, e così il decreto del 31 maggio potrà essere applicato; ancora, un membro del Comitato d'istruzione propone di concedere la dote, ogni mese, alla sposa più virtuosa e povera della città. E' Rota, il traduttore di Rousseau, che, animato da fervente demagogia populista, fa questa proposta, che trova anch'essa la sua forma compiuta in un decreto (63). Le accuse di demagogia, d'altronde, venivano da più parti, e riguardavano soprattutto l'abbassamento dei prezzi. Si coglieva e si criticava la volontà di conquistarsi con queste manovre il favore del popolo minuto, ma non veniva considerato né valutato il senso politico di queste decisioni, già manifestato con una chiarezza priva di ombre da parte di più di un Municipalista.
E' comprensibile forse che questa sia la posizione, non attraversata da alcun dubbio, dell'ex-doge Manin. L'assistenza, doverosamente legata alla constatazione della povertà che di giorno in giorno cresce a Venezia, si riduce per lui alla distribuzione del suo stesso denaro ai patrizi rimasti senza sovvenzione, per liberarsi delle loro "ingiurie e cose forti"(64). E' insieme una specie di obbligo morale e un mezzo per evitare maggiori fastidi e, forse, in qualche modo, una maniera un po' macchinosa di mantenere una continuità con un passato ed un ruolo così traumaticamente scomparsi.
Ma anche la serie di proposte che nei primi mesi della Municipalità affrontano il problema dell'assistenza, sono destinate ad assottigliarsi e ad essere filtrate da una logica più rigorosamente politica. L'unità iniziale che vede i Municipalisti più sensibili a questo tema sostenersi vicendevolmente, comincia ad incrinarsi. Lo spazio per le proposte di Vincenzo Dandolo è destinato a bruciarsi presto: la sua insistenza perchè sia organizzata la distribuzione del denaro raccolto con la sottoscrizione volontaria non suscita, siamo quasi alla fine di luglio, nessun contrasto(65). Ma, solo poco tempo dopo, quando, riprendendo una sua pervicace idea, propone di eliminare, in favore del popolo, le vecchie leggi sui pegni, si scontra con la decisa opposizione di Giuliani (66). E', evidentemente, cambiato qualcosa. Non certo la situazione economica veneziana; è di pochi, giorni prima la richiesta di Zorzi di abbassare ulteriormente i prezzi di alcuni alimenti(67); la stagnazione del commercio e dell'industria non accenna a sbloccarsi e l'invito alle ricche signore di vestirsi di seta, convertendo la moda "in istromento di beneficenza e patriotismo"(68) più che rappresentare una
credibile misura per incrementare la produzione della seta, appare piuttosto una maniera indiretta di sollecitare un consenso femminile.
Sono cambiati invece gli strumenti con i quali la Municipalità, interviene sulla situazione. Minacce di "sedizione", che lo stesso "Monitore" è però costretto a smentire, hanno dato luogo a un decreto, molto contestato, che prevede la pena di morte per reati di carattere ideologico e politico contro l'ordine pubblico e la sicurezza dello stato (69). Poco dopo, a seguito di una accesa discussione sul decreto, Gíuliani annuncia che la polizia generale della città è ormai organizzata: "la pubblica tranquillità viene in tal modo ad essere assicurata"(70). Lo spostamento dell'ottica pare essere, da parte sua, consapevole, e la sua opposizione alla proposta Dandolo del 5 agosto sembra molto conseguente.
A questo punto l'intervento sull'ordine pubblico non può che farsi più articolato, più preciso: deve scegliere una strategia abbandonando le iniziative senza futuro, la carità estemporanea, i "benefizi" che non sono tali. La contrapposizione con Dandolo è inevitabile: anche se non gli fa esplicitamente l'accusa di demagogia, Giuliani lo rimprovera però di illudere il popolo e attacca, come oneroso per lo stato e poco efficace per risolvere il problema della povertà, il calmiere dei prezzi(71) . Non si tratta, come l'intervento di Gallini, in un tentativo di ricomporre i contrasti, vuol far credere, di una opposizione tra chi – Dandolo – vuole "sollevare il povero"(72) e chi Giuliani – l'erario: si scontrano in realtà due diversi modi di affrontare un problema politico.
Per ambedue i Municipalisti l'ordine pubblico è importante; per ambedue i problemi di ordine pubblico sono legati alla miseria e ai bisogni materiali della popolazione. Ma mentre Dandolo interviene solo su questo aspetto del problema, Giuliani si occupa, contemporaneamente, della dimensione sicuritaria del controllo sociale; è lui che presenta l'organizzazione della polizia; è, in quel periodo, preside di polizia; è inoltre uno dei più accaniti sostenitori della necessità della Carta di sicurezza, una sorta di carta d'identità: si appoggia all'esempio della Francia, cita l'autorità del generale Balland, ed è in questo caso sordo alle titubanze di Gallini. La sua fermezza gli viene dal fatto di conoscere "la scienza della rivoluzione"(73): dal riconoscere che gli strumenti del controllo sociale vanno affinati ed usati, tutti, senza eccessivi timori.
E' in questo contesto che il suo piano per la Casa Patria viene elaborato. Egli ne accenna, per la prima volta, in un intervento che lo oppone, nuovamente, a Dandolo: i posti di lavoro, "mezzi di sussistenza" necessari agli indigenti, saranno offerti dalla istituzione della Casa Patria (74).
Il progetto è presentato per la prima volta nella sessione pubblica del 10 fruttidoro (27 agosto) ed il consenso che suscita è, da subito, pressoché unanime(75). La credibilità di Giuliani, in quell'epoca è senza dubbio in ascesa: i sospetti che, di lì a un mese, lo coinvolgeranno, sono ancora, evidentemente, lontani(76). In ogni caso, il progetto assistenziale del 1797 – già vissuto dal suo estensore come momento inaugurale ed insieme come luogo strategico del nuovo assetto politico – verrà ricordato anche dalla storiografia successiva (77): diventerà, nella memoria dei posteri, anticipazione aurorale di un futuro più giusto e più radioso; anticipazione viziata, forse, da una "nuova rettorica democratica"(78): capace tuttavia di raccogliere l'eredità, del passato – un filo tenue ma significativo – e di prefigurare la realizzazione di un avvenire non lontano.
Il testo di Giuliani, che abbiamo riportato per intero in appendice, è animato, oltre che da una forte tensione ideologica e programmatica, anche da una grande abilità mediatoria: la condanna della passata oligarchia, strutturalmente responsabile della "mendicità oziosa" – "gl'indigenti neghittosi sono i satelliti della tirannia" – si accompagna così al riconoscimento che già nell'antico regime la Casa Patria "era il voto di alcuni onesti Cittadini". Questo riferimento ad una proposta, formulata nel 1753, di istituire "un albergo universale dei mendicanti(79), non é certo l'unico accorgimento tattico del sagace tribuno veneziano: altrove si rassicurano i cittadini contro i pericoli dell' "anarchia" e del salto nel buio; a conclusione del "rapporto" – ultima geniale pennellata – viene ostentata la certezza che il "Cittadino Patriarca", con la sua "spirituale autorità" e con la sua "influenza", "si presterà ben volentieri" ad appoggiare tutta l'iniziativa; non va infine dimenticata la mediazione più sorprendente e paradossale introdotta quasi di soppiatto negli ultimi due articoli del decreto annesso al rapporto: Lodovico Manin dovrà occupare un posto di rilievo nel nuovo ente pubblico, sia nella fase della sua "formazione", sia successivamente, dopo la sua definitiva erezione (80).
Una vocazione alla centralità, nel rapporto Giuliani – ben lungi dal rappresentare solo una scelta interpretativa di chi commenta i dettagli della proposta, scoprendone, in qualche modo, il significato nascosto – è inscritta invece nella struttura stessa delsignificante; appartiene, se così si può dire, alla superficie visibile del testo, più che ai suoi retroscena inconfessati; centralità, dunque: cioè posizione intermedia tra le misure tattiche, parziali e provvisorie, e l'orizzonte strategico prospettato in un futuro non lontano.
C'è attenzione e consapevolezza. Sembrano chiari i nessi tra l' "immediato soccorso", tra l'operazione attenta al "dettaglio" e la sua "uniformità" al disegno generale; ed ancora: centralità tra la "perfidia" dei "tiranni", che hanno utilizzato la miseria del popolo "per tenerlo nei ferri", e l' "anarchia" cieca di chi distrugge, senza prima "rimpiazzare" ciò che è stato distrutto; centralità, infine, tra le usurpazioni" di un oscuro passato e le promesse di un luminoso avvenire.Il testo di Giuliani pare individuare un ponte tra la tattica e la strategia, una posizione mediana tra la reazione e l'anarchia e, per ultimo, il profilo positivo di un presente, che spezza le catene del passato per annunciare un futuro di libertà e di sicurezza.
Un futuro che il voluto ottimismo di Giuliani proiettava all'interno degli sviluppi della politica municipale e che apparterrà invece, come sappiamo, a governi successivi e di diversa natura; il progetto di un'unica realtà istituzionale, ad amministrazione centralizzata – che dia lavoro a chi non ne trova, che provveda alla correzione dei "malviventi", che tuteli gli "orfani" e gli "esposti", che accolga e curi "gl'infermi di ogni genere di malattia" – trovò un seguito immediato subito dopo la caduta della Municipalità Provvisoria, con il primo governo austriaco, senza che venisse individuato, in ogni caso, un terreno pratico di realizzazione. Questa continuità progettuale ci è rivelata da un manoscritto anonimo – Memorie per l'erezione di una Casa di Correzione e sopra gli Ospitali di Venezia. Tratte da autentici documenti l'Anno 1798 (81) – di nessun peso rispetto alle decisioni concrete, interessante però sotto il profilo della sensibilità che rivela. Il testo si apre con un prospetto comparativo – Brevi osservazioni tratte dalle Notizie di Esteri Alberghi – che fornisce dei dati su istituzioni assistenziali di altre città, italiane e straniere (Londra, Amsterdam, Genova, Torino, Napoli, Milano, Bergamo), considerate sotto il duplice profilo della "Disciplina" che le governa e delle "Manifature" prodotte dal lavoro degli assistiti.
Il disciplinamento e la messa al lavoro sono i due aspetti, tra loro interconnessi, che maggiormente risaltano in queste Memorie: due aspetti largamente presenti nel rapporto Giuliani, che però insiste molto anche sul problema – eluso dal manoscritto del 1798 – del ricovero e della cura degli "infermi di ogni genere di malattia". Solo in età napoleonica, sotto il Regno d'Italia, il progetto Giuliani sembra trovare una sua concreta realizzazione pratica: i due momenti che nel 1797 venivano considerati come ingranaggi di un unico dispositivo – il disciplinamento e la messa al lavoro, ed insieme l'assistenza medica agli infermi – vengono disgiunti, trovando una risoluzione in epoche diverse ed in realtà istituzionali nettamente distinte; la Congregazione di carità, istituita per decreto nel 1807, realizzerà la centralizzazione amministrativa degli ospedali e dei "luoghi pii", mentre la Casa d'industria e di lavoro , istituita per decreto nel 1811, aprirà i suoi battenti l'anno dopo, proclamando il bando della mendicità "in tutta l'estensione del Dipartimento dell'Adriatico" (art. 1). Il secondo governo austriaco, un governo burocratico-amministrativo, sarà l'erede di questa politica dell'assistenza, realizzata sotto il Regno d'Italia e formulata per la prima volta, in maniera compiuta, come capitolo di un programma democratico! Sempre strane le vicende e gli sviluppi di queste micropolitiche: nate come cavallo di battaglia di un'ideologia democratica, in aperta rottura con le pratiche di carità dell'antico regime ("i soli tiranni – afferma infatti Giuliani – annettevano al nome di soccorso il titolo di carità"), vengono poi sussunte e integrate da governi di carattere autoritario, senza vistose soluzioni di continuità, senza innovazioni o ristrutturazioni significative!
La vicenda del manicomio, in questo senso, sarà esemplare; in molte situazioni, ad esempio in Francia, nasce come figlio della rivoluzione democratica, per poi svilupparsi e perfezionare le sue strutture durante l'età" della restaurazione: è il percorso che va da Pinel ad Esquirol; in dimensioni più ridotte, è il percorso che, per l'ospedale veneziano di San Servolo, va dal progetto Giuliani, attraverso il Regno d'Italia, fino al secondo governo austriaco!
Il rapporto del 1797 prevede, in effetti, una megaistituzione, segmentata, al suo interno dai diversi compiti a cui essa doveva assolvere: così, al "dipartimento" del lavoro, a quello della "correzione", a quello destinato agli orfani ed agli esposti, dovrà affiancarsi un dipartimento che accolga diverse categorie di malati, tra cui i "pazzi". La logica non è quella, arcaica, di una commistione indifferenziata delle differenti malattie, ma piuttosto quella che presuppone una loro differenziazione all'interno di uno spazio omogeneo.
L'omogeneità di questo spazio è implicitamente definita dalla sua globale appartenenza ad una istanza terapeutica. Anche qui, la nostra interpretazione del significato cerca di attenersi rigorosamente alla struttura del significante, al sistema formato dalle proposizioni che lo compongono: ci si propone di far lavorare il disoccupato, l'ex-mendicante, di correggere il malvivente, di assistere e tutelare l'orfano, o l'esposto, ed infine di guarire l'ammalato. Tra gli infermi, troviamo le partorienti e gli "infanti", a cui occorre inoculare il vaiuolo: due categorie di soggetti non malati, ma che potrebbero diventarlo senza un’assistenza medica adeguata, senza un intervento di carattere preventivo. L'ottica preventiva, anche se non si parla, nel rapporto, di medici e di guarigione, inserisce direttamente in questo testo l'istanza terapeutica: l’istanza di un sapere che non solo guarisce, ma previene le malattie, tutelando la salute ed il benessere fisico dei cittadini. Il benessere morale sarà garantito dalla disciplina, dal lavoro, dalla "correzione"; quello fisico dalla medicina e dalla riorganizzazione dello spazio ospedaliero. L'unità delle due istanze – le physique et le moral – codificatedal pensiero dell'illuminismo, sembra quasi promettere, in questo progetto, una sorta di articolazione e di supporto istituzionale omogeneo.
IL "CITTADINO" INTERNATO: NUOVI LINGUAGGI E NUOVI POTERI
Anche il ristretto microcosmo dell'ospedale veneziano di San Servolo, da quasi un secolo luogo di ricovero dei soldati feriti, di ospitalità per i mozzi, di custodia e cura per pazzi benestanti, registra il brusco salto che l'avvento della Municipalità Provvisoria, nel maggio del 1797, impone alle vecchie istituzioni della Serenissima (82).
La sensazione del mutamento è data, innanzitutto, dal linguaggio dei documenti ufficiali che si adegua immediatamente alle formule ed al lessico delle carte pubbliche. L'intestazione Libertà – Eguaglianza è d'obbligo in ogni comunicazione, scritta a penna, in alto, quasi a voler siglare ogni foglio; oppure è stampata con eleganza, ai lati della figura femminile, emblema della libertà, che rappresenta la Municipalità di Venezia, come nel caso dei documenti della Commissione alle ricerche francesi; la frase iniziale, "In nome della sovranità del popolo", la data scritta secondo il nuovo calendario, la parte a stampa, "Anno primo della Libertà d'Italia", sembrano rimandare, davvero, ad un qualche luminoso inizio.
D'altro canto, questa trasformazione del linguaggio, delle intestazioni e degli apparati formali, osservabile nei documenti d'archivio, che può sembrare un fenomeno troppo minuto e di portata trascurabile, trova ampio riscontro in un mutamento più generale che riguarda il mondo della stampa e della pubblicistica: un mondo che, in questa fase, assume sul terreno dell'ideologia e della pratica politica un'importanza ed una centralità innegabili.
La forza della stampa è ben riconosciuta dai membri della Municipalità: "i fogli pubblici e le gazzette sono uno dei mezzi potenti e facili onde il popolo conosca i suoi interessi politici e commerciali", si dice presentando la proposta di far arrivare i giornali dalle varie città d'Italia. La libertà di stampa é ben presto il tema di accesi dibattiti tra Municipalisti, un punto su cui non sono possibili mediazioni, una linea di discriminazione tra veri e falsi democratici. La stampa è importante in tutti i suoi aspetti, e l'attenzione con cui nel "Monitore Veneto", la cui autorevolezza come fonte ufficiale è indiscussa, vengono seguite ed annunciate le varie iniziative editoriali, è assai indicativa. Si tratti di traduzioni di testi francesi ["l'esercito di libri"(83), attraverso i quali, forse, "lo spirito filantropico è comparso in laguna"(84)], o delle traduzioni, annunciate con entusiasmo, di alcune opere di J.J. Rousseau (85), ricordato enfaticamente come il primo che seppe "proclamare colle stampe i diritti sacri dell'uomo"(86); o si tratti di libri, prima proibiti(87) o di opuscoli nei quali si dibattono temi di pubblico interesse(88) o di raccolte di carte pubbliche, o di giornali(89): sempre e comunque questo mezzo, che scuote e istruisce il popolo, è da sostenere. La stampa, in tutte le sue articolazioni, è insostituibile e la sua utilità giustifica la spesa, che la Municipalità si sobbarca, di circa 15.000 ducati (90).
Attraverso la stampa, molto esplicitamente e molto consapevolmente, si fa politica: ed emerge anche la contraddizione tra il piano dell'ideologia, che vede schierati tutti i Municipalisti sull'accettazione convinta del principio delle libertà di stampa, e la gestione, nel concreto, di questa realtà. Il tentativo del Comitato di salute pubblica di esercitare un certo controllo sulle notizie dei giornali è indicativo. Le ritrattazioni imposte sono frequenti e nemmeno il "MonitoreVeneto" ne viene risparmiato (91). Può anche succedere, se ci si rifiuta di ritrattare, di venire arrestati, come accade ad Antonio Caminer, del "Postiglione", la nota e diffusa gazzetta la cui adesione al nuovo governo, per quanto immediata, non è però troppo convinta (92). Così,come i giornali, anche le carte pubbliche sono un terreno direttamente politico.
L'obbligo di usare certe parole canoniche come intestazione, assieme al nuovo calendario e alla nuova nomenclatura, mette in luce anch'esso una scelta politica determinata.
Si tratta di parole che incarnano e materializzano alcune idee-forza, alcuni principi fondamentali dei nuovi governi democratici, usciti dalla crisi del vecchio regime. Che, per Venezia, l'adesione ad un certo linguaggio, comune alla pubblicistica di quel breve periodo, indichi un atteggiamento di soggezione alla Francia, come sostiene, ad esempio, un nostalgico innamorato della particolarità politico-culturale della Serenissima (93), o sia invece il segno di una più matura e consapevole adesione a quello che è stato chiamato "il linguaggio dei principi"(94), certo è che questo fenomeno, nella sua specificità, evidenzia ancor più la sua dimensione di opzione politica quando riguarda gli atti pubblici e i documenti ufficiali.
La denuncia, da parte di un cittadino, ai primi di luglio, del fatto che nei "pubblici sacri inviti", stampati dai parroci mancano le parole "libertà" ed "eguaglianza" e l'invito al comitato di salute pubblica a imporre la pubblicazione di "questi due nomi sacrati"(95) è indicativa, così come la notizia dell'esempio "raro e stimabile" dell'arcivescovo di Genova che si è conformato nelle sue carte pubbliche, disciplinari e liturgiche, alle date ed alla nomenclatura rivoluzionarie (96). Non è casuale, ne priva d'interesse questa attenzione alla Chiesa. L'adesione dei parroci è voluta e cercata dagli organi politici: "i più rispettabili tra quei ministri che sovente sono arbitri dell'opinione del popolo" (97), vengono blanditi senza ritegno e il loro appoggio politico ai democratici viene quasi ostentato. Non si dimentichi che una delle funzioni dei parroci consisteva nel rilascio della "fede di povertà". In una Venezia in cui i problemi della mendicità, della povertà e dell'ordine pubblico ponevano ai pubblici poteri difficoltà di gestione che sembravano insuperabili, il rilascio delle fedi di povertà – che funzionavano come unica attestazione riconosciuta dei livelli di indigenza – costituiva un importante tassello nei meccanismi del controllo sociale (98). E, d'altronde, sui concetti "libertà-uguaglianza-democrazia-sovranità del popolo e simili", "nomi fastosi" (99), gli interventi pressoché ufficiali della Chiesa non mancano.
Su questi temi interviene anche l'abate Scipione Bonifacio. A partire dal commento di un suo testo, c'è per la Municipalità Provvísoria un indiretto riconoscimento, siamo già nell'ottobre del '97, dell'autorevole "Giornale Ecclesiastico di Roma". L'autore commentato interveniva anche sulla "legittimità della Veneta presente Democratizzazione"(100): nella rivista, mentre si nega un interesse direttoper questo come per altri punti dell'opuscolo, si dice però che il fatto che l'autore "comparisca qui più amico della Democrazia che dell'Aristocrazia" poco importa, in quanto il governo aristocratico veneto "era degenerato in dispotismo ipocrita e oltraggioso verso la religione"(101).
Le parole indirizzate alla "futura democrazia" non aprono certamente un dialogo; suonano anzi vagamente minacciose: si invita alla verità e alla giustizia, ma si ricorda che Dio "cambia li governi". La preoccupazione di tutelare la Religione è evidente: "Dio la vendica e toglie il dominio a chi ne abusò". "Tremano dunque tutti quei governi che la perseguitano"(102), conclude, in modo quasi biblico, l'autore dell'articolo. Ambiguo, dunque, questo sostegno della Chiesa! Esso sembra concretizzarsi indubbiamente in alcune situazioni, a volte particolarmente significative: è emblematica, ad esempio l'omelia del Natale '97, del vescovo di Imola, Barnaba Chiaramonti, che sarà eletto papa due anni dopo. Un'omelia di tali accenti che fu commentata come "giacobina" dallo stesso Bonaparte. Tuttavia negli articoli della più significativa rivista ecclesiastica spesso per difendere l'esistenza del nuovo regime democratico si utilizzano, oltre alle bibliche minacce, vecchi utensili teorici, tipici della mentalità d'Ancien regime: nella fattispecie, il riferimento a Dio, alla trascendenza dunque, come principio che regola e legittima il governo degli uomini.
Ma la presenza della rivoluzione, la sua forza di propagazione in quanto evento che non riguarda solo la Francia, ma l'intera umanità, si coagula, forse, in modo ancora più fortemente emblematico, attorno al termine di cittadino, parola chiave e nozione cruciale del nuovo corso politico. Ancora una volta i documenti, nella loro configurazione formale offrono una traccia palese del mutamento avvenuto. Il termine cittadino è d'obbligo nelle comunicazioni che riguardano i dipendenti dell'ospedale, dal priore, ai membri della deputazione che se ne occupa, all'economo; ma, soprattutto, è nel registro di accettazione dei pazzi, dove si allineano sobrie, ma fortemente allusive, le formule dell'internamento, che il mutamento del linguaggio diviene significativo: dal 17 maggio, data del primo internamento del Comitato di salute pubblica, è definito cittadino Leonardo Da Riva "condotto….. per essere custodito e curato della sua infermità"(103). Cittadino, un soggetto che ha dei diritti, equiparato, su questo piano, a colui che lo accompagna, cittadino anch'esso.
Anni prima, l'11 agosto del 1791, proprio intorno alla definizione di questo concetto, Robespierre aveva tenuto, all’'Assemblea costituente, uno dei suoi più accesi discorsi. Si tratta, per il giacobino di riaffermare la concezione del cittadino, così come è formulata nella dichiarazione dei diritti, contro la distinzione, proposta dai suoi avversari politici, in cittadini attivi e passivi (104). Quest'ultima espressione, afferma Robespierre, è in realtà un gioco di parole; cela un inganno, cela la volontà di limitare ai ricchi il diritto di amministrare la cosa pubblica nel momento forse più significativo, quello dell'elaborazione delle leggi. "I ricchi, gli uomini potenti …. hanno preteso che i soli proprietari fossero degni del nome di cittadino": ma questo elude il principio di eguaglianza ed è una palese violazione dei diritti dell'uomo. La contrapposizione tra ricchi e poveri prende, a volte, nel discorso, dei toni enfatici. Ai ricchi, "che hanno dato il nome di interesse generale al loro interesse particolare", Robespierre contrappone il popolo, "nome commovente e sacro": "la gente che non ha niente da perdere! ", secondo un "linguaggio di delirante orgoglio" che cade dall'alto dei "brillanti domini della ricchezza"(105). Il povero, sostiene Robespierre, deve poter essere fiero della sua povertà' e soprattutto, se può accettare come male necessario ed ineliminabile l'ineguaglianza della ricchezza, non può invece accettare che il ricco si riservi la qualità di sovrano, per non lasciare a lui che quella di suddito.
La dignità di cittadino gli spetta di diritto: povero, ma membro comunque di una società politica, di una nazione.
Certamente la situazione veneziana, caratterizzata da provvisorietà, da proposte discusse più che attuate, poco ha a che fare con una situazione come quella francese, in cui la stessa organizzazione dello stato definiva ormai quasi automaticamente diritti e doveri, rendendo concreta, inserita nella storia, la nuova figura del cittadino. Nella situazione veneta la tematica del cittadino è ancora, in qualche modo, sfumata. Non a caso una delle opere più interessanti che affronta questo argomento, il testo di Bocalosi,Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano, uscito a Milano nel 1796, sostiene che il cittadino deve essere l'esito di un processo di formazione che ha il suo perno in un'educazione laica, capace di formare cittadini e non sudditi. Quanto prevalga, nella interiorizzazione di questo concetto, un influsso di Rousseau, piuttosto che di Robespierre, o meglio del dibattito e degli scontri quello che questo concetto aveva solo qualche anno prima provocato nella rovente situazione politica francese, è forse un problema che sarebbe da affrontare a parte; certo è che se i testi di Rousseau erano da tempo diffusissimi – i sequestri lo confermano (106) – e se i membri della Municipalità veneziana fanno spesso, esplicitamente, riferimento a lui, è anche vero che la costituzíone del '93 circolava a Venezia, lo stesso Spada la possedevano(107), e che Bocalosi, quando polemizzava contro il lusso o quando esalta le virtù' repubblicane, sembra riecheggiare, suo malgrado, Robespierre (108).
Nella Venezia del '97 si dibatte sull'importanza dell'educazione e dell'istruzione e la scuola pare essere investita di una certa rilevanza, proprio in relazione alla formazione dei cittadini (109); oppure si ricorda (la voce della Chiesa non accenna a placarsi), che solo il buon cristiano può essere veramente, e non solo in apparenza, l'ottimo cittadino (110). Tuttavia, se nel dibattito si può notare una certa indeterminatezza, in parte anche un'incapacità di ancorarlo a dei temi puntuali e a dei nodi problematici ben definiti, è nel concreto e, questa volta, tempestivo intervento dei Municipalisti che vengono superate vischiosità ed astrattezze.
Non si tratta infatti di un problema di mera definizione linguistica: nel momento in cui per San Servolo, come per altre situazioni, si definiscono cittadini coloro che vengono internati, si dà loro, interamente, una pienezza giuridica del tutto nuova. Due sono gli elementi di novità che hanno il loro perno in questi nuovi soggetti; è emblematico, al proposito, proprio il primo internato della Municipalità Provvisoria: Bonvesin Riva' folle e povero. Il decreto della Municipalità che lo riguarda comprende ambedue questi aspetti: se il riferimento alla povertà sembra proporre, oltre ad un lucido sguardo d'insieme su Venezia, un riecheggiamento del discorso di Robespierre che della nuova figura di cittadino sottolineava proprio questo aspetto, il riconoscere invece ad un mentecatto la qualità di cittadino non può che alludere, anche senza una precisa consapevolezza medica, ad una sua possibile, programmabile guarigione.
La figura del folle sembra quindi perdere alcune connotazioni che lo avevano caratterizzato nell'età dell'antico regime: la radicale alterità, l'assoluta incurabilità, l'irriducibile distanza, sul terreno delle libertà e dei diritti. Ora il folle può guarire: proprio in quanto "cittadino", può ridiventare un soggetto a cui la pienezza dei suoi diritti va riconosciuta.
Certo, questa nuova concezione, suggerita ed allusa dal linguaggio e dall'intervento dei municipalisti, non trova poi riscontro in chiare prese di posizione o in dibattiti specifici su questo tema. Come si è già visto a proposito del progetto Giuliani, il folle non è che una delle tante figure per cui si prevede l'intervento dello Stato e la sua presenza non suscita nessuna particolare riflessione teorica. Tuttavia, è proprio sul terreno della pratica istituzionale che si verificano innovazioni importanti, anche a prescindere da un loro inquadramento teorico. Riconoscere ai "mentecatti" lo statuto di "cittadino"pagare la spesa del loro mantenimento e, infine, come vedremo piú avanti, individuare, in San Servolo, uno spazio specifico adibito al loro trattamento: sono queste le dimensioni concrete della pratica istituzionale relativa alla follia, che anticipano sia le elaborazioni e le ideologie di un ceto politico, sia le formulazioni scientifiche della classe medica attorno alla curabilità dei "pazzi" internati.
Anche in Francia la realtà delle istituzioni anticipa l'elaborazione teorica: prima ancora che emergesse la figura dell'alienista – inaugurata, se così si può dire, dalla pubblicazione del Traité pineliano del 1800 (111) – l'amministratore Tenon scrive nel 1787 il suo progetto di un ospedale per gli alienati (112) , e nel 1797 Charenton viene destinato, con un decreto del ministro dell'interno, all'accoglimento degli insensati di sesso maschile, per i quali è previsto il mantenimento, a spese del Conseil Général des Hospices, fino a guarigione avvenuta(113). Tuttavia, saranno sufficienti quattro anni – e qui la distanza tra Parigi e Venezia appare davvero incalcolabile – per assistere all'effettiva integrazione tra la istanza politico-istituzionale e la teoria medica: nel 1801, il Conseil Général des Hospices, inglobando esplicitamente la lezione pineliana, invia al ministro dell'interno un Rapport [ .. 1 sur 1'établissement d'un hospice destiné à la guérison des aliénés; un anno dopo, in base a un decreto ministeriale, la Salpêtrière accoglie gli alienati di sesso femminile, Charenton, definitivamente, quelli di sesso maschile, sottraendoli così allo spazio non medicalizzato dell'ospedale generale.
A Venezia, questa integrazione tra istituzioni e teoria, tra amministrazione e sapere, maturerà solo con il secondo governo austriaco. E' certo, però, che la Municipalità Provvisoria del 1797, nonostante l'esiguità della sua durata e la limitatezza dei suoi poteri, riuscì a porre le premesse di questa futura integrazione.
La curabilità del folle, il suo diritto all’assistenza, la sua necessaria appartenenza, entro l'istituzione ospedaliera, ad uno spazio specifico: la realtà' di queste innovazioni emerge, forse con una chiarezza ancora maggiore, dall'analisi dei documenti d'archivio. Il numero degli internamenti, innanzitutto, è in quell'anno il più alto che in tutti gli anni precedenti: sono internati 23 folli, di cui uno viene ricoverato due volte (114).
Questo numero abbastanza alto mette probabilmente in difficoltà la già dissestata struttura ospedaliera, proprio in quello stesso periodo messa alla prova dall'ordine di accogliere tra i suoi ammalati i militari francesi. Nel settembre del '97, quando laCommissione alle ricerche francesi si rivolge nuovamente a S. Servolo, spinta dalla necessità di trovare altri letti per i militari feriti, e sollecita un esatto quadro della disponibilità dei posti (115), la risposta del priore fa presente che una "stanza grande" è adibita "per il ricovero dei Pazzi voluto dal Comitato di Salute Pubblica" (116). In quel mese i pazzi, compresi quelli già esistenti, sono 12. Per un ospedale la cui capienza complessiva è di 250 posti letto può non essere molto, ma il priore fa presente di essere "intieramente mancante di qualunque genere di provviggioni"(117).Cinque maniaci risultano pagati, a partire da agosto; tuttavia, certamente, anche altri erano lì mantenuti dal governo, come si dice nel registro di accettazione dei pazzi (ora custodito nell’archivio della Fondazione San Servolo). Riguardo al primo internato del Comitato di salute pubblica, ricoverato con � 1:10 al giorno (118), con un decreto ricordato più sopra, non si accenna a chi sostiene la spesa. Anche i riferimenti seguenti, comunque, non sono precisi: per due internati si chiarisce che il pagamento è sostenuto dal Comitato di salute pubblica, per gli altri si parla genericamente di spese "del governo" (119) La cifra di mantenimento è fissata a 25 soldi al giorno. Le spese di mantenimento dei ricoverati sono competenza di diversi soggetti istituzionali – il Comitato militare, il Comitato sanità e la Commissione alle ricerche francesi – che con l’ospedale mantengono rapporti finanziari relativi alle loro specifiche competenze.
Ma per quanto riguarda i pazzi, il peso maggiore della loro gestione ricade decisamente sul Comitato di salute pubblica.
Dei 19 internati di quei mesi ben 13 sono ricoverati grazie a decreti del Comitato di salute pubblica, mentre il Comitato militare, che, come si vedrà, ha un ruolo importante per quel che riguarda la gestione complessiva dell'ospedale, ordina solamente tre volte l'internamento di altrettanti pazzi(120).
L'andamento dei ricoveri sembra registrare il clima politico: agosto è il mese in cui i 4 internamenti (il massimo numero in un mese), di cui tre sono mantenuti a spese del governo, avvengono per decreto del Comitato di salute pubblica. A ottobre compare, in un internamento e in una dimissione, la figura del Preside della polizia. Gli ultimi due mesi riflettono il clima di smobilitazione e di impasse della Municipalità: entra solo un folle, che, dimesso, ritorna il mese seguente in ospedale.
Il ruolo del Comitato di salute pubblica è forse ancora più chiaro ed esplicito nella gestione delle dimissioni. Le dimissioni sono ben 14: siamo nei tre mesi centrali di attività (agosto-settembre-ottobre) e i decreti del Comitato di salute pubblica prevalgono di gran lunga rispetto agli altri ordini di dimissione.
L'allusione ad un processo compiuto di guarigione è spesso esplicito: la dizione "parti sano" é frequente. Ma ancora più esplicita è la causa di dimissione di un folle, che portato a S. Servolo è "licenziato per non avere dato alcun segno di pazzia" (121): l'osservazione e il trattamento in base ad una precisa diagnosi di pazzia è quindi una pratica già in atto.
Un altro elemento è particolarmente significativo: tra le dimissioní di quei pochi mesi, gran parte, nove, riguardano internamenti avvenuti lo stesso anno; ma le altre riguardano situazioni di persone internate già da tempo; tra queste viene dimesso, con un decreto del 4 settembre, Michiel Rossi, una figura anomala rispetto alla configurazione dell'ospedale sotto il Governo Veneto. Questi, internato nel gennaio del 1790, compare, da quell'anno nei rendiconti annuali compilati dal ragionier Viola, tra le spese (122). Sul suo caso era stato fatto un decreto: la necessità di custodirlo "in luogo sicuro" e di non rimetterlo "mai" in libertà, aveva indotto il Senato a decretare, in modo del tutto anomalo, che il luogo in cui doveva essere custodito era San Servolo (123). Certo l' "infelice sua costituzione" (124) non era motivo sufficiente per il Comitato di salute pubblica per trattenerlo nell'ospedale: la dimissione è decretata il 4 settembre 1797 (125).
La concezione della follia come malattia curabíle è dunque ormai oggettivamente presente nella pratica ospedaliera. Il mentecatto che deve essere "curato", il ricoverato "pazzo furioso", si accompagnano al dimesso perché "sano" o perché non ha dato "alcun segno di pazzia".
Non sono certo elementi vistosi: mancano tra le carte dell'ospedale relazioni sui folli, o cenni più consistenti sulla loro presenza; anche gli elenchi dei farmaci, compilati con cura, non offrono voci specifiche al proposito. In quegli anni, d'altronde, non si può parlare di figure di alienisti: Portalupi, che sarà priore quando S. Servolo assumerà le connotazioní di manicomio, era allora semplicemente un sottochirurgo: si ritroverà poi a gestire un "morocomio", improvvisando una competenza contestata e discussa(126) .
Tuttavia, uno spazio specifico per la follia è stato aperto; il pagamento dei folli poveri, folli a cui, tra gli altri incontestabili diritti, è stato riconosciuto quello dell'assistenza, è stato attuato. L'ospedale ha assunto una fisionomia che si caratterizzerà e consoliderà, nel tempo. Per ora, e certamente ancora per molti anni, le sue funzioni coprono campi diversi della medicina. La sua importanza come ospedale militare in quegli stessi mesi, non diminuisce, tutt'altro. L'interesse della Municipalità per questa struttura traspare infatti dalle misure prese che lo riguardano direttamente.
CONTINUITA' AMMINISTRATIVA E GOVERNO POLITICO DELL ISTITUZIONE: ALCUNI DATI
San Servolo appare subito tra i primi provvedimenti amministrativi del Governo provvisorio; c'è, specificamente, un interesse per il suo assetto istituzionale, che deve essere garantito. E' il Comitato militare, che, nei primi giorni di vita della Municipalità, relaziona sull'ospedale, in quanto Ospedale militare, e propone il decreto di nomina di una Deputazione che se ne occupi. Nella breve relazione vengono ricordate la specifica funzione dell'ospedale: "destinato per alloggiare li soldati infermi del dipartimento di Venezia" (127) , e le modalità organizzative: "diretto [ … ] da una deputazione di quattro soggetti destinati dal Senato e uno di quelli esercitava l'ufficio di Cassiere"(128).
Si ritiene quindi necessario, per il "miglior governo di quell'utile stabilimento", di "istituire una Presidenza di quattro soggetti"(129): costoro, secondo la formulazione del decreto, devono essere nominati dalla Municipalità, ma non devono essere scelti tra i membri della Municipalità stessa. Così, all'approvazione del decreto, che sembra far rientrare nelle competenze del Comitato militare la futura "regolare sistemazione"(130) dell'ospedale, segue, il giorno dopo, il 27 maggio, un nuovo decreto con il quale la nomina dei quattro cittadini proposti dal Comitato militare è approvata dalla Municipalità. L'amministrazione dell'ospedale di S. Servolo è affidata ad una deputazione formata da Antonio Zinelli, Domenico Tamossi, Francesco Careggiani e Giuseppe Negri. Esce dalla scena Zuanne Zusto, che ricopriva dal 1793 la carica di deputato-cassiere: carica importante, in quanto la gestione finanziaria dell'ospedale era sotto la sua diretta responsabilità. Ma questa comprensibile sostituzione (uomini nuovi, meno legati al vecchio regime, devono occuparsi ora dell'ospedale), può riguardare solo le persone, ma non, invece, la loro funzione. La nomina di un deputato-cassiere è infatti indispensabile per garantire il funzionamento economico dell'ospedale.
Con la caduta del governo aristocratico vengono infatti a cessare le fonti di finanziamento di S. Servolo: gli assegni degli ex-uffici della Repubblica, ricostruiti con diligenza dalla Deputazione, non vengono più, ovviamente, pagati. L'equilibrio finanziario dell'ospedale, che fino ad allora si era mantenuto stabile, con scarse oscillazioni delle spese e con un sopravanzo di cassa annuale che ne testimonia la relativa prosperità (131), è gravemente compromesso.
Le relazioni della Deputazione inviate alla Municipalità, nei primi di giugno, insistono sulla necessità di risolvere il problema finanziario e sembrano richiamare l'attenzione dei politici sull'ospedale, "luogo, che impegnando in modo migliore il sentimento di umanità, merita in conseguenza di essere considerato uno dei principali oggetti del pubblico impegno" (132). I primi disguidi organizzativi emergono nelle relazioni: si parla di soldati francesi, ricevuti dal padre priore, per ordine vocale "di uno de' Ministri", senza istruzioni per quel che riguarda il trattamento e "i dovuti compensi agli esborsi''(133). La risposta, da parte dei pubblici poteri, non si fa attendere. Questa volta è il Comitato di sussistenze e fondazioni di pubblici soccorsi che presenta alla Municipalità la relazione nella quale espone le esigenze dell'ospedale e formula, tenendo presente le richieste della Deputazione, il decreto che la Municipalità approverà (134).
Il decreto, approvato poco dopo la prima metà di giugno, è attento soprattutto alla questione finanziaria: questa va risolta quanto prima perché, si ricorda, le esigenze dell'ospedale crescono di giorno in giorno, in quanto, proprio in questo periodo, si deve anche "provvedere alla inferma milizia francese"(135).
La nomina di un deputato-cassiere è quindi indispensabile ed urgente. Nel decreto si fa infatti riferimento alla "Partita di Banco � 508.13.1", a cui, precedentemente, attingeva "l'ex-patrizio Zuanne Zusto come cassiere del Pio Luogo": a questa partita devono poter accedere, per risolvere le più urgenti necessità dell'ospedale, i membri della nuova Deputazione. In quanto alle assegnazioni dell'ex-governo, calcolate per una somma complessiva di 1908 ducati, si ribadisce il "dovere" della Municipalità" di mantenere, interamente, questo impegno finanziario. L'esecuzione di queste direttive è delegata al Comitato alle finanze: il Comitato dovrà quindi, quanto prima, far girare il conto del Pubblico Banco Giro a nome di un deputato-cassiere e "corrispondere alli debiti tempi le solite contribuzioni" (136). Se quest'ultima affermazione sembra far parte più delle buone intenzioni che delle possibilità concrete della Municipalità, la prima parte del decreto viene invece attuata subito. Solo due giorni dopo la Deputazione elegge al suo interno, come deputato-cassiere, Giuseppe Negri. Nell'atto di nomina lo si individua dunque come referente per la gestione economica: d'ora in poi potranno "essere girate a suo nome in Pubblico Banco Giro le somme relative e spettanti a questo Pio Luogo, non che la pagabilità di qualunque somma dipendente dalli Comitati, con li quali può aver rapporto l'Ospitale medesimo (137). Per il resto, l'organizzazione dell'ospedale non muta (138): i padri ospedalieri di San Giovanni di Dio, sotto la guida del priore, gestiscono, con compiti ben distinti, l'organizzazione sanitaria.
Vi sono infatti il farmacista (139), con un aiutante, un chirurgo ed un sottochirurgo (il futuro priore, Portalupi), un infermiere ed un sottoinfermiere: il medico, invece, Marco Sesler, che lavorerà qui ancora per molti anni, è un esterno. Rimane inoltre, e conserverà il suo posto anche per gli anni seguenti, con i governi successivi, l'economo, Francesco Bagoni. Anzi, questa figura, nei mesi della Municipalità, diviene un punto di riferimento. Nonostante la nomina della Deputazione e del deputato cassiere, è all'economo che, da un certo punto in poi, si versano le somme che i comitati stanziano per S. Servolo(140), ed è sempre lui che compila la nota delle somme, in verità assai esigue, corrisposte negli ultimi mesi dalla Municipalità. Sistemato infatti l'aspetto formale della continuità amministrativa, S. Servolo rimane per i Municipalisti un capitolo preoccupante della spesa pubblica. Le spese dell'ospedale risultano diminuire nel corso dei mesi, probabilmente tagliate dallo stato di necessità; inizialmente, infatti, si cerca addirittura di riscuotere un vecchio credito dell'ospedale. Le somme stanziate dalla Municipalità, che risultano essere per la maggior parte saldi per alimenti e medicinali somministrati ai francesi ricoverati, sono esigue e non risolvono, se si deve dar credito alle continue lamentele del priore (141), nemmeno parzialmente la situazione.
I ricoveri, d'altra parte, sono decisamente gestiti dall'istanza politica e non solo per quel che riguarda i folli. Anche i ricoveri dei militari francesi vengono ordinati, senza possibilità di replica, dalla Commissione alle ricerche francesi. Ogni autonomia da parte dell'ospedale viene negata ed è significativa, a questo proposito, una polemica
che vede Dandolo accusare con ironia "i benefattori" di S. Servolo di voler vendere a prezzo più alto i loro medicinali (142) . La polemica di Dandolo contro la cattiva gestione dei padri ospedalieri – i Fatebenefratelli dell'ordine di S. Giovanni di Dio – è, a nostro avviso, la spia di una vocazione centralizzatrice del nuovo potere politico; si tratta di una tendenza, comune a tutti i nouveaux régimes dell'età post-rivoluzíonaria, ad eliminare quelli che Alexis de Tocqueville chiama i poteri secondari, i poteri intermedi tra i governi e la popolazione: gli individui, le "classi", le "corporazioni" e, in questo caso, gli ordini religiosi. Il governo della cosa pubblica si manifesta così, anche all'interno di queste minute vicende di un microcosmo ospedaliero, come volontà di prendere direttamente a carico la gestione di tutti quei momenti – dalla carità" all'"educazione" – che scandiscono le forme organizzative e le caratteristiche specifiche di un determinato assetto sociale. La Municipalità veneziana fa emergere, più sul terreno del programma che su quello della concreta pratica politica, una tendenza che riuscirà ad imporsi, a partire dal primo ottocento, in tutto il continente europeo.
"Quasi tutte le istituzioni di carità della vecchia Europa – annotava Tocqueville nel 1840 – erano nelle mani di singoli o di enti privati; esse sono cadute più` o meno tutte sotto la dipendenza del sovrano ed in parecchi paesi sono rette direttamente da lui. Lo Stato ha quindi intrapreso pressoché da solo a dare pane a chi ha fame, soccorso e ricovero ai malati, lavoro ai disoccupati; si è fatto il riparatore quasi unico di tutte le miserie" (143).
Un realismo lungimirante riscatta dunque la generosa e fertile impotenza dei programmi municipali: perché l'istanza centralizzatrice che li caratterizza prenda corpo, occorrerà aspettare l'avvento del secondo governo austriaco.
CENNI CONCLUSIVI
Durante l'ultimo decennio del sec. XVIII si assiste, anche nei territori della Serenissima, ad un movimento di riorganizzazione del campo medico, dei suoi saperi e delle sue "tecnologie", che coincide nel tempo con la caduta della repubblica e con l'avvento della nuova democrazia municipale. D'altra parte, la conquista da parte della medicina di un nuovo statuto politico è un fenomeno che si verifica in quegli
anni su scala europea e che, soprattutto in Francia, è strettamente connesso al tramonto dell'antico regime ed alla crescita del processo rivoluzionario (144).
Si è visto come l'attenzione ai folli come malati curabili ed il loro inserimento in uno spazio apposito e distinto, renderà possibile, negli anni a venire, la nascita di S. Servolo come dispositivo manicomiale. Queste innovazioni, avvenimenti quasi impercettibili e sotterranei, rispetto al clima politico convulso di quel periodo, non vengono, come si diceva, né preceduti né seguiti da una particolare attenzione o da specifiche elaborazioni teoriche attorno al problema della follia.
Tuttavia un filo rosso quasi invisibile collega queste innovazioni al campo medico. Il linguaggio dei registri di internamento, con la sua insistenza sulle dimissioni dei folli motivate sulla loro guarigione, inserisce direttamente il trattamento degli alienati, prima semplici oggetti di misure di sicurezza, entro l'orizzonte dello sguardo medico e delle sue articolazioni terapeutiche.
Certo, le trasformazioni della cultura e della coscienza medica che hanno reso possibile il definitivo affermarsi di un punto di vista terapeutico nei confronti della follia, come di altri mali ritenuti un tempo incurabili o di nuove malattie prima sconosciute, hanno una storia che andrebbe ricostruita a parte, in tutti i suoi dettagli; ma vi sono alcuni nodi problematici che emergono con evidenza ed attorno ai quali può essere individuato un momento di radicale ristrutturazione del campo medico.
Li elenchiamo con una necessaria sinteticità.
1.
Grande importanza assumono, innanzitutto, le campagne di guerra, a partire da quella napoleonica del 1796. Esse determinano un salto di qualità della medicina militare, che si concretizza in particolare nel potenziamento degli ospedali militari e da campo. All'organizzazione degli ospedali militari viene data grande importanza; i contatti con medici e ospedali locali sono curati in modo particolare; vista l'ovvia necessità di guarire i suoi ricoverati, l'ospedale militare accelera il movimento di convergenza tra le nozioni teoriche della medicina e la pratica ospedaliera. Non si dimentichi che l'insegnamento clinico venne per la prima volta organizzato in Francia nel 1775 (145), proprio all'interno degli ospedali militari. S. Servolo, del resto, nel 1797, era soprattutto – e lo rimase per lungo tempo – un ospedale militare.
2.
Il grande sviluppo della scuola clinica, nell'ospedale di Padova si verifica negli ultimi anni del secolo XVIII. Tra la prima opera dedicata dal Comparetti a questo problema, comparsa nel 1793 e la seconda (146), meno famosa, dedicata nel 1799 ai regolamenti del "nuovo spedale" c'è di mezzo il crollo della Serenissima e l'affermarsi delle nuove democrazioe municipali. La nascita della clinica scandisce l'avvento di una concezione moderna dell'ospedale:momento di intersezione tra la pratica medica e i suoi presupposti teorici, punto strategico a partire dal quale dovranno svilupparsi sia l'insegnamento che la ricerca. La clinica si innesta su una profonda trasformazione dell'ospedale, maturata nella seconda metà del '700: da un luogo indifferenziato che raccoglie e confonde poveri e malati di vario genere a luogo di cura, segmentato al suo interno sulla base della ripartizioni operate dalla nosologia medica. La presistoria del manicomio ha dunque alle sue spalle la nascita della clinica: un evento che presuppone il superamento della teoria insegnata nelle cattedre universitarie, troppo ancorata alla tradizione ed "arretrata di mezzo secolo" rispetto ai livelli europei, come dirà un medico militare francese, il Salmon, acuto osservatore ed autore di una Topografhie médicale de Padoue (147).
3.
Un altro momento fondamentale, assieme alla clinica e all'ospedale militare, che costringe la medicina ad uscire dalle strettoie dogmatiche del magistero universitario, è rappresentato dall'insorgere di nuove malattie, non previste e non codificate dalla tradizione. Proprio negli ultimi anni del '700, il pensiero medico italiano -ed in particolare quello vento e lombardo- si impegna a definire le caratteristiche, le cause ed i metodi di cura di un nuovo fenomeno morboso -la pellagra- che infuria nelle campagne ed assume, già a quell'epoca, le caratteristiche di una malattia di massa. La nascita della pellagra , malattia della pelle che, al suo ultimo stadio, porta i pazienti alla follia, pone il ceto medico di fronte a compite e problemi assolutamente nuovi: la penetrazione dell'intervento medico nelle campagne, la comprensione delle condizioni sociali del mondo contadino, la necessità di un controllo seriale e capillare del nuovo fenomeno morboso; Francesco Fanzago, insigne patologo padovano,
pubblica già nel 1792, un lavoro sulla pellagra (148) preoccupandosi innanzitutto di mettere a punto un approccio diagnostico differenziale.
La nascita di questa malattia endemica pone comunque alla medicina nuovi problemi e la obbliga a definire in maniera inedita il suo statuto politico: nascerà così anche in Italia e nel Veneto, la medizinische Polizei, fondata da Johann Peter Frank; nella futura organizzazione della polizia medica, Fanzago occuperà un ruolo di primissimo piano.
L'importanza della pellagra ed i compiti del nuovo organismo medico-politico assumeranno, in ogni caso, un enorme rilievo, sia rispetto alle procedure di internamento degli alienati, sia, conseguentemente, rispetto al necessario collegamento tra il manicomio e la realtà socio-politica che lo comprende.
Concludendo, è quindi attorno ad alcuni "luoghi" di cogente importanza, la "clinica", l'ospedale militare e la campagna infestata dalla pellagra, che comincia a prendere forma una nuova strutturazione del campo medico, nei diversi aspetti ed intrecci che abbiamo parzialmente elencato.
E' all'interno di questa riorganizzazione del campo medico, che si inserisce la trama di mutamenti, minuti, ma di capitale importanza, che hanno interessato l'ospedale di San Servolo. A tutto questo fa indubbiamente riferimento il gruppo di Municipalisti che si occupa, attivamente, della medicina. Le nostre ultime osservazioni vogliono riguardare proprio loro.
I municipalisti e le scienze mediche (medicina, chirurgia, farmacia e chimica): note su un frettoloso dibattito.
La particolare attenzione politica verso la malattia e la devianza, largamente presente anche nel progetto Giuliani, ed insieme l'implicita fiducia nei confronti dell'arte di guarire: sono questi i due elementi sottesi dal dibattito e dal provvedimenti della Municipalità Provvisoria, che hanno come oggetto una risistemazione del campo medico; dibattito e provvedimenti, forse di modesta portata, ma già indicativi di una nuova sensibilità.
Tra i membri del Comitato sanità, cui spetta, tra gli altri compiti, l'intervento nell'esteso campo della medicina, spicca la figura di Melancin; la sua zelante attività di relatore, i suoi suggerimenti e le sue proposte di decreti sembrano però riflettere largamente, visto il consenso e le scarse obiezioni che suscitano, il pensiero e l'orientameto di molti municipalisti. Dapprima, uniformandosi a uno stile d'intervento che caratterizza un po' tutta la prima fase della Municipalità, le relazioni di Melancin sembrano far leva soprattutto sullo spirito umanitario che deve essere insito nella professione e nella pratica medica; l'oggetto delle sue relazioni, la disastrosa situazione igenica delle carceri, favorisce senza dubbio l'assunzione di quest'ottica (149).
Il ribadire anche per i carcerati il diritto alla tutela della loro salute, si inserisce indubbiamente nel più ampio dibattito sui diritti dei cittadini, ma, in più, pare già avanzare l'idea di un ruolo chiave della medicina all'interno della società: si allude non solo e non tanto alla sua neutralità, bensì a un suo maggior peso nella decisioni dei politici, anche se l'allusione rimane, per ora, molto sfumata e indiretta.
Il tentativo di ritrovare nessi tra le iniziative specifiche e il dibattito generale è chiaro anche nell'altra proposta che il Comitato sanità, uniformandosi a un costume europeo e, non bisogna dimenticarlo, a precise direttive francesi già imposte attraverso l'armata d'Italia, porta avanti: la sepoltura dei cadaveri fuori dalle chiese (150). Nel decreto sulla tumulazioni, presentato alla sessione del 2 vendemmiatore (23 settembre) (151), oltre agli effetti igenico-sanitari si ricorda che viene, in tal modo, raggiunta "l'uguaglianza tra il ricco e il misero anco in morte" (152).
L'importanza della medicina è, comunque, così chiaramente riconosciuta da imporre studi e proposte per la sua riorganizzazione.
I punti fondamentali su cui intervenire sono due: la garanzia della sua scientificità e la definizione dei poteri della corporazione medica: momenti che, sostanzialmente, definiranno il suo futuro assetto.
La relazione che Melancin presenta (153) prende innanzitutto in esame, separatamente,la medicina, la chirurgia e l'arte degli spezieri. E' una separazione, riproposta anche negli articoli del decreto conclusivo, che è già, di per sé, una scelta. La consapevolezza della necessità della separazione di questi tre aspetti della scienza medica, era già scontata nella Venezia dell'ancien Règime; S. Servolo, citato come esempio di ottimo funzionamento di un ospedale, aveva infatti come medico, chirurgo e speziere, tre persone diverse; in alcune riunioni del senato viene addiritttura proposto come modello organizzativo per altri ospedali della città, evidentemente assai più malandati (154). Nella separazione di queste tre professioni c'è uniformità a livello europeo: con un certo stupore e con un'esplicita critica Desgenettes, medico d'armata in Italia, nota come nel regolamento della medicina militare austriaca si prevedesse invece il cumulo di queste professioni, ben distinte nell'ordine civile. Le carenze del funzionamento degli ospedali militari austriaci li imputa, senza troppe esitazioni, a questo elemento.
Tra le tre professioni vengono ritenuti indispensabili scambi a livello scientifico, come recita puntualmente il "Monitore Veneto"(155): tanto più che questo avviene già a Parigi, dove la Società reale di medicina si assume, attraverso iniziative promozionali, un ruolo di stimolo nel campo della ricerca medica, confermando così quella funzione che la caratterizza fin dalle sue origini.
Nel decreto veneziano, dunque, e nei 14 articoli che li riguardano, medici, chirurghi e farmacisti, separatamente, sono le figure attraverso cui deve passare la garanzia di scientificità dell'intervento medico. La preoccupazione principale del decreto pare essere la difesa dai ciarlatani, da coloro che esercitano senza aver compiuto il regolare curriculum di studi, ma anche da chi è "riconosciuto incapace" (156). La medicina e la sua credibilità scientifica sono messe duramente sotto accusa nel corso del dibattito. Nemmeno una voce interviene in favore, mettendo in risalto gli aspetti positivi, gli obiettivi gia raggiunti in campo medico (157); prevale, di gran lunga, la necessità di circoscrivere la possibilità di esercitare solo a chi è preparato e di escludere i ciarlatani: processo già avviato a livello europeo nel corso del '700. Nel corso delle accese discussioni dei Municipalisti e nelle relazioni stesse, si lasciano da parte gli indubbi meriti della medicina veneta. Non viene menzionato, ad esempio, il lavoro di aggiornamento e di confronto con le più avanzate situazioni europee, portato avanti, per ben 15 anni, dal "Giornale per servire alla storia ragionata della medicina", che pure usciva proprio a Venezia (158); eppure, questo importante periodico, nato nel 1783, è tra i primi ad ocuparsi di un ramo specifico delle scienze ed è diretto da un personaggio come Aglietti, che univa alla credibilità scientifica una certa credibilità politica che si concretizza anche nella sua partecipazione, come relatore, ad una importante cerimonia ufficiale della Municipalità in occasione dell'erezione dell'albero della Libertà in piazzetta(159).
E nessuno ricorda, inoltre, la tradizione medica italiana: figure di medici, nomi noti, ma anche nomi senza particolare rilievo, il cui valore viene riconosciuto dagli esigenti medici d'armata francesi, che si ritrovano, per necessità, a lavorare al loro fianco (160).
Ma quest'assenza ha una sua logica: l'ottica dei municipalisti è un'altra, è qui in ballo l'incidenza della medicina sul tessuto sociale; in questo progetto, che è un progetto politico, il valore individuale dei Fanzago, dei Tommassini, dei Moscati, dello stesso Aglietti, diventa un fatto marginale.
Importante è invece – e, su questo, si discute – che le ricette siano scritte in italiano e non in latino; la mozione di Dabalà, che Dandolo appoggia con decisione, viene approvata. "IL nativo idioma (161) è da preferirsi, come avviene ovunque; si può così controllare se il medico ha "idee determinate", si eliminano così i suoi "gerghi" ed il suo "empirismo"; la medicina, "vile impostura", deve avviarsi a un sostanziale mutamento e questa innovazione non è che la prima di una lunga serie(162). L'enfatizzazione dell'intervento di Dandolo, non occulta però l'aspetto di propositivo cambiamento che il decreto, nonostante molti articoli insistano sui divieti, più che su concrete proposte, contiene nella sua complessiva formulazione.
L'altro punto, cui abbiamo gia accennato, sul quale si catalizza il dibattito dei Municipalisti, riguarda lo spazio che deve essere lasciato alla corporazione medica e i suoi rapporti con il potere politico (163).
Già il parlare di "corporazione medica" è, per alcuni, un riconoscimento, una "concessione" (164) speciale; la volontà, infatti, comune ai Municipalisti, di abolire le corporazioni e, in questo caso, proprio perché è in gioco la salute dei cittadini, sospesa. Viene mantenuta quindi la corporazione dei medici; ma quando viene proposto che al suo interno funzioni un Comitato di censura che riconosca la "probità" dei medici stessi e che possa decretare l'espulsione per un triennio dei suoi membri, si levano le prime obiezioni. Negli interventi più ostili alla proposta si manifestano sia il timore di un eccessivo potere della corporazione sia la preoccupazione che solo il governo regoli l'organizzazione medica. E la cauta risposta di Melancin, che ricorda come "le regole del Comitato di censura" siano ristrette e non possano né debbano "turbare" e "ingelosire" (165) il governo, più che convincere gli interlocutori, fa capire come l'armonia, su questo terreno, sia ancora lontana. Tuttavia è al Comitato sanità che si decide di delegare il compito di riformulare l'articolo in sospeso: e i componenti del Comitato sanità (è palese dai loro interventi), hanno già chiara l'esigenza di una mediazione, di una organica relazione tra i compiti, le funzioni dei medici e l'intervento dello stato.
E' già ottobre avanzato quando Melancin legge il suo articolato rapporto sulla medicina, la chirurgia, la farmacia e la chimica (166). Il quadro della situazione veneta in campo medico prima della caduta della Repubblica, è stato analizzato, puntualmente, in tutti i suoi aspetti. Ma la breve vita della Municipalità non concede ulteriore spazio a progetti ambiziosi: la sessione nella quale si legge il rapporto è la stessa nella quale si discutono gli arresti recenti dei membri di una congiura antidemocratica.
Il trionfalismo con cui si annuncia che non è stato sparato nemmeno un colpo di fucile, non occulta la crisi profonda da cui è ormai attraversata la Municipalità; la scintillante progettualità che ha percorso per mesi le pubbliche sessioni è ormai quasi un ricordo. Le proposte si scontrano,ora, non più con un'istanza che ne deve vagliare la credibilità sociale e valutare attentamente l'efficacia politica; si arenano ormai sull'assenza di questa istanza, su un vuoto politico che Campoformido, realtà a lungo esorcizzata dai Municipalisti, ha provocato.
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